Il Nostro Sacro Onore - Джек Марс 4 стр.


“Hezbollah ha una rete di profondi tunnel e fortificazioni nella regione collinare appena a nord della Linea Blu, che durante la guerra del 2006 con Israele si è dimostrata impossibile da eliminare completamente via aria. Le stime dell’intelligence israeliana indicano che questi forti dal 2006 si sono fatti più profondi, più temprati e più sofisticati. La nostra intelligence indica che Hezbollah ha più di sessantacinquemila razzi e missili, in più milioni di proiettili per armi piccole. L’arsenale che hanno probabilmente è cinque volte più grande di quello che avevano nel 2006. In tutta la storia di Hezbollah, l’Iran si è dimostrato riluttante a rifornirli di altro che missili e razzi lenti e a corto raggio, e sospettiamo che le cose stiano ancora così.”

“Israele cosa fa?” disse l’uomo in uniforme.

Kurt annuì. Sullo schermo dietro di lui riapparve la Linea Blu. Lungo tutto il lato meridionale, apparvero piccole icone di soldati.

“Adesso arriviamo al punto. Gli israeliani hanno ammassato una grossa forza di incursione al confine, con altre unità ad aggiungervisi continuamente. Il segretario di Stato ha parlato al telefono con Yonatan Stern, il primo ministro israeliano. Yonatan è un integralista, popolare nella destra della società israeliana. Per mantenere questa popolarità con la base, qui dovrà agire. Gli serve una vittoria decisiva, un ritorno della soldata dispersa – qualcosa. A quel che capiamo noi, entro le prossime ore ha in progetto di inviare un’incursione israeliana oltre il confine, fondamentalmente invadendo il Libano.”

“In un certo senso, si potrebbe dire che Israele è stato già invaso dal Libano,” disse il militare.

Kurt annuì. “Si potrebbe dire così. Insieme all’invasione, Stern ha in progetto di condurre una campagna di bombardamenti. Abbiamo presentato richiesta che la campagna sia limitata alla durata di dodici ore, che sia ideata per evitare vittime civili e che il suo solo obiettivo consista nelle risorse militari note di Hezbollah.”

“E Yonatan cos’ha risposto?” disse Susan. Yonatan Stern non era la persona che preferiva al mondo. Si poteva anche dire che non andavano d’accordo.

“Ha risposto che l’avrebbe preso in considerazione.”

Susan scosse la testa. “Yonatan è un altro dei vostri. Non ha mai visto guerra o sistema d’arma che non gli siano piaciuti.”

Fece una pausa. Sembrava un’altra schermaglia di bassa lega tra Israele ed Hezbollah, proprio come tutte le schermaglie tra Israele e Hamas, e prima ancora le schermaglie tra Israele e l’OLP. Brutte, sanguinarie, rozze, e alla fine inconclusive. Solo un altro giro di prove per il prossimo giro di prove.

“Allora qual è la nostra conclusione qui, Kurt? Quali sono i pericoli, e tu cosa ci suggerisci di fare?”

Kurt sospirò. La testa perfettamente calva rifletteva le luci incassate nel soffitto. “Come sempre, il pericolo è che il combattimento vada fuori controllo e diventi un legame per, o causi, un altro combattimento nella regione. Hezbollah e i palestinesi sono alleati. Spesso Hamas usa queste guerre con Hezbollah come copertura per lanciare propri attacchi di guerriglieri all’interno di Israele. La Siria è nel caos, con numerosi piccoli, ma pesantemente armati, gruppi che cercano di sfruttare l’instabilità.

“Intanto grosse maggioranze in Giordania, Egitto, Turchia e Arabia Saudita si identificano come anti-israeliane. E c’è sempre l’Iran, il più grosso e cattivo del circondario, a incombere sullo sfondo a braccia conserte, con il grande orso russo a incombere dietro tutti. Tutti i coinvolti sono armati fino ai denti.”

“E i nostri prossimi passi?”

