Operazione Presidente - Джек Марс 5 стр.


“E stai dicendo che la gente ha votato per questa roba?”

Scosse la testa, adesso con enfasi. “Crediamo che ci siano stati diffusi brogli elettorali e soppressione di voto in almeno cinque stati, tutti swing state. È per questo che dico che hanno rubato le elezioni.”

Luke stava cominciando a vedere il puzzle, ma mancavano dei pezzi. “Vuoi che indaghi sulla cosa?” disse. “È per questo che mi hai richiamato qui? Ci sarebbero altri cento…”

“No,” disse lei. “Hai ragione. Ci sono altre cento persone. Abbiamo messo degli analisti dei dati a esaminare le macchine elettorali. Abbiamo messo degli investigatori a interrogare della gente sulla soppressione dei voti, soprattutto nei distretti neri del sud rurale. E, in maniera circostanziale e aneddotica, le prove sono già piuttosto forti. Non abbiamo bisogno di te per l’indagine.”

La sua risposta lo confuse, e forse un po’ lo infastidì. Era solo ad alta quota in montagna a lavorare sui suoi problemi. A sfidarsi. A sfidare Dio a ucciderlo. Forse anche a trovare un po’ di chiarezza.

Adesso era di nuovo a Washington DC, a farsi rimproverare da suo figlio e a ricevere sorrisetti dalla sua ex suocera. Era stato in colonna nel traffico e si era sottoposto a controlli di sicurezza. Si era rasato la barba e si era fatto tagliare i capelli. Era tornato tra gli esseri umani normali e i loro interessi e le loro preoccupazioni. Quando era un soldato in combattimento, lo chiamavano ‘tornare al mondo’ – luogo in cui in realtà non voleva stare.

“Allora che cosa ci faccio qui?” disse.

“Ancora non ne sono sicura,” disse lei. “Però so di aver bisogno di te. Ho fatto una cosa senza precedenti rifiutandomi di consegnare il potere. Non è mai stato fatto prima nella storia americana. Le cose qui potrebbero scaldarsi molto rapidamente, e non ci sono molte persone nella mia amministrazione di cui mi fidi. Voglio dire completamente, al cento per cento, senza alcun dubbio. Qualcuna sì, ma non di più.”

Lo indicò. “E te. Fin dall’inizio del mio mandato come presidente non hai fatto che salvare questo paese. Tu mi hai salvato la vita. Hai salvato mia figlia. Potresti aver salvato il mondo da una guerra nucleare. Poi sei scomparso proprio quando le cose si sono messe bene. Non avevo mai incontrato un uomo come te, Luke. Sei fatto per il brutto tempo, per usare un eufemismo. E mi sembra che si stia preparando una tempesta.”

Fatto per il brutto tempo.

Non l’aveva mai sentita messa così. Però ovviamente era vero – lo aveva etichettato meglio di quanto avesse mai fatto Becca. Meglio di quanto si fosse mai etichettato lui stesso. Non solo era fatto per quello, ma era ciò che per cui viveva. Quando faceva bel tempo, si annoiava. Si allontanava. Andava in cerca di un uragano in cui perdersi.

“Allora che cosa vuoi che faccia?”

“Sta’ vicino. Vivi nella residenza della Casa Bianca per il momento. Possiamo darti un titolo ufficiale – guardia del corpo personale. Stratega dell’intelligence. È un po’ strano, ma non importa. Chuck Berg è ancora a capo del distaccamento dei servizi segreti per la sicurezza della casa. Ti conosce e ti rispetta. Ci sono moltissime stanze in cui alloggiare. Se vuoi puoi avere la camera di Lincoln. Ci ha dormito qualche persona famosa. Il cantante della rock band Zero Hour e la moglie ci hanno dormito qualche settimana fa. Belle persone – lui non c’entra niente col suo personaggio sul palco. Fa molta beneficienza in Africa, finanzia sistemi di filtrazione dell’acqua e via dicendo.”

Si fermò per prendere fiato prima di continuare. “Ovviamente la Casa Bianca è stata completamente ricostruita due anni fa, quindi Lincoln non ha mai dormito nella nuova camera di Lincoln, però…”

A Luke adesso parvero farneticazioni. Era come una bambina che cercava di spiegare qualcosa di importante a un adulto, senza mai dire di che cosa si trattasse.

“Vuoi una coperta di sicurezza,” le disse. “È per questo che sono qui.”

