Solo che non so se saranno ancora vive quando succederà… Si premette le mani alla fronte, come per strappare quell’idea dalla sua testa. Rimani lucido. Non devi nemmeno pensarci.
“Zero?” lo chiamò Cartwright. “Ci sei ancora?”
Reid tirò un sospiro per calmarsi. “Sono qui. Ascolta, dobbiamo rintracciare il pick-up di Thompson. È un modello recente, e ha un’unità GPS. E poi il rapitore ha il cellulare di una delle mie figlie. Sono certo che l’agenzia deve avere il numero.” Avrebbero potuto trovare sia il telefono che l’auto; se fossero stati nella stessa posizione e Rais non li avesse ancora abbandonati, avrebbero avuto una direzione da seguire.
“Kent, ascolta…” cercò di dire Cartwright, ma Reid lo interruppe di nuovo.
“Sappiamo che ci sono membri di Amun negli Stati Uniti,” continuò implacabile. Altri due terroristi avevano già inseguito le sue figlie su un pontile nel New Jersey in passato. “Quindi è possibile che ci sia una loro casa sicura da qualche parte all’interno dei nostri confini. Dovremmo contattare l’H-6 per scoprire se possono cavare qualche informazione dai loro prigionieri.” L’H-6 era la prigione segreta della CIA in Marocco, dove venivano rinchiusi i membri della associazioni terroristiche.
“Zero…” Cartwright cercò di fermare quella conversazione a senso unico.
“Faccio la valigia e parto tra due minuti,” gli disse Reid affrettandosi verso la sua camera da letto. Ogni momento che passava era un istante in più che le sue figlie trascorrevano lontano da lui. “Allertate il dipartimento dei Trasporti, nel caso cerchi di portarle fuori dal paese. E bisogna fare lo stesso con i porti e le stazioni dei treni. E le telecamere dell’autostrada… dovremmo accedere anche a quelle. Non appena troverete una traccia, fatemelo sapere. Mi servirà un’auto, qualcosa di veloce. E un telefono dell’agenzia, un tracker GPS, delle armi…”
“Kent!” sbottò il vice direttore nel telefono. “Aspetta un secondo, va bene?”
“Aspettare? Qui si tratta delle mie figlie, Cartwright. Mi servono informazioni. Ho bisogno di aiuto…”
Il vice direttore fece un profondo sospiro, e Reid capì subito che c’era qualcosa che non andava. “Non puoi partecipare a questa operazione, agente,” gli disse. “Sei troppo coinvolto.”
Reid gonfiò il petto, pieno di rabbia. “Di che cosa stai parlando?” chiese piano. “Di che diavolo stai parlando? Devo cercare le mie ragazze…”
“Non puoi farlo.”
“Sono le mie bambine…”
“Ascoltati,” gli disse seccamente Cartwright. “Stai parlando a vanvera. Sei emotivo. È un conflitto di interesse. Non possiamo permetterlo.”
“Lo sai che sono la persona migliore per questa missione,” sbottò Reid. Nessun altro avrebbe potuto trovare le sue figlie. Stava a lui. Doveva farlo lui.
“Mi dispiace. Ma tendi ad attrarre il tipo sbagliato di attenzioni,” spiegò l’altro uomo, come se fosse una giustificazione. “I piani alti stanno cercando di evitare una replica di eventi passati, se vogliamo dire così.”
Reid esitò. Sapeva perfettamente di che cosa stava parlando Cartwright, anche se non se lo ricordava. Due anni prima sua moglie, Kate, era morta, e Kent Steele aveva sepolto il suo dolore nel lavoro. Si era buttato in una caccia lunga intere settimane, interrompendo i contatti con la sua squadra per inseguire i membri di Amun per tutta l’Europa. Si era rifiutato di rientrare quando la CIA lo aveva richiamato. Non aveva ascoltato nessuno, né Maria Johansson, né il suo miglior amico, Alan Reidigger. Da quello che gli avevano detto, si era lasciato dietro un lago di sangue nella sua furia. In effetti, era principalmente per quello che il nome “Agente Zero” era bisbigliato con terrore e sdegno tra i terroristi di tutto il mondo.
