Ma l’uomo annuì. “Bene. A volte il male deve essere sconfitto. Era fatto di dolore, odio e sospetto, e non avrebbe mai potuto portare altro che male nel mondo. È lo stesso con re Carris, e la guerra che verrà. Ci sarà violenza, ma è violenza necessaria.”
Royce lo poteva capire. Aveva lottato contro il vecchio duca per gli stessi precisi motivi; aveva lottato contro Altfor e suo zio e tutti quelli che erano venuti con loro. Aveva sperato di poter migliorare le cose se solo avesse potuto sconfiggerli.
Ora, le possibilità che il suo cervello a malapena poteva contenere suggerivano che c’era bisogno di altro ancora. La chiarezza che lo specchio gli aveva dato, l’abilità di guardare il mondo e semplicemente vedere, gli aveva mostrato che ci voleva ben più della sola violenza. Se si fosse solo tuffato in quello, ne sarebbero conseguiti solo anni di morte.
Ovviamente se non avessero combattuto per niente, allora le cose sarebbero rimaste come erano, con tutta la crudeltà che ne conseguiva. La via in mezzo a quei due estremi era così sottile da assomigliare a un precipizio, con il pericolo subito sotto in attesa.
“Sono già passato sopra a dei precipizi,” disse Royce tra sé e sé.
“Cosa?” chiese suo padre.
“Sto solo tentando di capire cosa fare adesso,” rispose lui. In qualche modo gli sembrava sbagliato. “Anche con tutto quello che lo specchio mi ha mostrato, devo ancora capirlo.”
“Lo specchio non ti mostra quello che dovresti fare,” disse suo padre. “Questo è l’errore più pericoloso che si può fare. Hai ancora delle scelte. Hai sempre delle scelte. Tutti le hanno.”
Aveva più senso di quanto Royce avrebbe potuto credere. Non voleva distruggere le scelte delle persone che venivano con lui. Pur chiedendo agli altri di fidarsi di lui al punto da venire fino a lì, non li avrebbe mai costretti a farlo. Aveva solo potuto sperare che credessero in lui tanto da accompagnarlo fino a lì.
Ora aveva un’altra cosa da chiedere.
“Padre,” disse. “Ho attraversato l’oceano per venirti a cercare. Ho trovato lo specchio sulle Sette Isole, ma stavo cercando te. Sono venuto qui perché volevo trovare mio padre, e perché credo che il regno abbia bisogno del suo re.”
Suo padre rimase fermo per un momento o due, poi scosse la testa. “Non sono sicuro di poterlo fare, Royce.”
La delusione gli percorse tutto il corpo, assoluta.
“Ma ho fatto tutta questa strada!”
Poteva sentire il dolore nella propria voce, e rispecchiava quello sul volto di suo padre.
“Ho guardato nello specchio,” disse suo padre. “Mi sono visto qui, non che tornavo nel regno.”
“Ma questo è stato tanto tempo fa,” disse Royce. “Le cose sono cambiate, padre.”
Suo padre scosse la testa. “Sai che ci sono cose che non posso dire.”
Cose che aveva visto, ipotizzò Royce. Questo però gli diede un’idea. Portò la mano alla borsa che aveva al fianco.
“Ci guarderesti dentro ancora?” gli chiese, porgendogli lo specchio.
“Sai i pericoli che ci sono,” disse suo padre, ovviamente preoccupato. “Un uomo non dovrebbe guardarci dentro troppo spesso, per tutte le cose che questo potrebbe cambiare.”
“Per favore,” lo implorò Royce.
Suo padre esitò, poi annuì. Lentamente e con cautela guardò nello specchio. Parve fissarlo per un’eternità, così a lungo che in effetti Royce pensò di tirarlo via, nascondendoglielo in modo che non potesse continuare.
Alla fine suo padre chiuse gli occhi.
“Pare che il regno avrà i suoi re,” disse con espressione indecifrabile. Era chiaro che aveva visto altro, cose che Royce non conosceva. “E tu avrai tuo padre.”
Royce rimase con il respiro sospeso.
“Allora tornerai nel regno con me e i miei amici?” gli chiese, osando sperare.
“Sì,” promise suo padre. Andò per un momento o due nella capanna, raccogliendo una piccola sacca, quasi uguale a quella che Royce aveva trovato sulla prima delle Sette Isole. Pareva essere tutto quello che voleva portare con sé.
