“Sei bellissimo, Stone. Come un’antica statua greca, uh, con una benda. Magari però i ragionamenti lasciali a me. Tu puoi adagiarti lì, a fare il bello.”
“L’ho interrogato alla sua fattoria, in Florida,” disse Stone. “Gli ho chiesto che cosa sapesse su Jefferson Monroe e sui brogli elettorali. Lui è stato chiaro con me fin da subito. Ed è bravo con i cavalli. Delicato. Deve pur voler dire qualcosa.”
“Lo terrò a mente,” disse Susan. “La prossima volta che cerco un cowboy.”
Stone scosse la testa, ma continuò a sorridere. “Il paese è spaccato, Susan. Gli eventi recenti hanno peggiorato più che mai i sentimenti. Tu te la cavi ancora bene, ma il Congresso ha i rating di approvazione più bassi della storia americana. Se credi ai sondaggi, i politici, i talebani e la Chiesa di Satana hanno tutti un punteggio molto simile, in America. Gli avvocati, l’agenzia delle entrate e la Mafia italiana hanno numeri molto più alti.”
“E lo dici perché…”
“Perché ciò che vuole il popolo americano adesso è che destra e sinistra, liberali e conservatori, si uniscano un pochino e comincino ad agire per il bene del paese. Strade e ponti devono essere ricostruiti, il sistema ferroviario dovrebbe stare in un museo, le scuole pubbliche cadono a pezzi, e non costruiamo un nuovo aeroporto maggiore da quasi trent’anni. Siamo al trentaduesimo posto nella sanità, Susan. Siamo in basso. Possiamo davvero avere altri trentun paesi davanti a noi? Perché te lo dico, sono stato in giro per il mondo, e i paesi buoni finiscono al numero ventuno o ventidue. Questo ci mette dietro a un sacco di brutti paesi.”
Sospirò. “Con un po’ di sostegno da parte dei conservatori, potremmo riuscire a far passare il mio pacchetto infrastrutture…”
Lui le tamburellò con un dito sulla fronte. “Adesso stai usando la zucca. Lief ha passato in senato diciotto anni. Conosce il gioco meglio di chiunque altro.”
“Pensavo che la politica non facesse per te,” disse lei.
“Infatti.”
Scosse la testa. “È quello che mi spaventa.”
Lui si mosse verso di lei. “Non spaventarti. Te lo dico io che cosa fa per me.”
“Dimmi.”
“La fisicità,” disse. “Con una come te.”
Adesso scacciò i ricordi, con il fantasma di un sorriso in volto. Si era alienata per un po’. Sul monitor, Stephen Lief si stava preparando per il giuramento. Si teneva nel vecchio studio di Susan all’Osservatorio navale. Ricordava bene la stanza e la casa. Era la bellissima villa turrita e timpanata in stile Regina Anna di metà Ottocento sul terreno dell’Osservatorio navale di Washington DC. Per decenni era stata la residenza ufficiale del vicepresidente degli Stati Uniti.
Si metteva sempre alla grande finestra a golfo visibile sul monitor, a fissare i bellissimi prati in pendenza del campus dell’Osservatorio navale. Il sole del pomeriggio passava per quella finestra, in un gioco incredibile di luci e ombre. Per cinque anni, aveva vissuto in quella casa da vicepresidente. L’aveva adorata, e ci si sarebbe ritrasferita in un battito di ciglia, se avesse potuto.
Ai vecchi tempi, di pomeriggio e di sera, usciva a fare jogging sul terreno dell’Osservatorio con gli uomini dei servizi segreti. Quelli erano anni di ottimismo, di discorsi entusiasmanti, di saluti e incontri con migliaia di americani speranzosi. Ormai sembrava una vita fa.
Susan sospirò. La mente vagava. Ricordò il giorno dell’attentato a Mount Weather, l’atrocità che l’aveva catapultata fuori dalla sua felice vita da vicepresidente nel furente tumulto degli ultimi anni.
Scosse la testa. No, grazie. Non avrebbe pensato a quel giorno.
Attraverso lo specchio, su una piccola pedana, si trovavano due uomini e una donna. I fotografi vagavano come moscerini, scattando foto a loro.