E quando la CIA ne aveva avuto abbastanza, avevano mandato qualcuno a farlo fuori. Avevano mandato Reidigger a ucciderlo. Ma Alan non lo aveva abbattuto; aveva trovato un altro modo, il soppressore sperimentale di memoria che gli aveva permesso di dimenticare la sua vita e il suo lavoro per la CIA.
“Lo capisco. Avete paura di quello che potrei fare.”
“Già,” concordò Cartwright. “È proprio così.”
“E avete ragione.”
“Zero,” lo avvisò il vice direttore, “non farlo. Lasciaci indagare a modo nostro, per poter sbrigare questa faccenda in fretta, in silenzio e senza far danni. Non te lo dirò di nuovo.”
Reid chiuse la chiamata. Avrebbe cercato le sue ragazze, con o senza l’aiuto della CIA.
CAPITOLO TRE
Dopo aver chiuso la chiamata con il vice direttore, Reid si fermò davanti alla porta della camera di Sara con una mano sulla maniglia. Non voleva entrare. Ma doveva farlo.
Invece si distrasse con i dettagli di quello che sapeva, ripassandoli nella propria mente: Rais era entrato in casa sua attraverso una porta che non stata chiusa a chiave. Non c’erano segni di ingresso forzato, non erano state rotte finestre o serrature. Thompson aveva cercato di allontanarlo; si vedevano i segni di una lotta. Alla fine l’uomo anziano era morto per le ferite da taglio al petto. Non erano stati esplosi colpi, ma la Glock che Reid teneva accanto alla porta d’ingresso era svanita. E lo stesso valeva per la Smith & Wesson che Thompson portava sempre alla cintura, che significava che Rais era armato.
Ma dove avrebbe portato le sue figlie? Nessuna delle prove sulla scena del crimine in cui si era trasformata casa sua portava a una destinazione.
Nella camera di Sara, la finestra era ancora aperta e la scaletta anti-incendio era srotolata sul davanzale. Pareva che le ragazze avessero tentato di scendere da lì, o che almeno ci avessero pensato. Ma non ci erano riuscite.
Reid chiuse gli occhi e respirò tra le mani, costringendosi ad allontanare il terrore e le lacrime. Quindi prese il caricatore del cellulare, che era attaccato alla presa accanto al comodino.
Aveva trovato il telefono sul pavimento del seminterrato, ma non lo aveva detto alla polizia. Né aveva mostrato loro la foto che era stata mandata perché lui la vedesse. Non poteva consegnarglielo, nonostante fosse una prova.
Poteva servirgli.
Una volta in camera sua mise in carica il telefono della figlia nella presa dietro il letto. Silenziò il dispositivo e poi fece in modo che le telefonate e i messaggi arrivassero direttamente al suo cellulare. Infine lo nascose tra il materasso e la rete. Non voleva che la polizia lo prendesse. Aveva bisogno che rimanesse attivo, nel caso gli avesse mandato altre provocazioni. Provocazioni che sarebbero potute diventare tracce.
Riempì in fretta una borsa con un paio di cambi d’abito. Non sapeva per quanto tempo sarebbe stato via, né dove sarebbe dovuto andare. Fino alla fine della terra, se necessario.
Scambiò le scarpe da ginnastica con un paio di stivali. Lasciò il portafoglio nel primo cassetto del comodino. Nel suo guardaroba, infilata dentro un paio di scarpe eleganti, c’era una mazzetta di denaro per le emergenze, quasi cinquecento dollari. Li prese tutti.
Sopra al comò c’era una foto incorniciata delle ragazze e gli si strinse il cuore a guardarla.
Maya aveva un braccio attorno alle spalle di Sara. Entrambe le sue figlie sorridevano, sedute nel ristorante di pesce in cui aveva scattato quella foto. Era stato durante un viaggio di famiglia in Florida l’estate prima. Se lo ricordava bene; le aveva riprese appena prima che arrivasse il cibo. Maya aveva un virgin daiquiri davanti a sé e Sara un milkshake alla vaniglia.
Erano state felici. Allegre. Soddisfatte. Al sicuro. Prima che quell’incubo si scatenasse su di loro a causa sua, erano state sane e salve. Quando gli aveva scattato quella foto, la sola idea di essere inseguite da terroristi che volevano fargli del male oppure di essere rapite da assassini, erano una mera fantasia.