“Non ho la tua armatura o la tua spada,” disse Royce. “Le ho perse sulle Sette Isole.”
“Non ha senso,” disse suo padre. “Ho visto… no, come ho detto, non funziona così.”
Royce sapeva bene che non doveva chiedere ciò che aveva visto., ma era difficile non pensarci, mentre si incamminavano in mezzo agli alberi e si dirigevano verso il limitare dell’isola. Era anche difficile non rimuginare sul fatto che finalmente aveva trovato suo padre. L’uomo che se n’era andato tanto tempo prima ora era qui, e camminava accanto a lui insieme a Gwylim, mentre Bragia svolazzava tra gli alberi.
Il tragitto fino alla spiaggia non parve richiedere tanto tempo quanto quello per la camminata fino al centro dell’isola. Si mossero rapidamente e presto si trovarono a guardare il punto in cui era ancorata la barca. Gli amici di Royce erano ancora lì in attesa nella barca, quando Royce e suo padre arrivarono, ma saltarono presto a terra per andare loro incontro quando lo videro in compagnia.
“Una Picti, una ragazza di paese e un combattente dell’Isola Rossa?” chiese suo padre.
“I miei amici,” rispose Royce. “C’era anche un cavaliere, Sir Bolis, ma è morto sulle Sette Isole, salvando tutti quanti noi.” Fece un passo avanti verso i suoi amici, pronto a presentarli uno per uno. “Ragazzi, ecco mio padre, re Filippo, il legittimo re. L’abbiamo trovato.”
I suoi amici reagirono con sorprendente deferenza. Mark si inchinò, Matilde fece una riverenza e addirittura Neave chinò il capo in segno di rispetto.
“Padre, questo è Mark. Mi ha aiutato a sopravvivere sull’Isola Rossa ed è il mio migliore amico.”
Su padre strinse la mano di Mark. “Un uomo che ha salvato la vita di mio figlio ha tutta la mia gratitudine.”
“Lui ha salvato la mia ancora più spesso,” gli assicurò Mark.
Royce andò avanti. “Questa è Matilde, che ha preso parte della resistenza alle regole del vecchio duca praticamente dall’inizio. È ancora più feroce di quello che sembra.”
“Davvero?” chiese suo padre. Guardò Matilde. “Direi che già a guardarti sembri abbastanza valorosa. Mi piacerebbe combattere al tuo fianco.”
“Grazie, vostra maestà,” disse Matilde compiaciuta.
“E tu,” chiese l’uomo, voltandosi verso Neave.
“Neave, vostra maestà,” disse lei, e nella sua voce c’era una nota di rispetto che Royce non si era aspettato.
“I Picti meritano un posto migliore nel regno rispetto a quello che sono stato in grado di dare loro,” disse. “Rispettano la magia che c’è nel mondo in un modo che la gente ha dimenticato. Se sei qui, significa che la tua tribù combatte al fianco di mio figlio?”
“Sì,” rispose Neave. “Ha fatto gridare la pietra guaritrice. Anche altri si uniranno alla sua causa.
“Pare che tu abbia preparato un bell’esercito,” disse il padre di Royce.
Royce annuì. “Ci stiamo lavorando. Per quando saremo tornati, spero che i miei fratelli avranno raccolto abbastanza gente da poter avere la meglio su re Carris. Però ci serve un simbolo. Ci serve il legittimo re. Ci servi tu.”
“Sono con voi,” promise suo padre. Indicò la barca. “Abbiamo un lungo viaggio, però, e una dura battaglia quando saremo arrivati.”
CAPITOLO SEI
Genevieve camminava furtivamente nel castello alle prime luci del giorno, timorosa a ogni passo, sapendo che stava correndo un rischio solo a fare quella parte. Se Altfor si fosse accorto che era lì, allora si sarebbe trovata in pericolo anche se era incinta, ma lui aveva lasciato le loro stanze prima di lei, e Genevieve immaginava che si trovasse da qualche parte con Moira.
“La ucciderò,” disse, anche se sapeva bene che avrebbe avuto difficoltà a uccidere chiunque. Ne aveva già avuto la prova con Altfor, quando si era trovava incapace di piantargli un coltello in corpo pur avendone l’occasione.
