Operazione Presidente - Джек Марс 6 стр.


“Swann, e se ti dicessi che ho passato gli ultimi due anni a vivere più che altro in tenda?”

“Allora direi che non hai mai sentito della Tempesta Imminente. Comunque, in realtà sono un’organizzazione no-profit che si dedica alla custodia e alla promozione culturale… di cosa? Dei bianchi, immagino. Europei americani? Boh. Vogliono rendere l’America sicura per i bianchi. Jefferson Monroe è il loro finanziatore maggiore – fondamentalmente sono la sua versione moderna delle camicie brune. Probabilmente ci sono una mezza dozzina di gruppi così adesso, ma penso che questo sia il più grosso.”

“Cos’è successo?”

Swann fece spallucce. “Cosa vuoi che sia successo? Si sono messi a picchiare gente a caso per strada. Tu questi non li hai mai visti. Sono squadre di scagnozzi. Tipi grossi. Lanciavano gente in giro. Un paio di persone del vicinato se l’è presa. Hanno risposto ai nazisti. Si è sparato a un po’ di gente, l’ultima conta diceva cinque morti. Chi ha sparato è ancora a piede libero. È quella che chiamano una situazione fluida.”

“La gente uccisa era tutta dei nazisti?” disse Luke.

“Così pare.”

Luke fece spallucce. “Be’…”

“Esatto. Non una gran perdita.”

Luke distolse lo sguardo dalla tv. Aveva difficoltà a capacitarsi di quel che stava accadendo. Susan Hopkins credeva che le elezioni fossero state rubate. Il suo avversario, il presidente entrante, finanziava un gruppo neonazista che aveva appena acceso la scintilla di una piccola guerra razziale a New York City. Era così che venivano fatte le cose adesso? Quando era cambiato tutto? Luke era stato via parecchio, apparentemente.

“Che hai fatto ultimamente, Swann?”

Swann sedette sul grande divano bianco. Fece un cenno al posto di fronte al suo. Luke si accomodò. Aveva il beneficio tangibile di essere voltato dall’altra parte rispetto alla tv. Da dove si trovava lui, poteva guardare fuori dalle porte di vetro oscurato che davano sulla terrazza sul tetto di Swann. La vasca idromassaggio emanava una pallida luce al neon azzurra. Per il resto, là fuori era più che altro buio. Luke aveva dormito sul terrazzo, una volta. Sapeva che nelle ore di luce offriva una vista panoramica sull’oceano Atlantico.

“Non molto,” disse Swann. “Niente, a essere sincero.”

“Niente?”

Swann parve pensarci per un attimo. “Lo stai vedendo. Sono in disabilità. Quando siamo tornati dalla Siria, non sono mai riuscito a… a tornare al lavoro. Ci ho provato un paio di volte. Ma l’intelligence è roba seria. Non ci avevo mai dato importanza quando erano gli altri a rimanere feriti. Ma dopo la Siria? Ho avuto attacchi di panico. Le teste segate, sai? Per un po’ le vedevo continuamente. È stato brutto. È stato troppo.”

“Mi dispiace,” disse Luke.

“Anche a me. Credimi. E non è finita. Sono un po’ un recluso adesso. Tengo il mio vecchio appartamento a Washington DC, ma per lo più vivo qui adesso. È sicuro. Nessuno può arrivarci se non lo voglio io.”

Stone ci pensò per un secondo, ma non disse nulla. Era abbastanza vero, tutto sommato. La stragrande maggioranza della gente lì non ci poteva arrivare. La gente onesta e normale. La gente carina. Ma i cattivi? Gli assassini? Quelli delle black op? Loro ci sarebbero arrivati, se avessero voluto.

“Esco raramente,” disse Swann. “Ordino la spesa su internet. Faccio entrare il ragazzo nell’edificio da qui, e lo monitoro quando sale in ascensore. Lo osservo con la tv a circuito chiuso. Gli lascio una mancia in corridoio, lui lascia le borse della spesa sulla porta, e io lo guardo scendere. Poi esco in corridoio a prendere la roba. Un po’ patetico. Lo so.”

