I colpi d’arma da fuoco adesso arrivavano da entrambi i lati. I proiettili di una mitragliatrice gli crivellarono la portiera. DANK-DANK-DANK-DANK-DANK. Il finestrino gli andò in pezzi, gettandogli addosso vetro. Almeno uno dei colpi aveva penetrato il giubbotto. Era stato colpito. Si abbassò lo sguardo sul fianco – c’era un’oscurità crescente che si espandeva. Sanguinava. Lo sentiva a malapena – sembrava la puntura di un’ape.
Grugnì. Degli uomini correvano nell’oscurità.
Istantaneamente, prima di accorgersene, aveva la pistola in mano. La puntò fuori dal finestrino mancante.
BLAM!
Il rumore fu assordante per le sue orecchie.
Ne aveva preso uno. Ne aveva preso uno. Era andato giù.
Ne mirò un altro.
Fermo…
Accadde qualcosa. Tutto il suo corpo venne strattonato sul sedile. Aveva mollato la pistola. Un colpo, qualcosa di pesante, lo aveva attraversato. Era venuto da dietro e aveva forato il cruscotto. Uno sparo, o un piccolo razzo. Con cautela, intorpidito dal terrore, si portò una mano al petto e toccò la zona sotto alla gola.
Era… andata.
Aveva una grossa voragine sul petto. Come cavolo faceva a essere ancora vivo?
La risposta giunse istantaneamente: presto non lo sarebbe stato.
Non lo sentì neanche. Una sensazione di calore gli si diffuse per il corpo. Guardò di nuovo Daria. Che peccato. Voleva convincerla di… qualcosa. Adesso non sarebbe mai accaduto.
Lei lo fissava. Aveva gli occhi rotondi, come piattini da caffè. Aveva la bocca aperta in una gigantesca O di orrore. Sentiva il bisogno di consolarla, persino adesso.
“Va tutto bene,” voleva dirle. “Non fa male.”
Ma non riusciva a parlare.
Al finestrino dietro di lei apparvero degli uomini. Con i calci dei fucili, distrussero i resti del vetro. Entrarono delle mani, per cercare di tirarla fuori dal finestrino, ma lei lottò. Si lanciò su di loro a mani nude.
Si aprì la portiera. Ora erano in tre, a trascinarla, tirarla.
Poi era sparita, e lui era solo.
Avraham fissò il veicolo bruciare nell’oscurità davanti a lui. Gli venne in mente che non aveva idea di quel che era successo al veicolo di testa. Immaginava che adesso non avesse importanza.
Pensò brevemente ai suoi genitori e a sua sorella. Voleva bene a tutti loro, semplicemente e senza rimpianti.
Pensò ai nonni, forse pronti a riceverlo.
Non sarebbe più potuto uscire dal veicolo in fiamme. Erano solo rossi, gialli e aranci brillanti che sfarfallavano contro allo sfondo nero. Osservò i colori farsi sempre più piccoli e sempre più fiochi, l’oscurità che si diffondeva e che si faceva ancora più oscura. L’inferno dell’auto esplosa adesso sembrava il tremolio di una candela spenta.
Guardò finché non si spense l’ultimo colore.
CAPITOLO QUATTRO
16:35 ora della costa orientale
Quartier generale dello Special Response Team
McLean, Virginia
“Be’, immagino che il gruppo sia tornato insieme ufficialmente,” disse Susan Hopkins.
Luke al pensiero sorrise.
Era il primo giorno dello Special Response Team negli alloggi nuovi di pacca. Il nuovo quartier generale era quello di una volta, ma ristrutturato. Il tozzo edificio a tre piani di vetro e cemento si trovava nel benestante sobborgo di McLean, a sole poche miglia dalla CIA. Aveva un’elisuperficie con un nuovo Bell 430 nero curvo sull’asfalto come una libellula, sul fianco il brillante logo bianco dell’SRT.
C’erano quattro SUV neri dell’agenzia nel parcheggio. L’edificio aveva uffici al pianterreno e al primo piano, e una sala conferenze all’avanguardia che quasi faceva il paio con la sala operativa della Casa Bianca. Aveva ogni gadget tecnologico che la febbrile mente di Mark Swann potesse evocare. La palestra (completa di attrezzatura cardio, macchine per la pesistica e una sala allenamento con pareti molto imbottite) e la mensa si trovavano al secondo piano. Il poligono di tiro insonorizzato si trovava nel seminterrato.