“Troverò qualcosa,” promise a se stessa, nello stesso modo in cui lo aveva promesso quando si era trattato di Altfor. Se non poteva farlo direttamente, allora avrebbe contribuito ad eliminarli indirettamente, e poi si sarebbe accertata che venissero giustiziati per i loro crimini. Se lo meritavano.
Odiava Moira, se possibile, ancora più di Altfor. Altfor non aveva mai finto di essere suo amico: l’aveva solo tradita in modi che Genevieve si era aspettata da lui. Moira si era trovata quasi nella sua medesima posizione, sposata a un altro dei figli del duca e immersa in un mondo di cui non avrebbe mai dovuto essere parte. Avrebbe dovuto essere un’alleata di Genevieve, una sua amica. Invece era andata da Altfor, e l’aveva tradita. E aveva fatto anche di peggio quando aveva consegnato Garet ai soldati del re.
Almeno Genevieve poteva iniziare dal risolvere questo.
Continuò a camminare, muovendosi con cautela da un nascondiglio all’altro, cercando di farsi vedere come se stesse sbrigando delle faccende, affari legittimi. Muoversi di soppiatto non aveva senso in un edificio pronto alla guerra, dove c’erano in giro troppe persone e troppa paura di spie per poter mai sperare di nascondersi del tutto. Il meglio che Genevieve poteva sperare era che la gente credesse che lei stava facendo qualcosa che doveva fare.
Si avvicinò alle prigioni, sapendo che il suo tragitto attraverso la fortezza era stata la parte più facile. La gente poteva immaginare un sacco di ragioni per cui lei si potesse trovare in quasi ogni parte del castello, e in ogni caso nessuno avrebbe osato mettere in questione la nobile moglie del nuovo amico del re. Ma Genevieve dubitava che una cosa del genere avrebbe funzionato nelle prigioni.
Ora si trovava di fronte all’ingresso, dove una robusta guardia stava seduta su uno sgabello, le chiavi alla cintura e la spada al fianco. Genevieve aveva bisogno di un modo per far allontanare l’uomo dalla porta, e in quel momento non le veniva in mente nulla. Cosa avrebbe fatto spostare un uomo che aveva ordine di restare al suo posto?
La risposta era niente. Non c’era nessuna sottigliezza per poter ottenere il risultato desiderato, nessun modo di distrarre la guardia e scivolare dentro senza essere vista. L’unica opzione era quella diretta, e se Genevieve avesse scelto quella, quello che sarebbe successo poi sarebbe stato ovvio. Non c’era modo che lei potesse restare lì. Genevieve era davvero pronta ad abbandonare tutto e scappare, quando poteva esserci ancora qualche possibilità di scoprire altri dettagli che potessero essere di aiuto per vincere la guerra?
“E cosa succederà a Garet se aspetto?” chiese a se stessa. Poteva già immaginare la risposta. Aveva visto quello che il re faceva a coloro che gli si opponevano, e non aveva dubbio che intendesse quello che diceva quando parlava di tortura. Doveva far uscire il fratello di Royce da lì, anche se questo le impediva poi di restare.
Magari sarebbe anche stato a suo vantaggio. Genevieve avrebbe potuto tornare verso l’esercito di Royce se avesse avuto Garet con lei. Sarebbe stato una prova che lei stava dalla loro parte, e Royce finalmente avrebbe creduto alla verità.
“Lo sto facendo davvero,” disse fra sé e sé, e poi avanzò fino alla guardia presso la porta della prigione. L’uomo la guardò con la lenta pigrizia di chi non ha alcuna intenzione di muoversi.
“Cosa vuoi?” le chiese.
“Cosa vuole, mia signora,” lo corresse Genevieve, adottando la voce più arrogante che poteva. “O pensi forse che siamo allo stesso livello?”
Era facile pensare a come farlo: immaginò semplicemente il modo in cui Altfor l’avrebbe detto. Fu sufficiente a far sgranare gli occhi della guardia per la paura, o almeno per lo shock.
“No, mia signora. Mi perdoni, mia signora.”
“Stai zitto e aprimi la porta,” disse Genevieve. “Sono qui per vedere uno dei prigionieri.”