Luke non disse nulla. Era triste che Swann fosse ridotto a quello, ma Luke non l’avrebbe definito patetico. Capitava. Forse avrebbe potuto aiutare Swann, riportarlo nel mondo, ma forse no. In ogni caso ci sarebbe voluto molto lavoro, e tempo, e Swann avrebbe dovuto volerlo. A volte traumi psicologici del genere non guarivano mai davvero. Swann era stato prigioniero dell’ISIS, stava per essere decapitato quando Luke e Ed Newsam si erano presentati lì senza invito. Era stato percosso e avevano finto di fargli l’esecuzione prima che arrivassero.

Tra loro ci fu un silenzio, un silenzio non bello.

“C’è stato un periodo in cui ho biasimato te per quello che mi è successo.”

“Ok,” disse Luke. Quella era la verità di Swann, e Luke non si sarebbe messo a discutere la cosa con lui. Ma Swann aveva accettato la missione volontariamente, e Luke e Ed avevano rischiato la vita per salvarlo.

“Capisco che non ha molto senso, e adesso non lo credo, però mi ci sono voluti mesi di terapia per trovarmi in questo stato. Tu e Ed avete questo strano bagliore attorno a voi. È come se foste sovrumani. Anche quando rimanete feriti, sembra che non vi feriate sul serio. La gente vi si avvicina troppo e comincia a pensare che questa cosa che avete voi si applichi anche a loro. Ma non è così. La gente normale si ferisce, e muore.”

“Adesso sei in terapia?”

Swann annuì. “Due volte la settimana. Ho trovato uno che lo fa via video. Lui è nel suo ufficio e io sono qui. È piuttosto buona.”

“Che cosa ti dice?”

Swann sorrise. “Dice: qualsiasi cosa tu faccia, non comprare un’arma. Io gli dico che vivo al ventottesimo piano con un balcone aperto. Non mi serve un’arma. Posso morire quando mi pare.”

Luke decise di cambiare argomento. Parlare dei modi in cui Swann poteva suicidarsi… non era allegro.

“Vedi spesso Ed?”

Swann scrollò le spalle. “Non lo vedo da un po’. È preso dal lavoro. È comandante della squadra Recupero ostaggi. È spesso fuori dal paese. Una volta ci vedevamo di più. È praticamente lo stesso, però.”

“Ti va di lavorare un po’?” disse Luke.

“Non lo so,” disse Swann. “Penso che dipenda da che cos’è. Le richieste, quello che devo fare. Non voglio neanche giocarmi la disabilità. Paghi in nero?”

“Lavoro per la presidente,” disse Luke. “Susan Hopkins.”

“Carino. Che cosa le serve da te?”

“Pensa che le elezioni siano state rubate.”

Swann annuì. “Ho sentito. Le notizie viaggiano alla velocità della luce in questi giorni, ma questa è una storia destinata a durare. Non vuole dimettersi. Ma tu che c’entri? E, cosa più importante, io cosa c’entrerei?”

“Be’, probabilmente vorrà della raccolta di informazioni da parte nostra. Immagino che voglia smontare questi tipi. Al momento non ho dettagli.”

“Posso lavorare da qui?” disse Swann.

“Immagino di sì. Perché no?”

Luke fece una pausa. “Ma la verità è che questa conversazione mi preoccupa un po’. Sei diverso da prima. Lo sai. Vorrei assicurarmi che tu abbia ancora le tue vecchie doti.”

Swann non parve infastidito. “Mettimi alla prova come ti comoda. Sono qui giorno e notte, Luke. Che cosa pensi che faccia del mio tempo? Hackero. Ho tutte le mie vecchie doti, e alcune di nuove. Potrei persino essere meglio di prima. Finché non devo uscire…”

Adesso Swann fece un attimo di pausa. Fissò la birra che teneva nelle mani, poi alzò lo sguardo su Luke. Aveva gli occhi seri.

“Odio i nazisti,” disse.

CAPITOLO DIECI

12 novembre

8:53 ora della costa orientale

Ala ovest

Casa Bianca, Washington DC


“Ci sono state violenze per tutta la notte,” disse Kat Lopez. “I dettagli ce li ha Kurt, ma il peggio è stato a Boston, San Francisco e Seattle.”

“Perché non ne sono stata informata?” disse Susan.

Percorrevano i corridoi dell’ala ovest verso lo Studio Ovale. I tacchi ticchettavano sul pavimento di marmo. Susan si sentiva meglio di quanto non si sentisse da un po’ – ben riposata da una lunga notte di sonno. Aveva fatto colazione nella cucina di famiglia senza controllare le notizie neanche una volta. Stava cominciando a credere che gli eventi stessero volgendo al meglio. Fino a un minuto prima.