Annuì. “Sì. Ne avevo una da piccola. Era morbida e aveva cucita su la simpatica immagine di un dinosauro, che col tempo è svanita in una macchia verde. La chiamavo Copertina. Dio, mi manca.”

Adesso Luke rise proprio. La risata gli uscì come l’abbaiare improvviso di un cane. Era bello ridere. Non ricordava l’ultima volta che era successo.

“Copertina, eh?”

“Esatto. Copertina.”

C’era dell’altro che gli stava chiedendo? Non lo capiva. Diamine, la residenza della Casa Bianca? Doveva essere una promozione, dalla stanza al Marriott che gli avevano dato per la notte precedente.

“Ok,” disse. “Ci sto.”

CAPITOLO OTTO

20:26 ora della costa orientale

Sud di Canal Street

Chinatown, New York City


“Ok,” abbaiò Kyle Meiner. “Stiamo per beccarli. Quindi ascoltate!”

Kyle si accucciò nel retro di un lungo furgone nero per il trasporto merci che saltellava tra buche e solchi delle strade cittadine. Guardò i suoi uomini – otto tizi grossi, ammassati lì. Tutti là dentro erano muscolosi, tipi da palestra. Non c’era un uomo lì che non riuscisse a sollevare cento chili sulla panca o centotrentacinque in squat. Tutti assumevano come minimo creatina, e alcuni ragazzi buttavano giù steroidi, l’ormone per la crescita umana, in alcuni casi roba più esotica – quelli erano i seri. Ciascuno di loro aveva un taglio a spazzola o la testa rasata.

Il corpo di Kyle era come il loro, solo più grosso, se possibile. Aveva braccia come pitoni, gambe come tronchi d’albero. Le vene gli emergevano dai bicipiti, lungo il collo, la fronte, il petto, ovunque. A Kyle le vene piacevano.

Vene voleva dire flusso sanguigno. Vene voleva dire potere.

C’erano altri cinque furgoni come quello nel convoglio, e ciò diceva a Kyle che stavano per seminare quaranta o cinquanta pragmatici attivisti irriducibili per le strade. Aderenti t-shirt a manica lunga strette su petti e torsi – ciascuna maglietta nera con le parole TEMPESTA IMMINENTE in bianco. Le lettere sembravano vagamente ossa umane, e avevano schizzi di quello che pareva sangue rosso brillante lungo il fondo.

Occhi severi restituirono lo sguardo di Kyle. Quegli uomini erano la punta affilata della lancia.

“Non voglio vedere armi là fuori,” disse Kyle. “Nessun coltello, nessuna mazza, Dio vi aiuti se vedo una pistola. Tirapugni. Se avete addosso qualcosa, lasciatela nel furgone. Intesi?”

Qualcuno brontolò e borbottò.

“Come? Non vi sento.”

I brontolii stavolta furono più forti.

“Questo è un raduno e una manifestazione, ragazzi. Non un combattimento da strada. Se i musi gialli tirano su un combattimento, ok. Difendete voi stessi e gli altri. Lanciate pure qualche comunista contro un muro di mattoni, per quel che mi riguarda. Sappiate solo che quando arriva la polizia e vi trova armati, è reato. Abbiamo avvocati in chiamata rapida, pronti a partire, ma se vi fate beccare per possesso di armi, stasera non ne uscite, e forse non ne uscirete a lungo. Devo sentirvi su questo punto. Non voglio vedere nessuno al fresco. È un male per voi, ed è una cattiva pubblicità per l’organizzazione. Intesi? Dai!”

“Intesi!” urlò qualcuno.

“Yo!”

“Abbiamo capito, bello.”

Kyle sorrise. “Bene. E adesso andiamo a spaccare qualche culo.”

I cartelli erano impilati nel retro. La maggior parte diceva L’America è nostra! Uno diceva I gialli a casa loro! Quello era il cartello di Kyle. Se quegli uomini erano la lama affilata, lui era la goccia di veleno sulla punta.

Aveva ventinove anni, ed era un organizzatore della Tempesta Imminente da poco più di due. Era il lavoro dei suoi sogni. Dove aveva trovato le reclute? In sala pesi, quasi esclusivamente. Gold’s Gym. Planet Fitness. YMCA. Posti in cui grossi e forti uomini passavano il tempo, uomini che ne avevano abbastanza. Della censura. Del pensiero della polizia. Dei lavori buoni che finivano oltreoceano. Della mescolanza razziale.