La nuova agenzia aveva venti impiegati, le dimensioni perfette per rispondere a eventi in corso rapidamente, con leggerezza e in totale flessibilità. Scorporata dall’FBI e ora organizzata come subagenzia dei servizi segreti, la disposizione limitava le interazioni di Luke con la burocrazia federale. Faceva rapporto direttamente alla presidente degli Stati Uniti.
Il piccolo campus era circondato da recinzioni di sicurezza con in cima filo spinato. Però in quel momento i cancelli erano spalancati. Oggi c’era l’Open Day. E Luke era felice di esserci.
Percorreva i corridoi a grandi passi con Susan, entusiasta di mostrare alla presidente degli Stati Uniti tutte le cose che lei già conosceva. Gli sembrava di avere cinque anni. Le lanciava un’occhiata di tanto in tanto, si immergeva nella sua bellezza, ma non fissava. Soffocava la voglia di tenerla per mano, cosa che apparentemente faceva anche lei, perché la mano di lei gli sfiorava la sua, il braccio, la spalla, quasi costantemente.
Susan doveva conservare tutto quel contatto per dopo.
Luke rivolse l’attenzione all’edificio. Il luogo era stato messo insieme esattamente come aveva sperato, e così l’SRT. I suoi avevano accettato di unirsi a lui. Non era una questione da poco – con tutte le fatiche che avevano sopportato, e la lunga assenza di Luke, era un miracolo che tutti fossero disponibili a fidarsi ancora di lui.
Lui e Susan entrarono nella mensa e guadarono la folla, seguiti da due agenti dei servizi segreti. Una dozzina di persone circa formava una coda serpentina al bar. Alla finestra, Luke scorse la persona che cercava, in piedi tra Ed Newsam e Mark Swann, sovrastato dai muscoli gonfi di Ed e da quella pertica di Swann. Suo figlio, Gunner.
“Vieni, Susan, laggiù c’è qualcuno che voglio presentarti.”
D’un tratto parve affranta. “Aspetta, Luke! Questo non è il…”
Lui scosse la testa, e stavolta la afferrò davvero – per il polso. “Andrà tutto bene. Digli che sei il mio capo. Mentigli.”
Emersero dalla folla e apparvero accanto a Gunner, Ed e Swann. Swann aveva i capelli in una coda di cavallo, occhiali avvolgenti in viso. Aveva il lungo corpo avvolto in una t-shirt nera dei RAMONES, blue jeans sbiaditi, con sneakers Chuck Taylor a scacchiera gialla e nera ai grossi piedi.
Ed sembrava enorme con un dolcevita nero, pantaloni eleganti beige e scarpe in pelle nera. Aveva un orologio d’oro della Rolex al polso. Aveva capelli e barba nero corvino, tagliati cortissimi, e in maniera meticolosa, come siepi curate da un maestro giardiniere.
Swann era ai sistemi informatici – uno dei migliori hacker con cui Luke avesse mai lavorato. Ed era alla armi e tattica – era venuto alla Delta Force dopo Luke. Era assolutamente devastante nell’uso della forza. Aveva un bicchiere di vino – sembrava minuscolo nella sua mano gigantesca. Swann teneva una lattina nera di birra con il logo di un pirata in una mano, un piatto con molti e grossi sandwich nell’altra.
“Ragazzi, conoscete entrambi Susan Hopkins, vero?” disse Luke.
Ed e Swann le strinsero la mano a turno.
“Signora presidente,” disse Ed. La squadrò da capo a piedi e sorrise. “Che piacere rivederla.”
Luke quasi rise davanti a Ed che faceva gli occhi da lupo alla presidente. Scompigliò i capelli a Gunner. Fu leggermente imbarazzante, perché Gunner era un pochino troppo alto per farsi scompigliare i capelli.
“Signora presidente, questo è mio figlio, Gunner.”
Lei gli strinse la mano ed esibì la sua simpatica faccia da Sono la presidente e sto incontrando un bambino a caso. “Gunner, è un vero piacere conoscerti. Ti diverti alla festa?”
“È ok,” disse lui. Arrossì tantissimo e non incrociò il suo sguardo. Era ancora un bambino timido, per certi versi.