Uno degli uomini sulla pedana era basso e calvo. Indossava una lunga toga. Era Clarence Warren, presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti. La donna si chiamava Judy Lief. Indossava un tailleur azzurro brillante. Aveva un sorriso che andava da un orecchio all’altro e teneva una Bibbia aperta in mano. Il marito, Stephen, aveva messo la mano sinistra sulla Bibbia. La destra era sollevata. Lief veniva spesso considerato arcigno, ma persino lui sorrideva un po’.
“Io, Stephen Douglas Lief,” disse, “giuro solennemente di sostenere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti contro tutti i nemici, esterni e interni.”
“Di serbarle fedeltà…” suggerì il giudice Warren.
“Di serbarle fedeltà e vero affidamento,” disse Lief. “Senza alcuna riserva mentale, e di bene e fedelmente adempiere ai doveri della carica che sto per assumere.”
“Dio mi aiuti,” disse il giudice Warren.
“Dio mi aiuti,” disse Lief.
Nella mente di Susan apparve un’immagine – un fantasma del passato recente. Marybeth Horning, l’ultima persona ad aver prestato quel giuramento. Era stata una mentore per Susan al Senato, e una specie di mentore da vicepresidente. Con la sua figura piccola e sottile e i grandi occhiali, sembrava un topolino, ma ruggiva come un leone.
Poi le avevano sparato e l’avevano uccisa per… cosa? Per la sua politica liberale, si potrebbe dire, ma non era vero. Alla gente che l’aveva uccisa le differenze politiche non interessavano – tutto ciò che interessava loro era il potere.
Susan sperava che il paese potesse superare la cosa, adesso. Osservò Stephen in tv abbracciare la sua famiglia e altri amici.
Si fidava di quell’uomo? Non lo sapeva.
Avrebbe cercato di farla uccidere?
No. Non credeva. Lui aveva più integrità. Non aveva mai sentito che fosse un subdolo, quando era senatrice. Immaginava che fosse un inizio – aveva un vicepresidente che non avrebbe cercato di ucciderla.
Si immaginò i giornalisti del New York Times e del Washington Post chiedere: “Cosa le piace dell’idea di avere Stephen Lief come suo nuovo vicepresidente?”
“Be’, non mi ucciderà. E questo mi dà una bella sensazione.”
Poi Kat Lopez fu al suo fianco.
“Uh, Susan? La microfoniamo così può congratularsi con il vicepresidente Lief e dirgli due parole di incoraggiamento.”
Susan balzò fuori dal sogno a occhi aperti. “Certo. Buona idea. Probabilmente gli faranno comodo.”
CAPITOLO TRE
23:16 ora di Israele (16:16 ora della costa orientale)
Linea Blu, confine tra Israele e Libano
“Non obbedite ai mentitori, ai miscredenti,” sussurrava il diciassettenne.
Fece un respiro profondo.
“Lottate contro di essi vigorosamente. Combatteteli finché Allah li castighi per mano vostra, li copra di ignominia, vi dia la vittoria su di loro.”
Il ragazzo era decisamente agguerrito. A quindici anni aveva lasciato casa e famiglia per entrare nell’Esercito di Dio. Aveva attraversato il confine in Siria e aveva trascorso gli ultimi due anni a combattere strada per strada, faccia a faccia e a volte corpo a corpo gli apostati di Daesh, come avevano chiamato l’ISIS gli occidentali.
Daesh non aveva paura di morire – anzi, quelli la morte l’accoglievano con entusiasmo. Molti di loro erano vecchi ceceni e iracheni, difficilissimi da uccidere. Gli ultimi giorni passati a opporsi a loro erano stati un incubo, ma il ragazzo era sopravvissuto. In due anni aveva combattuto tante battaglie e ucciso tanti uomini. E aveva imparato molto sulla guerra.
Ora si trovava nell’oscurità della pendice di una collina del nord di Israele. Si sistemò un lanciarazzi anticarro sulla spalla destra. Ai primi tempi un razzo pesante come quello gli avrebbe bucato la spalla, e dopo un po’ le ossa avrebbero cominciato a dolere. Però adesso era più forte. Il peso non gli faceva più tanta impressione.
C’era una piccola schiera di alberi attorno a lui, e molto vicino, a terra, un gruppo di commando che osservavano la carreggiata sottostante.