Della religione di multiculturalismo che veniva loro imposta.

Se qualcuno cinque anni prima avesse detto a Kyle che avrebbe raccolto gruppi di uomini – i migliori, i più duri, i più aggressivi giovani bianchi che riuscisse a trovare – e che avrebbero infuso la paura del Signore nelle persone che stavano trascinando giù quel paese… che avrebbero riportato l’America alla grandezza… e che lui sarebbe stato pagato per farlo? Be’, Kyle avrebbe detto che quel qualcuno era un idiota.

Però, eccolo qui.

Ed ecco i suoi ragazzi.

E il loro era un uomo che era stato appena eletto presidente degli Stati Uniti.

Non c’era che la luce del giorno davanti, e avrebbero fatto molta, moltissima strada. E chiunque si fosse parato davanti a loro, che avesse cercato di fermarli o anche solo di rallentarli – chiunque del genere sarebbe stato falciato. Così stavano le cose.

Le portiere posteriori del furgone si aprirono, e i ragazzi saltarono giù afferrando i cartelli. Kyle fu l’ultimo. Uscì in strada, la notte che pareva risplendere attorno a lui. Fuori faceva freddo – nevicava anche un po’ – ma Kyle era troppo esaltato per sentirlo. La strada era stretta, con caseggiati di quattro piani ad affollarla su ciascun lato. Tutti i cartelli al neon delle vetrine erano in cinese, grovigli di assurdità incomprensibili – impossibili da leggere, impossibili da capire.

Era ancora America, quella? Certo che sì. E la gente qui parlava inglese.

I furgoni parcheggiarono in fila. Ovunque grossi uomini bianchissimi in maglie nere, una massa che rimbalzava e si contorceva. Erano una forza d’invasione, come vichinghi in un raid costiero. Brandivano i cartelli come asce d’armi. Il sangue correva rapido.

Una folla di minuscoli asiatici sgomenti guardava con… cosa?

Shock? Orrore? Paura?

Oh sì, tutte quante.

Cominciò il primo slogan, un po’ mansueto per i gusti di Kyle, ma per cominciare andava bene.

“L’America… è nostra!”

I ragazzi trovarono la loro voce e il volume salì di una tacca.

“L’AMERICA… È NOSTRA!”

Kyle fletté le braccia. Fletté la parte superiore della schiena, e le spalle rotonde, e le gambe. Era un raduno, certo, ed era quello che aveva detto ai suoi uomini. Ma sperava che diventasse qualcosa di più. Tratteneva la rabbia da quello che sembrava moltissimo tempo.

I raduni andavano bene, però aveva davvero voglia di spaccare teste.

Nel giro due minuti, il suo desiderio venne esaudito. Mentre la fila di manifestanti si spostava giù per la strada, a forse quindici metri da lui, cominciò uno spintonamento.

Uno dei suoi prese un cinese da entrambe le spalle e lo spinse contro una vetrina di portafogli. Il cinese cadde attraverso la vetrina, che collassò istantaneamente. Altri due cinesi saltarono sul tizio. Improvvisamente, Kyle correva. Lasciò cadere il cartello e si precipitò tra la folla.

Atterrò un cinese con un pugno, poi guadò un gruppo dei loro, nuotando di brutto. I suoi pugni rompevano ossa.

E, lo sapeva bene, ne sarebbero arrivati altri.

CAPITOLO NOVE

21:15

Ocean City, Maryland

“Non benissimo,” disse Luke.

L’ascensore era tutto tappeti e pareti in vetro. Una doppia riga di pulsanti percorreva il pannello metallico. Scorse il suo riflesso nello specchio concavo di sicurezza nell’angolo in alto. Era un’immagine di lui strana, distorta, da casa degli specchi, totalmente in conflitto con il riflesso sulle pareti di vetro. Il vetro normale mostrava un uomo alto vicino alla mezza età, molto in forma, con profonde zampe di gallina attorno agli occhi e un principio di grigio nei corti capelli biondi. Gli occhi sembravano antichi.

A fissarli, improvvisamente poté vedersi da uomo vecchissimo, solo e spaventato. Era solo al mondo – più solo di quanto fosse mai stato. In qualche modo gli ci erano voluti due interi anni per capirlo. Sua moglie era morta. I suoi genitori se n’erano andati da tanto. Suo figlio si stava indurendo nei suoi confronti. Non c’era nessuno nella sua vita.