“Le tue ragazze sono qui?” disse Luke a Ed, cambiando argomento.
Ed fece spallucce e sorrise. “Oh, stanno correndo da qualche parte.”
A margine del gruppo apparve una donna. Era alta, bionda e impressionante. Indossava un tailleur rosso e i tacchi alti. Ancor più impressionante dell’aspetto fu il fatto che andò dritta da Luke, ignorando la presidente degli Stati Uniti.
Allungò verso Luke uno smartphone come fosse stato un microfono.
“Agente Stone, sono Tera Wright, della WFNK, il notiziario radio numero uno di Washington DC.”
Luke quasi rise alla presentazione. “Salve, Tera,” disse. Si aspettava che gli chiedesse della riapertura degli uffici dello Special Response Team, e del mandato che avrebbe avuto l’SRT nella lotta al terrorismo nel paese e all’estero. Bello. Una cosa di cui non gli sarebbe dispiaciuto parlare.
“Come posso aiutarla?”
“Be’,” cominciò Tera, “vedo che la presidente è qui per la grande riapertura della sua agenzia.”
Luke annuì. “Certo che c’è. Penso che la presidente sappia quant’è impor…”
La donna lo interruppe. “Può rispondere a una domanda per me, per favore?”
“Certamente.”
“Le voci sono vere?”
“Uh, non so di nessu…”
“Da un paio di settimane girano delle voci,” lo informò Tera Wright.
“Voci su cosa?” disse Luke. Guardò il gruppo, come un uomo che affoga e spera che gli venga lanciata una corda.
Tera Wright sollevò una mano come a dire STOP. “Cambiamo sistema,” disse. “Quale direbbe essere la natura della sua relazione con la presidente Hopkins?”
Luke guardò Susan. Susan era una del mestiere, nella questione. Non arrossì. Non parve colpevole. Si limitò a sollevare un sopracciglio e a fissare interrogativamente la nuca della reporter, come se non avesse idea di che cosa stesse dicendo.
Luke prese fiato. “Be’, direi che la presidente Hopkins è il mio capo.”
“Nient’altro?” disse la reporter.
“Come per lei,” disse Luke. “È anche la mia comandante in capo.”
Diede un’altra occhiata a Susan, pensando che adesso sarebbe saltata su per reindirizzare la conversazione. Ma adesso c’era il capo di gabinetto di Susan, la carina Kat Lopez, in un attillato gessato azzurro. Kat era ancora snella, anche se il volto non era neanche lontanamente giovanile come quando aveva accettato quel lavoro. Tre anni di stress costante e caos totale avrebbero fatto male a chiunque.
Parlava a bassa voce, praticamente sussurrava, direttamente nell’orecchio di Susan.
Il viso di Susan si oscurò mentre ascoltava, poi annuì. Di qualsiasi cosa si trattasse, era brutta.
Alzò lo sguardo.
“Signori,” disse. “Spero che mi scuserete.”
CAPITOLO CINQUE
18:15 ora della costa orientale
Sala operativa
Casa bianca, Washington DC
“Amy,” disse Kurt, “per favore, dacci Libano e Israele. Concentrati sulla Linea Blu.”
Sull’eccessivo schermo alle sue spalle, apparve una mappa. Un secondo dopo, comparve anche sugli schermi più piccoli incassati alle pareti. La mappa mostrava due territori tagliati da una spessa e ondulata linea blu. Alla sinistra del terreno c’era una zona azzurro pallido, a denotare il mar Mediterraneo.
Susan conosceva l’area abbastanza bene da poter saltare tranquillamente la lezione di geografia. Inoltre, era frustrata – era tornata alla Casa Bianca già da un’ora. Ci era voluto tutto quel tempo per mettere insieme la riunione.
“Passerò rapidamente in rassegna i preliminari, se non dispiace a nessuno,” disse Kurt. “Immagino che in questa stanza siate tutti abbastanza aggiornati sugli eventi correnti da sapere che quasi due ore fa c’è stata una schermaglia sul confine tra il Libano e Israele.
“La Linea Blu, che vedete qui, è il confine negoziato, dietro al quale Israele ha accettato di ritirare le truppe dopo la guerra del 1982 e l’occupazione. Un numero ignoto di commando di Hezbollah ha compiuto un’incursione e ha attaccato una pattuglia israeliana sulla strada che segue la Linea Blu per gran parte della lunghezza. Sulla pattuglia c’erano otto soldati delle forze di difesa israeliane, e sappiamo che sono rimasti uccisi tutti eccetto uno.”