È tutta colpa tua.
Girò la cornice e aprì il retro. Nel frattempo si fece una promessa. Quando le avesse trovate—e sarebbe successo presto—avrebbe chiuso. Basta missioni per la CIA. Basta operazioni segrete. Basta salvare il mondo.
Al diavolo il mondo, voglio solo che la mia famiglia stia bene.
Se ne sarebbero andati, si sarebbero trasferiti lontano, se necessario avrebbero cambiato i loro nomi. Per il resto della sua vita si sarebbe occupato solamente della loro sicurezza e della loro felicità. Della loro sopravvivenza.
Prese la foto dalla cornice, la piegò a metà e se l’infilò in una tasca interna della giacca.
Gli sarebbe servita una pistola. Era certo che ne avrebbe trovata una a casa di Thompson, proprio lì accanto, se fosse riuscito a entrare senza che la polizia e i paramedici lo vedessero…
Qualcuno si schiarì rumorosamente la gola nel corridoio, segnalando la propria presenza nel caso a lui fosse servito un momento per ricomporsi.
“Signor Lawson.” L’uomo avanzò verso la soglia della camera. Era basso e con la pancetta, ma il suo volto era segnato da linee dure. A Reid faceva venire in mente Thompson, anche se poteva essere solo il senso di colpa. “Sono il detective Noles, del Dipartimento di Polizia di Alexandria. Capisco che per lei questo è un momento molto difficile. So che ha già rilasciato una dichiarazione ai primi agenti accorsi sulla scena, ma ho qualche altra domanda che vorrei mettere a verbale, se vuole seguirmi fino in centrale.”
“No.” Reid prese la borsa. “Vado a cercare le mie figlie.” Uscì a grandi passi dalla stanza e superò il detective.
Noles lo seguì in fretta. “Signor Lawson, scoraggiamo fortemente i privati cittadini a intervenire in casi come questo. Ci lasci fare il nostro lavoro. La cosa migliore che può fare è rimanere al sicuro, insieme ad amici e famiglia, ma comunque senza allontanarsi dalla zona…”
L’agente si fermò in fondo alle scale. “Sono sospettato del rapimento delle mie stesse figlie, detective?” chiese, con voce bassa e ostile.
Noles lo fissò. Dilatò leggermente le narici. Lui sapeva che l’addestramento del detective prevedeva che affrontasse con delicatezza quella situazione, per non traumatizzare ulteriormente le famiglie delle vittime.
Ma Reid non era traumatizzato. Era furioso.
“Come ho detto, ho qualche altra domanda,” ripeté con gentilezza Noles. “Vorrei che venisse con me alla centrale.”
“Mi rifiuto di rispondere alle sue domande.” Reid lo fissò. “Ora vado alla mia auto. Se vuole portarmi con lei dovrà mettermi in manette.” Voleva che quel robusto poliziotto si levasse di torno. Per un breve momento considerò persino di menzionare le sue credenziali della CIA, ma non aveva niente che le confermasse.
Noles non disse nulla e lui si girò sui tacchi per uscire di casa, diretto verso il vialetto d’ingresso.
Il detective continuò a seguirlo, fuori dalla porta e nel cortile. “Signor Lawson, glielo chiederò solo un’altra volta. Pensi per un istante che impressione sta dando, preparando una borsa e scappando via mentre noi indaghiamo a casa sua.”
Reid fu attraversato da un lampo di furia feroce, che lo accese dalla base della spina dorsale fino alla testa. Fu sul punto di mollare la borsa per il desiderio di sferrare un colpo alla mascella di Noles, per aver insinuato che potesse essere coinvolto in quella storia.
Il detective era un veterano; doveva aver letto il suo linguaggio del corpo ma comunque non demorse. “Le sue figlie sono sparite e il suo vicino è morto. È successo tutto mentre non era a casa, e tuttavia lei non ha un alibi solido. Non può dirci con chi né dove era. E adesso sta scappando come se sapesse qualcosa che noi non abbiamo ancora capito. Ho delle domande, signor Lawson. E otterrò delle risposte.”