“Mi spiace, mia signora,” disse la guardia. “Ma non mi è concesso di far accedere nessuno alle celle. Non senza prima il permesso di…”
“Del re?” si intromise Genevieve. Gli mostrò il sorriso più malvagio che le riuscì. “Il re, con cui ho parlato più volte io negli ultimi giorni che tu in tutta la tua vita?”
“Mia signora,” disse l’uomo. Si alzò in piedi, ma ad ogni modo esitò.
“Voglio parlare con uno dei prigionieri,” disse Genevieve. “Quello nuovo, Garet. Tutto qua. Non intendo intrattenermi con nessuna tortura, né chiedere che lo porti al cancello per liberarlo. Voglio parlare con lui. Mi conosce, e mi dirà più di quanto potrebbe mai dire a chiunque altro. Pensi che il re vorrà sentirsi raccontare che hai impedito un’azione che potrebbe farci guadagnare informazioni?”
Ora Genevieve poteva vedere la paura sul volto dell’uomo. C’era una specie di potere in ciò, e nelle cose che era impossibile fare solo con le parole. Ora l’uomo si mosse rapidamente, correndo alla porta, aprendo la serratura con la chiave, poi con un’altra, sollevando la sbarra prima di scostare l’uscio e rivelare l’oscurità che si trovava al di là. C’era una candela fissata alla parete vicino alla porta. La guardia la sollevò e la offrì a Genevieve. Genevieve la prese, muovendosi vicino all’uomo, tanto vicina da poter sentire il suo alito rancido.
Tanto vicina da poter afferrare le sue chiavi.
“Cosa…”
“Dovrò entrare nella cella con lui,” gli disse quando l’uomo notò quello che aveva fatto. “Uscirò da sola quando avrò finito. A meno che tu non abbia delle obiezioni?”
Era ovvio che aveva un sacco di obiezioni, ma non osava darvi voce.
“Si trova nella cella in fondo, mia signora.”
Genevieve gli passò accanto prima che potesse avere il coraggio di dire qualcosa. Si inoltrò nelle profondità delle prigioni, muovendosi rapidamente, sapendo che avrebbe avuto solo un certo tempo limitato prima che la guardia si rendesse conto che sarebbe stato meglio controllare se le era davvero permesso di entrare là sotto. A un certo punto, avrebbe pensato di chiederlo al re – probabilmente già lo voleva fare – e Genevieve poteva solo sperare che sarebbe passato sufficiente tempo prima che l’uomo potesse raccogliere il coraggio di abbandonare la sua postazione.
Genevieve avanzava nelle prigioni, seguendo una contorta serie di scale che in certi punti erano scivolose perché ricoperte di muffa. Era certa di sentire il gocciolio dell’acqua da qualche parte lì vicino. Poteva sentire anche dell’altro: c’erano grida che venivano da qualche parte più in profondità, e lei voleva solo sperare che non fossero le grida di Garet.
Non riusciva a vedere nulla oltre al piccolo cerchio di luce che le offriva la candela. Era un’illuminazione cupa e intermittente, che le permetteva di vedere solo pochi metri del corridoio di pietra in entrambe le direzioni. C’erano porte su entrambi i lati, di legno e con sbarre di ferro disposte ad altezza degli occhi in modo che il carceriere potesse controllare i prigionieri.
Probabilmente c’erano prigionieri in molte delle celle, e una parte di Genevieve desiderava poterli liberare tutti, ma sapeva che non c’era modo di farlo. Poteva. Poteva far sgattaiolare fuori Garet, soprattutto se poi fosse riuscita a trovare un posto dove nascondersi con lui fino al ritorno della messaggera di sua sorella. Non c’era modo di poter far uscire di lì una processione di prigionieri, però.
Camminò fino all’ultima cella, riconoscente di non dover guardare in ciascuna di esse per tentare di trovare Garet. Genevieve non era sicura di poter impedire che le si spezzasse il cuore se avesse visto ogni persona che avevano catturato e torturato.
Raggiunse l’ultima cella e sollevò la candela per guardare attraverso il buco. La luce non era sufficiente a vedere chiaramente le cose, ma Genevieve poté distinguere una figura, poco più illuminata dalla luce che proveniva da una stretta finestrella. La persona se ne stava rannicchiata e mezza avvolta in un mantello. Poteva benissimo essere Garet, e questo bastò a farle fiorire la speranza in cuore.