Kurt scosse la testa e scrollò le grosse spalle. “I nostri prossimi passi sono sul filo del rasoio. L’intera regione è campo minato, e dobbiamo fare attenzione a dove mettiamo i piedi. Israele è uno dei nostri alleati più vicini e un partner strategico importante. Sono l’unica vera democrazia funzionante di tutta la regione. Nello stesso tempo, il Libano è nostro alleato e partner da molto tempo. La Giordania e la Turchia sono nostri alleati. Acquistiamo buona parte dei rifornimenti energetici esteri dall’Arabia Saudita. Abbiamo anche un impegno come mediatori di pace tra i palestinesi e Israele, e nel progetto di creazione di uno stato sovrano in Palestina.”

Annuì, come a se stesso. “Direi che il nostro lavoro è non infiammare ulteriormente le tensioni, e sperare che questa piccola vampata si riveli un fuoco di paglia – o, ancora meglio, un fuocherello.”

Susan quasi rise. “In altre parole, ce ne restiamo con le mani in mano.”

Adesso Kurt sorrise. “Direi che dovremmo starcene con le mani in mano. Però adesso abbiamo le mani legate dietro la schiena.”

CAPITOLO SEI

12 dicembre

13:40 ora di Israele (6:40 ora della costa orientale)

Tel Aviv, Israele

Le notizie erano brutte.

La giovane sedeva sulla panchina del parco a badare ai suoi gemelli, un maschio e una femmina, che giocavano sulle altalene. Nei dintorni c’era il condominio marrone chiaro, alto sedici piani, dove viveva. Oggi non c’era nessuno in giro, il parco era quasi vuoto.

Era inusuale per un primo pomeriggio di primavera, ma non sorprendente date le circostanze. La maggior parte del paese sembrava trovarsi all’interno da qualche parte, incollato alla tv e ai computer.

La sera precedente Daria Shalit, una soldata di diciannove anni delle forze di difesa israeliane, era scomparsa dopo una schermaglia con terroristi di Hezbollah che avevano condotto un attacco a sorpresa lungo il confine settentrionale. Gli altri sette soldati della pattuglia – tutti uomini – erano morti in combattimento. Ma Daria no. Daria era solo scomparsa.

Le truppe delle IDF avevano seguito i terroristi fino in Libano. Nel combattimento svoltosi lì, erano morti altri quattro israeliani. Undici giovani uomini – la crema della gioventù israeliana – tutti morti nel giro di un’ora. Ma non era questo a consumare il paese.

Il destino di Daria era diventato da un giorno all’altro un’ossessione. Chiudendo gli occhi, la donna riusciva a vedere il bel viso di Daria e gli scuri occhi in fiamme, a sorridere mentre faceva la buffona con una mitragliatrice, a sorridere mentre posava con gli amici in bikini su una spiaggia mediterranea, a sorridere mentre riceveva il diploma superiore. Così bella e sempre raggiante, come se avesse il futuro assicurato, una promessa che era sicura di ricevere.

Adesso gli occhi li chiuse davvero, e lasciò che le lacrime le rigassero le guance. Si portò una mano alla faccia, sperando che i bambini non la vedessero piangere. Aveva il cuore spezzato per una ragazza che non aveva mai incontrato, ma che in qualche modo conosceva bene come se fosse stata sua sorella.

I quotidiani chiedevano a gran voce sangue, richiedendo la completa distruzione del popolo libanese. Nel corso della notte c’erano state violente discussioni nella Knesset, perché il governo presentava minacce, chiedeva il rilascio della ragazza, ma non prendeva un’azione immediata. Stava crescendo una rabbia pronta a esplodere.

Ore fa, era cominciato il bombardamento.

Jet israeliani colpivano il Libano meridionale, la roccaforte di Hezbollah, fino a nord, a Beirut. Ogni volta che l’annuncio passava in tv, i vicini della donna eruttavano in urla ed esaltazioni.

“Uccideteli tutti!” gridava un uomo in qualcosa che pareva trionfo, ma che ovviamente non poteva esserlo. La voce roca era chiara attraverso i muri sottili come carta. “Uccideteli tutti, uno per uno!”

La donna dopo aveva portato fuori i bambini.