Kat scrollò le spalle. “Volevo che dormisse un po’. Non c’era nulla che lei potesse fare in piena notte, e ho pensato che questa sarebbe stata un’altra giornataccia. Kurt è stato d’accordo con me.”

“Ok,” disse Susan. Immaginava di dire sul serio.

Un uomo dei servizi segreti aprì loro le porte ed entrarono nello Studio Ovale. Lì in piedi c’era Kurt Kimball, le maniche arrotolate, pronto a partire. Luke Stone sedeva in una delle poltrone, quasi nella stessa posizione della sera precedente.

Stone indossava una semplice t-shirt nera con una giacca in pelle, jeans ed eleganti stivali di pelle. Sembrava più fresco, meno distante, più presente nel qui e ora rispetto al giorno prima. Aveva gli occhi vivi. Stone era un cowboy dello spazio, decise Susan. Talvolta era via, nell’etere. Era lì che andava quando scompariva. Ma adesso era tornato.

“Salve, Kurt,” disse Susan.

Kurt si girò verso di lei. “Susan. Buongiorno.”

“Begli stivali, agente Stone.”

Stone sollevò l’orlo dei jeans di qualche centimetro per mostrarle meglio lo stivale. “Ferragamo,” disse. “Me li ha dati un tempo mia moglie. Hanno un valore sentimentale.”

“Mi dispiace per tua moglie.”

Stone annuì. “Grazie.”

Si instaurò una pausa di imbarazzo. Se avesse potuto, una parte di Susan – la parte emotiva, si potrebbe pure chiamarla la parte femminile – avrebbe passato i successivi venti minuti a chiedere a Stone della moglie, della relazione che aveva avuto con lei, di come avesse processato la sua morte e di cosa stesse facendo per prendersi cura di se stesso. Ma Susan non ne aveva il tempo, adesso. La sua parte pratica e insensibile – l’avrebbe chiamata la parte maschile di sé? – procedeva con l’agenda del giorno.

“Ok, Kurt, che hai per me?”

Kurt indicò lo schermo televisivo. “Gli eventi si muovono veloci. Fin qui nessuna sorpresa. Ieri notte c’è stata una sparatoria di massa nella Chinatown di New York City. Un ampio gruppo di operativi della Tempesta Imminente è emerso da un convoglio di furgoni neri attorno alle venti e trenta e ha tenuto una manifestazione a sud di Canal Street. È stata una provocazione, ovviamente. Nel giro di pochi minuti si sono trovati coinvolti in risse da strada con i residenti del vicinato.”

“Tempesta Imminente, eh?” La Tempesta Imminente era una delle organizzazioni finanziate da Monroe che facevano venire il voltastomaco a Susan. Spesso si chiedeva che cosa pensassero di fare esattamente quelle persone. Certo, finora la violenza era consistita quasi esclusivamente in minacce su internet. Adesso era reale.

Kurt annuì. “Sì. Pare che reclutino i loro attivisti in base della corporatura. Le zuffe sono state assolutamente squilibrate per parecchi minuti, finché due killer sotto contratto delle Triadi di Hong Kong – apparentemente a New York per un omicidio su commissione – hanno aperto il fuoco con mitra Uzi. L’ultimo conto parla di trentasei feriti, inclusa una dozzina di cinesi, probabilmente colpiti per errore, e sette morti, tutti membri della Tempesta Imminente. Ci si aspetta che altri tre membri muoiano presto.”

Susan non sapeva bene come rispondere. Bene? Le venne in mente.

“I membri della Triade?”

“In custodia presso il dipartimento di polizia di New York per assassinio multiplo, tentato omicidio e possesso di armi. Hanno degli interpreti assegnati dalla corte, e l’ultima cosa che ho sentito è che una squadra di legali è in viaggio da Hong Kong. Le Triadi sono ben finanziate, per usare un eufemismo, e ci si aspetta che gli avvocati tentino di costruire un caso di legittima difesa per gli omicidi e che si dichiarino colpevoli del possesso di armi.”

“Che ne pensi di questo approccio?” disse Susan.

Kurt sorrise e scosse il capo. “New York non ha la pena di morte. È praticamente l’unica cosa che quelli hanno dalla loro parte per il momento.”

“E se li grazio e li rimando a casa con delle medaglie?”

“Penso che abbiamo già abbastanza problemi.”

“Dimmi il resto,” disse.