“Combattano dunque sul sentiero di Allah, coloro che barattano la vita terrena con l’altra,” disse, molto piano, sottovoce. “A chi combatte per la causa di Allah, sia ucciso o vittorioso, daremo presto ricompensa immensa.”
“Abu!” sussurrò qualcuno ferocemente.
“Sì.” La voce sua, invece, era calma.
“Zitto!”
Abu fece un respiro profondo e l’esalazione uscì lentamente.
Era un esperto del razzo anticarro. Ne aveva sparati così tanti, ed era diventato così preciso, da essere adesso un uomo molto prezioso. Era una cosa che aveva imparato sulla guerra. Più a lungo si sopravviveva, più abilità si accumulavano, e migliore si diventava nel combattimento. Migliori si diventava, più preziosi si era, ed era ancor più probabile rimanere in vita. Ne aveva conosciuti molti che non era sopravvissuti a lungo in combattimento – una settimana, dieci giorni. Ne aveva incontrato uno che era morto il primo giorno. Se solo fossero riusciti a durare un mese, le cose avrebbero cominciato a farsi più chiare per…
“Abu!” sibilò la voce.
Annuì. “Sì.”
“Pronto? Arrivano.”
“Ok.”
Si mise al lavoro, rilassato, quasi come se si stesse solo allenando. Sollevò il lanciarazzi e ne aprì il fondo. Sistemò la mano sinistra lungo la canna, leggermente, leggermente, finché non comparve l’obiettivo. Niente presa troppo ferma troppo presto. L’indice della mano destra accarezzava il meccanismo del grilletto. Si mise il mirino vicino alla faccia, ma non all’occhio. Gli piaceva tenere gli occhi liberi fino all’ultimo momento, in modo da acquisire il quadro intero prima di concentrarsi sui dettagli. Curvò leggermente le ginocchia, la schiena arcuata di pochissimo.
Adesso vedeva venire dal convoglio della luce, dietro alla collina alla sua destra, in avvicinamento sulla strada. Le luci raggiunsero la sommità, gettando strane ombre. Qualche secondo dopo udì il rombo dei motori.
Fece un altro respiro profondo.
“Fermo…” disse una voce severa. “Fermo.”
“Signore Allah,” disse Abu, le parole che uscivano rapidamente ora, e più forti di prima. “Guida le mie mani e i miei occhi. Consentimi di portare morte ai tuoi nemici, nel tuo nome e nel nome del tuo adoratissimo profeta Maometto, e di tutti i grandi profeti di tutti i tempi.”
La prima jeep sbucò dalla curva. I tondi fanali adesso erano chiari, lì a tagliare la foschia notturna.
Abu il ragazzo si irrigidì istantaneamente sotto al peso della pesante arma. Mise l’occhio destro sul mirino. Apparvero i veicoli della fila, grossi, come se potesse allungare una mano e toccarli. Il dito gli si strinse sul grilletto. Il respiro gli rimase incastrato in gola. Non era più un ragazzo con un lanciarazzi – lui e l’arma si fusero insieme, diventando un’unica entità, una macchina assassina.
Tutt’intorno ai suoi piedi, degli uomini si muovevano come serpenti, strisciando verso la carreggiata.
“Fermo,” ripeté la voce. “La seconda macchina, capito?”
“Sì.”
Nel mirino, la seconda jeep era LÌ. Vedeva le ombre delle persone che c’erano dentro.
“È facile,” sussurrò. “Facilissimo… Fermo…”
Trascorsero due secondi, Abu lentamente fece passare il lanciarazzi da destra a sinistra, seguendo l’obiettivo, senza mai vacillare.
“FUOCO!”
* * *
Avraham Gold questa parte la odiava.
Odiare era la parola sbagliata. La temeva. In qualsiasi secondo, ormai, poteva arrivare.
Qui parlava sempre. Parlava troppo. Gli pareva di poter sputar fuori tutto, solo per superare quel posto. Diede un lungo tiro alla sigaretta – era contro alle regole fumare di pattuglia, ma era l’unica cosa che lo rilassava.
“Lasciare Israele?” disse. “Mai! Israele è casa mia, ora e per sempre. Farò dei viaggi all’esterno, certo, ma andarsene? Come potrei mai? Siamo stati chiamati da Dio a vivere qui. Questa è la Terra Santa. Questa è la terra promessa.”