Il mio alibi. Il vero alibi di Reid, la verità, era che aveva passato le ultime quarantotto ore all’inseguimento di un folle leader religioso in possesso di un campione di vaiolo abbastanza grande da provocare un’apocalisse. Il suo alibi era che era appena tornato a casa dopo aver salvato milioni di vite, forse anche miliardi, solo per scoprire che le due persone a cui teneva di più in tutto il mondo erano svanite nel nulla.
Ma non poteva dirlo, per quanto volesse farlo. Invece soffocò la rabbia e trattenne la lingua e i pugni. Si fermò accanto all’auto e si girò verso l’altro uomo. Allo stesso tempo, il basso poliziotto abbassò una mano alla cintura, vicino alle manette.
Due agenti in uniforme che facevano la guardia davanti alla porta notarono il potenziale alterco e si avvicinarono con cautela, portando anche loro le mani alla cintura.
Da quando il soppressore della memoria gli era stato tolto dal cranio, Reid si sentiva come se avesse due menti. Una era il lato logico del professor Lawson, che gli stava dicendo: Arrenditi. Fai come chiede. O altrimenti ti ritroverai in galera e non raggiungerai mai le ragazze.
Ma l’altra parte, quella che era Kent Steele, l’agente segreto, il ribelle, l’uomo alla costante ricerca del brivido, era molto più rumorosa e gridava, sapendo quanto fosse importante ogni secondo.
La seconda parte vinse. Reid si tese, preparandosi alla lotta.
CAPITOLO QUATTRO
Per quello che sembrò un momento lunghissimo nessuno si mosse, né Reid né Noles, e nemmeno i due agenti dietro il detective. Reid stringeva forte la borsa. Se avesse cercato di salire in auto e scappare, era certo che i poliziotti lo avrebbero aggredito. E sapeva che lui avrebbe reagito di conseguenza.
All’improvviso risuonò lo stridio di freni e tutti gli occhi si rivolsero verso un SUV nero che si fermò bruscamente alla fine del vialetto, in perpendicolare rispetto al suo veicolo, bloccandolo. Emerse una figura che si avvicinò in fretta per calmare la situazione.
Watson? quasi sbottò Reid.
John Watson era un agente operativo come lui, un uomo afro-americano alto e dall’espressione sempre impassibile. Aveva il braccio destro sospeso da una fasciatura blu; solo il giorno prima era stato colpito da un proiettile durante l’operazione per impedire ai radicali islamici di rilasciare il virus.
“Detective.” Watson salutò Noles con cenno del capo. “Sono l’agente Hopkins, del dipartimento dell’Homeland Security.” Con la mano sana gli mostrò un distintivo convincente. “Quest’uomo deve venire con me.”
Il detective si accigliò. La tensione del momento era evaporata, ed era stata sostituita dalla confusione. “Come dice? Homeland Security?”
L’agente afro-americano annuì severamente. “Crediamo che il rapimento abbia a che fare con un’indagine in corso. Ho bisogno che il signor Lawson venga con me, subito.”
“Ora aspetti un momento.” Noles scosse la testa, ancora perplesso dall’improvvisa intrusione e dalla rapida spiegazione. “Non può intromettersi così e prendere…”
“Quest’uomo è una risorsa del dipartimento,” lo interruppe Watson. Tenne la voce bassa, come se stesse svelando un segreto, ma Reid sapeva che era una tattica della CIA. “È con il WITSEC.”
Il detective sgranò gli occhi tanto che sembrarono sul punto di cadergli fuori dalla testa. Il WITSEC era l’acronimo del programma di protezione testimoni del Dipartimento della Giustizia americano. Ma Reid non disse nulla; si limitò a incrociare le braccia sul petto e a lanciare uno sguardo duro al poliziotto.
“In ogni caso…” riprese con esitazione Noles, “mi servirà qualcos’altro qui oltre a un distintivo luccicante…” Il suo cellulare cominciò a squillare all’improvviso.
“Immagino che quella sia la conferma del mio dipartimento,” garantì Watson mentre l’altro uomo prendeva il telefono. “È meglio che risponda. Signor Lawson, la prego, da questa parte.”