“Be’, una volta che la notizia di New York è uscita, pare che siano saltati tutti gli argini. Gruppi di giovani hanno cominciato a entrare nella Chinatown di Boston verso le ventidue aggredendo gente per la strada. Sembra che fossero uomini che stavano bevendo in bar delle vicinanze, perché i quattro che sono stati arrestati erano tutti ubriachi.”

“Quattro uomini arrestati? Hai parlato di gruppi…”

“Sì. Pare che la polizia di Boston sia stata per certi versi più indulgente di quanto si potrebbe sperare, e che abbia lasciato andare la maggior parte dei trasgressori con un semplice avvertimento.”

“Che altro?”

“Un gruppo della branca di Oakland del gruppo motociclistico dei Nazi Lowriders è entrato nella Chinatown di San Francisco e ha aggredito la gente per le strade con stecche da biliardo segate e manganelli. Ne sono stati arrestati più di quaranta. Due delle vittime delle aggressioni sono in condizioni critiche negli ospedali della zona.”

Susan sospirò e scosse la testa. “Ottimo. C’è altro?”

“Sì. Probabilmente la notizia più esaltante. Jefferson Monroe ha in programma di parlare a un raduno dei suoi seguaci stamattina, forse per affrontare il tema delle violenze di ieri sera, forse per chiedere di nuovo a lei di accettare i risultati delle elezioni. Nessuno è sicuro al cento per cento di quale sarà il copione. La parte migliore è il luogo in cui si terrà il raduno.”

A Susan non piaceva quando Kurt faceva l’evasivo.

“Ok, Kurt. Piantala. Dove?”

“A Lafayette Park. Dall’altra parte di questa strada.”

CAPITOLO UNDICI

9:21 ora della costa orientale

Lafayette Park, Washington DC


Era una cosa bellissima di cui essere testimoni.

Lo chiamavano il Parco del Popolo, e oggi il popolo era tutto lì.

Non i soliti abitanti del parco, dove generazioni su generazioni di marmaglie, agitatori e radicali – il volgo, i perdenti della vita – si erano accampate per protestare contro le politiche di un presidente dietro l’altro.

No. Non quelli.

Questo era il suo popolo. Un mare di gente – migliaia, decine di migliaia – che ieri notte si era passata parola tramite social per dirsi che il loro uomo oggi avrebbe parlato qui. Era una mossa furtiva, un’accoltellata alla schiena, il tipo di mossa in cui eccelleva Gerry O’Brien. Aveva ottenuto dalla città il permesso per quell’assemblamento appena prima della chiusura delle attività del venerdì sera, e la notizia si era diffusa come un incendio nel corso della notte, le fiamme fomentate da venti di uragano.

Adesso il popolo era tutto lì, con addosso i giganteschi cappelli di Abramo Lincoln e in mano i cartelli – cartelli fatti a mano, cartelli ufficiali della campagna, cartelli creati professionalmente dalle dozzine di organizzazioni che avevano sostenuto la campagna. La maggior parte della gente indossava pesanti e caldi cappotti e cappelli per ripararsi dal freddo assurdo.

Jefferson Monroe guardò dal palco improvvisato la brulicante massa umana – era come un festival rock and roll là fuori – e seppe di essere nato proprio per quel momento. Settantaquattro anni e molte, molte vittorie: dai primi giorni come teenager contrabbandiere d’alcolici nei recessi dell’Appalachia, passando per il periodo di giovane e arrabbiato crumiro, ambizioso dirigente d'azienda e alla fine maggior azionista e leader dell’industria del carbone.

Dopo era diventato senatore per la Virginia Occidentale e politico conservatore influente pesantemente finanziato dalle stesse aziende di carbone per cui un tempo aveva lavorato. E adesso… presidente eletto degli Stati Uniti. Una vita di lotte, lunghi decenni di salita a partire dal fondo, a farsi strada con le unghie, e improvvisamente, quasi per sorpresa (una risoluzione che non si aspettava nessuno, nemmeno lui), era l’uomo più potente della Terra.

Era lì per costringere la presidente in carica a lasciare la Casa Bianca in anticipo, e permettere a lui di entrarvi. Era la cosa più audace che avesse mai tentato. Oltre le folle e dall’altra parte della strada principale riusciva a vedere la Casa Bianca in lontananza, a sorgere su un verde poggio. Lo vedeva lei da lì? Stava guardando?

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