Avraham aveva vent’anni, caporale delle forze di difesa israeliane. I suoi nonni erano tedeschi sopravvissuti all’Olocausto. Credeva a ogni parola che diceva. Ma gli suonavano comunque vuote alle orecchie, come un trito spot televisivo pro-coloni.
Era al volante della jeep, a guidare la terza e ultima auto della fila. Guardò la ragazza seduta accanto a lui. Daria. Dio, che bella!
Persino con i capelli quasi rasati, persino con il corpo coperto cerimoniosamente dall’uniforme. Era il sorriso. Poteva accendere il cielo. E quelle lunghe ciglia – da gatta.
Lei non aveva ragione di stare lì, in quella… terra di nessuno. Soprattutto con le sue vedute. Era una liberale. Non ci dovrebbero essere liberali nelle IDF, aveva deciso Avraham. Erano inutili. E Daria era peggio che liberale. Era…
“Io non credo nel tuo Dio,” disse semplicemente. “Lo sai.”
Adesso Avraham sorrise. “Lo so, e quando uscirai dall’esercito farai…”
Terminò lei il suo pensiero. “Un trasferimento a Brooklyn, esatto. Mio cugino ha una ditta di traslochi.”
Quasi rise, nonostante il nervosismo. “Sei una ragazzina un po’ scheletrica per trasportare divani e pianoforti su e giù per rampe di scale.”
“Sono più forte di quanto tu…”
Allora la radio strillò. “Pattuglia Abel. Rispondete, pattuglia Abel.”
Lui sollevò il ricevitore. “Abel.”
“Ubicazione?” giunse la voce metallica.
“Stiamo entrando proprio adesso nel settore nove.”
“Giusto in tempo. Ok. Occhi aperti.”
“Sì, signore,” disse Avraham. Risistemò il ricevitore e guardò Daria.
Lei scosse la testa. “Se è così preoccupante, perché non fanno qualcosa?”
Lui si strinse nelle spalle. “È l’esercito. Sistemeranno la cosa quando accadrà qualcosa di terribile.”
Il problema ce lo avevano proprio davanti. Il convoglio si spostava da est a ovest lungo la sottile striscia di carreggiata. Alla loro destra c’era una schiera di fitta e profonda foresta – cominciava a cinquanta metri dalla strada. Le IDF avevano ripulito il territorio fino al confine. Dove cominciavano gli alberi, c’era il Libano.
Alla loro sinistra c’erano tre verdi colline scoscese. Non proprio montagne, ma nemmeno appena in pendenza. Erano secche, e cadevano a strapiombo. La carreggiata si avvolgeva attorno e dietro di esse, e per un solo istante le comunicazioni radio erano inconsistenti, e i convogli vulnerabili.
Il comando delle IDF parlava di quelle colline da più di un anno. Dovevano essere le colline. Non potevano sgombrare la foresta perché era territorio libanese – avrebbe causato un incidente internazionale. Quindi per un po’ avrebbero fatto saltare per aria le colline. Poi avrebbero costruito una torre di guardia sulla cima di una di esse. Entrambi i piani erano stati giudicati inidonei. Far saltare le colline voleva dire che la strada avrebbe dovuto essere temporaneamente deviata lontano dal confine. E la torre di guardia sarebbe stata sotto costante minaccia di attacco.
No, la cosa migliore da fare era far passare delle pattuglie tra le colline e la foresta giorno e notte e sperare per il meglio.
“Guarda quei boschi,” disse Avraham. “Occhi aperti.”
Si accorse di aver appena ripetuto le esatte parole del comandante. Che scemo! Lanciò un’altra occhiata a Daria. Il suo pesante fucile giaceva lungo la sua sottile figura. Ridacchiava e scuoteva la testa, facendosi rossa in volto.
Nell’oscurità davanti, dalla loro sinistra eruttò un bagliore di luce.
Si schiantò contro alla jeep centrale, venti metri davanti a loro. L’auto esplose, girò alla sua sinistra e rotolò. L’auto bruciò, gli occupanti già inceneriti.
Avraham schiacciò i freni, ma troppo tardi. Sbandò nel veicolo in fiamme.
Accanto a lui, Daria urlò.
Avevano attaccato dal lato sbagliato – il lato della collina. Lì non c’era copertura. Erano dentro a Israele.
Non c’era tempo per parlare, non c’era tempo per dare un ordine a Daria.