Ora sedeva al parco, a piangere silenziosamente, consentendosi di sfogarsi, di buttar fuori, il tutto mentre le orecchie si sintonizzavano cautamente sulle urla e i richiami dei suoi due bambini. I suoi figli, innocenti, sarebbero diventati adulti circondati da nemici che sarebbero stati contenti di vederli con la gola tagliata a morire lentamente di stenti.

“Cosa dobbiamo fare?” sussurrò la donna. “Cosa dobbiamo fare?”

La risposta giunse nella forma di un nuovo suono, all’inizio basso e lontano, che si mescolava con i rumori dei bambini. Presto si fece più vicino e più forte, poi forte e basta. Era un rumore che conosceva fin troppo bene.

Sirene antiaeree.

Sgranò gli occhi.

I bambini avevano smesso di giocare. La guardavano oltre il parco. Le sirene adesso erano forti.

FORTI.

“Mamma!”

Saltò giù dalla panchina e corse verso i bambini. C’era un rifugio antiaereo sotto al condominio – a un quarto di chilometro di distanza.

“Correte!” gridò. “Correte al condominio!”

I bambini non si mossero. Si precipitò da loro e li prese tra le braccia. Poi corse con loro aggrappati a lei, ciascuno a un braccio. Per qualche istante non riconobbe la sua stessa forza. Si fiondò sul manto stradale con quei due preziosi pacchi, che ora piangevano, attorno a loro le sirene, sempre più forti.

Il respiro le risuonava stridulo nelle orecchie.

L’edificio incombeva, sempre più grande e vicino. Ovunque, gente fino a poco prima invisibile correva all’edificio.

D’un tratto giunse un altro rumore – un rumore così forte, così acuto, che la donna pensò che le si sarebbero perforati i timpani. Alzò lo sguardo su un missile che sfrecciava in cielo, proveniente da nord. Si schiantò contro ai piani alti del condominio.

Dall’impatto, le si scosse la terra sotto i piedi. Il mondo parve girarle intorno, anche quando la cima dell’edificio saltò in una massiccia esplosione, muratura di cemento che volava in aria. Quante persone c’erano in quelle stanze? Quanti morti?

Perse l’equilibrio e cadde, mandando i due figli a terra. Strisciò sopra di loro, coprendoli con il proprio corpo appena prima che arrivasse l’onda d’urto. Poi piovve una grandine di detriti dall’esplosione, minuscoli e taglienti ciottoli e frammenti, polvere soffocante, i resti dei vecchi e degli infermi che non erano riusciti a lasciare l’appartamento in tempo.

Le sirene non si fermarono. Giunse l’assordante stridio di un altro missile, che volò sopra la loro testa, seguito dallo scoppio e dal rimbombo quando trovò l’obiettivo, poco lontano.

Ancora e ancora e ancora infuriavano le sirene.

Un altro stridio di missile venne a crescere. Le fischiò nelle orecchie. La venne la pelle d’oca. Si avvicinò ancor di più i figli. Il rumore era troppo forte. Non aveva più senso. Andava oltre l’udito, mostruoso oltre la comprensione umana – davanti a tutto ciò, il suo sistema si spense.

La donna urlava in coppia col missile, ma lei pareva non emettere alcun suono. Non riusciva ad alzare lo sguardo. Non riusciva a muoversi. Ne sentiva l’ombra sopra di sé, a offuscare la luce del giorno.

Poi la colse una nuova luce, una luce accecante.

E dopo, l’oscurità.

CAPITOLO SETTE

6:50 ora della costa orientale

Residenza della Casa Bianca

Washington DC

La luce del mattino si diffondeva dalle tendine, ma Luke non aveva voglia di alzarsi. Giaceva sulla schiena sul lettone, la testa sostenuta da cuscini.

Susan era distesa accanto a lui sotto le lenzuola, la presidente degli Stati Uniti, la testa a riposargli sul petto, i corti capelli biondi sciolti sulla pelle nuda di lui. Si accorse di qualche puntino grigio che il suo acconciatore aveva saltato. O forse era stato fatto di proposito – su un uomo un po’ di grigio indicava esperienza, serietà, solennità.

Lei respirava profondamente.

“Sei sveglia?” le sussurrò.