Poco prima, in macchina, appena prima di entrare nell’ascensore, aveva ripescato il vecchio numero di cellulare di Gunner. Era sicuro che Gunner ce lo avesse ancora. Il ragazzo avrebbe tenuto il numero anche dopo essersi trasferito dai nonni, anche dopo aver preso il miglior iPhone nuovo disponibile. Luke ne era sicuro – Gunner teneva il suo vecchio numero perché più di tutto voleva sentire suo padre.

Luke aveva inviato un semplice messaggio al vecchio numero.

Gunner, ti voglio bene.

Poi aveva aspettato. E aspettato. Niente. Il messaggio era andato nel vuoto, e non era tornato niente. Luke non sapeva neanche se fosse il numero giusto.

Come si era arrivati a quello?

Non aveva tempo di riflettere sulla risposta. L’ascensore si aprì direttamente nell’ingresso dell’appartamento. Non c’era corridoio. Non c’erano altre porte eccetto quelle doppie di fronte a lui.

Le porte si aprirono e lì c’era Mark Swann.

Luke si immerse nella sua visione. Alto e magro, con lunghi capelli biondo rossiccio e occhiali rotondi alla John Lennon. Aveva i capelli raccolti in una coda di cavallo. Era invecchiato, in due anni. Era più pesante di prima, soprattutto attorno alla parte media del tronco. Il volto e il collo sembravano più spessi. La t-shirt aveva le parole SEX PISTOLS sul davanti in lettere che potevano essere usate per scrivere un biglietto di riscatto. Indossava blue jeans, con scarpe Converse All-Star a scacchiera gialla e nera ai piedi.

Swann sorrise, ma Luke vide chiaramente che sforzo c’era dietro. Swann non era felice di vederlo. Sembrava che avesse mangiato pesce avariato.

“Luke Stone,” disse. “Accomodati.”

Luke ricordava l’appartamento. Era grande e iper-moderno. C’erano due piani, open space, con un soffitto alto sei metri. Una scala di acciaio e cavi saliva al primo piano, dove si collegava una passerella. Lì c’era un soggiorno, con un ampio divano sezionale bianco. Dietro di esso l’ultima volta c’era un dipinto astratto – assurde chiazze rabbiose rosse e nere che si sviluppavano per un metro e mezzo – Luke non ricordava bene come fosse. Comunque, adesso era sparito.

I due si strinsero la mano, poi si abbracciarono con fare imbarazzato.

“Albert Helu?” disse Luke usando il nome dell’alias di Swann che possedeva l’appartamento.

Swann scrollò le spalle. “Se ti va. Puoi chiamarmi Al. È come mi chiamano tutti qui. Ti porto una birra?”

“Certo. Grazie.”

Swann sparì in cucina attraverso una porta a vento.

Alla sua destra Luke poteva vedere il centro di comando di Swann. Era cambiato pochissimo. Una partizione in vetro lo divideva dal resto dell’appartamento. Una grossa sedia in pelle se ne stava a una scrivania con un argine di computer fissi sul pavimento al di sotto di essa, e tre schermi piatti sopra. Dei cavi correvano per tutto il pavimento come serpenti.

Sulla parete in fondo, dall’altra parte del sofà, c’era un gigantesco televisore a schermo piatto, forse grande la metà di quelli del cinema. Era muto. Sullo schermo, circa una dozzina di furgoni e auto della polizia erano parcheggiati su una via cittadina, le luci che lampeggiavano nell’oscurità. Cinquanta poliziotti erano in fila. Del nastro giallo della polizia si allungava in molte direzioni. Una grossa folla di gente stava dietro al nastro, fin giù per l’isolato e lontano dalla scena.

LIVE diceva la didascalia sotto alla scena. CHINATOWN, NEW YORK CITY

Swann tornò con due bottiglie di birra. Istantaneamente Luke seppe perché Swann si stava ingrassando. Trascorreva molto tempo a bere birra.

Swann indicò la tv. “Hai sentito?” disse.

Luke scosse la testa. “No. Cos’è?”

“Circa quarantacinque minuti fa un mucchio di neonazisti ha cercato di fare una specie di manifestazione nel mezzo di Chinatown a New York. Tempesta Imminente, mai sentiti?”

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