Sugli schermi apparve una fotografia formale di una giovane donna dai capelli scuri. Sembrava una foto presa dall’annuario delle superiori, o prima di una qualche cerimonia. La ragazza sorrideva radiosa. Anzi, di più – era decisamente raggiante.
“Daria Shalit,” disse Kurt. “Diciannove anni, appena all’inizio del secondo anno del servizio obbligatorio di due anni nelle IDF.”
“Carina,” disse qualcuno nella stanza.
Kurt non rispose. Gli sfuggì un lungo sospiro.
“Credetemi, si fanno un gran sbattere i pugni sul tavolo ed esami di coscienza nei circoli decisionali israeliani. Le donne partecipano alle pattuglie al confine da mesi. Ora pare chiaro che qui si è trattato di un rapimento programmato della Shalit, o di qualsiasi giovane donna presente nella pattuglia, come obiettivo previsto. Una forza d’assalto ha seguito i rapitori oltre il confine, ma nel giro di due chilometri è andata incontro a una furiosa resistenza. Sono stati uccisi altri quattro israeliani, insieme a venti militanti di Hezbollah, secondo le stime.”
“Elena di Troia,” disse un uomo in abito militare verde.
Kurt annuì. “Esatto. L’effetto sulla società israeliana è stato viscerale. È stato un pugno nello stomaco, e probabilmente quello era l’intento. Le informazioni in nostro possesso indicano che Hezbollah stia deliberatamente cercando di far scoppiare una guerra, simile a quella avvenuta nel 2006. Purtroppo sospettiamo che stiano conducendo Israele a una trappola.”
“Hezbollah è tosta,” disse il militare. “Sono difficili da sradicare.”
“Amy,” disse Kurt. “Dammi Hezbollah, per favore.”
Sullo schermo comparve l’immagine di un gruppo di uomini in marcia con striscioni, i pugni in aria. Kurt indicò gli uomini con un puntatore laser.
“Hezbollah – il Partito di Dio, o Esercito di Dio, a seconda della traduzione che si preferisce – probabilmente è l’organizzazione terroristica più grande e più militarmente capace del mondo. Sono stati creati, e addestrati, finanziati e schierati, in nome e per conto del governo iraniano, con operazioni che attraversano l’Europa, l’Africa, l’Asia e le Americhe.
“Nel terrorismo, Hezbollah è ampliamente formidabile. Godono di credibilità a livello mondiale presso i musulmani sciiti, di sofisticatezza nelle operazioni e di un’abilità organizzativa che l’ISIS può solo sognare presso i sunniti. Le aree del Libano dove è di base Hezbollah spesso agiscono de facto da governo locale, con la piena cooperazione della popolazione. Gestiscono scuole, il cibo, lo svago e i programmi di lavoro, e inviano una manciata di rappresentanti eletti al parlamento libanese. L’ala militare è molto più efficiente e potente dell’esercito libanese. Viste le differenze religiose tra musulmani sciiti e sunniti, Hezbollah e l’ISIS sono nemici, e hanno giurato di distruggersi a vicenda.”
“E che c’è di così tremendo nella cosa?” disse Susan, scherzando solo in parte. “Il nemico del mio nemico è mio amico, no?”
Kurt quasi sorrise. “Attenzione. La politica di Hezbollah verso il nostro vicino alleato Israele è di aperta guerra santa. Stando a Hezbollah, Israele è una minaccia esistenziale, che opprime la società libanese, opprime i palestinesi, e che deve essere distrutta a tutti i costi.”
“Hanno modo di farlo?” disse Susan.
Kurt scrollò le spalle.
“Potrebbero arrecare dei danni, di estensione a noi ignota. Stime attuali indicano che Hezbollah abbia tra i venticinquemila e i trentamila combattenti. Forse tra i diecimila e i quindicimila con esperienza di combattimento, o nella guerra del 2006 o avendo combattuto più di recente direttamente contro all’ISIS nella guerra civile siriana. Crediamo che almeno ventimila truppe abbiano ricevuto addestramento dai Guardiani della rivoluzione iraniani – cinquemila o più sono state in Iran per ricevere un addestramento esteso.