Sentì il sorriso contro al suo corpo. “Ma certo, sciocchino. Sono sveglia da più di un’ora.”

“A che cosa pensi?” disse lui.

“Tu a che cosa pensi? Questa è la domanda importante.”

“Be’, sono preoccupato.”

Si tirò su sui gomiti, si voltò e lo guardò. Come sempre, lui era meravigliato dalla sua bellezza. Aveva gli occhi azzurro chiaro, e nel volto le vedeva la donna che più di vent’anni prima appariva sulle copertine delle riviste. Stava ringiovanendo, tornando a quei tempi. Lo avrebbe quasi giurato – nel breve periodo in cui erano stati insieme, lei era sembrava farsi un po’ più giovane quasi ogni giorno.

Fece un mezzo sorriso e gli occhi le si strinsero sospettosi. “Luke Stone è preoccupato? L’uomo che fa fuori reti terroristiche con una manata? L’uomo che rovescia sovrani dispotici e allo stesso modo ferma assassini di massa, e tutto prima di colazione? Di che cosa potrà mai essere preoccupato Luke Stone?”

Lui scosse la testa e sorrise, nonostante tutto. “Basta così.”

A dire la verità, era più che preoccupato. Le cose si stavano complicando. Si era impegnato a ricostruire il rapporto con Gunner. Stava andando bene – meglio di quanto avesse potuto sperare – ma i nonni di Gunner avevano ancora la custodia. Luke stava cominciando a pensare che fosse meglio così. Una prolungata battaglia per la custodia contro i benestanti genitori carichi di odio di Becca – sarebbe stata lunga, prolissa, e brutta. E che cosa avrebbe vinto? Luke giocava ancora alla spia. Se si fosse trasferito da lui, Gunner sarebbe finito col trascorrere molto tempo da solo. Nessuna guida, nessuna supervisione – sembrava una situazione schifosa.

Poi c’era la faccenda Susan. Era la presidente degli Stati Uniti. Aveva una famiglia sua e, tecnicamente, era ancora sposata. Il marito, Pierre, sapeva di Luke, e apparentemente era felice per loro. Ma con chiunque altro stavano mantenendo il segreto.

Chi voleva prendere in giro? Non mantenevano nessun segreto.

La squadra di sicurezza di Susan sapeva di lui – era il loro lavoro, sapere cose. E ciò significava che si trattava già di una diffusa e crescente voce all’interno dei servizi. Superava la sicurezza per entrare lì a tarda notte, due, a volte tre notti alla settimana. Oppure entrava come ospite nel pomeriggio, ma non usciva più. La gente che monitorava la videosorveglianza lo vedeva entrare e lasciare la residenza, e prendeva nota degli orari. Il cuoco lo sapeva, di cucinare per due, e le cameriere che portavano fuori i piatti erano due robuste anziane che gli sorridevano, e che scambiavano con lui qualche battuta, e che lo chiamavano “signor Luke”.

Il capo di gabinetto di Susan lo sapeva, il che significava che probabilmente lo sapeva anche Kurt Kimball, e Dio solo sapeva da lì dov’era arrivata la notizia.

Ogni singola persona che già sapeva di lui aveva famiglia, amici e conoscenti. Avevano un locale preferito per la colazione presto, o banconi per il pranzo, o bar dove intrattenevano gli avventori abituali con narrazioni della vita all’interno della Casa Bianca.

La domanda di ieri della giornalista indicava che la voce era già uscita dalla scatola. Erano a una sola fuga di notizie, a una sola telefonata da parte di un seccato membro dello staff del Washington Post o della CNN, da un conclamato circo mediatico ventiquattr’ore su ventiquattro sette giorni su sette.

Luke quella roba non la voleva. Non voleva che Gunner finisse sulla ribalta. Non voleva che il ragazzo finisse sotto custodia dei servizi segreti ovunque andasse. Non voleva che i media lo seguissero o che lo sorvegliassero fuori dalla scuola.

Luke non voleva neanche quelle attenzioni su di sé. Era meglio per il suo lavoro che rimanesse nell’oscurità. Aveva bisogno di libertà per operare, sia per lui che per la sua squadra.

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