“Un lupo!” gridò Matilde mentre il suo cavallo si impennava.
Però non era veramente un lupo. Questa creatura era più grande, e c’era qualcosa in essa che la faceva assomigliare tanto a una volpe quanto a un lupo. I denti erano comunque lunghi, e gli artigli sembravano affilati. Era ricoperta di sangue, ed era ovvio che quel sangue apparteneva agli uomini morti lì.
“Non un semplice lupo,” disse Neave. “Un bhargir, un essere magico.”
“È solo un grosso lupo,” disse sir Bolis smontando da cavallo e sguainando la spada.
“Non è un lupo,” insistette Neave. “Il mio popolo ha storie su queste cose. Alcuni dicono che sono creati da maghi malvagi, altri dicono che sono le anime dei morti, o uomini che indossano le pelli di bestie cucite insieme e diventano quindi cose diverse.”
Qualsiasi cosa fosse quella creatura, sembrava arrabbiata. Camminava verso di loro ringhiando, e Royce trovò quei grossi occhi gialli fissi su di sé. Per un momento pensò che magari la creatura gli stesse per saltare addosso. Poi Bragia si posò nuovamente sulla sua spalla.
“Si chiama Gwylim.”
“Chi?” chiese Royce. “Cosa sta succedendo qui, Lori?”
Ma il falco si rimise in volo e Royce sospettò che non le avrebbe carpito nessuna risposta, neanche se fosse rimasto lì. Si voltò a guardare sir Bolis che avanzava con la spada puntata, pronto a colpire la bestia.
“Va tutto bene,” disse il giovane. “Me ne occupo io.”
Il cavaliere iniziò a far roteare la spada, e quasi senza pensarci Royce si mise in mezzo afferrandogli il braccio.
“Aspetta,” disse. “Aspetta, Bolis.”
Sentì il cavaliere fare un passo indietro, anche se tenne la spada pronta.
“Quella cosa ha ucciso due uomini e ci sta minacciando,” disse Bolis. “Dovremmo ucciderlo in modo che non faccia male a nessun altro!”
“Non ancora,” disse Royce. Si voltò a guardare il… come l’aveva chiamato Neave? Un bhargir? Ora poteva vedere che non tutto il sangue che la bestia aveva addosso apparteneva agli uomini. C’era una ferita che gli percorreva tutto il fianco. Non c’era da meravigliarsi che la creatura stesse ringhiando.
“Gwylim?” chiese Royce.
Non appena pronunciò il nome, il ringhio cessò e il bhargir piegò la testa di lato, guardandolo con occhi particolarmente intelligenti.
“Puoi capire qualcosa di quello che dico, giusto?” chiese Royce. “Mi ha mandato la strega Lori. Se lei conosce il tuo nome, forse tu conosci lei?”
La creatura chiaramente non aveva modo di rispondere, ma parve comunque calmarsi e si portò vicino a Royce, sdraiandosi ai suoi piedi. Quando lo fece, Royce notò una cosa che gli parve impossibile: la ferita che aveva al fianco stava iniziando a rimarginarsi, ricucendosi insieme a velocità quasi impossibile. Non c’era ovviamente niente di normale in quella creatura.
Royce non era sicuro di cosa dover fare. Lori l’aveva ovviamente indirizzato lì da quella creatura per un qualche motivo, ma quale? Guardò nella casa, cercando di capirlo, ma sembrava del tutto spoglia: chiaramente le cose che prima conteneva stavano ora ardendo nel falò lì vicino. Perché dei saccheggiatori come i due uomini morti avrebbero dovuto fare una cosa del genere?
Insicuro della risposta, Royce tornò verso il suo cavallo. Il bhargir lo guardò e si portò vicino a fuoco, tanto vicino che gli occhi brillavano al baluginare delle fiamme.
“Non so cosa fare con te,” disse Royce. “Ma immagino che sarai tanto intelligente da decidere da te. Vuoi venire con noi?”
In risposta, la bestia simile a un lupo si portò vicino a lui e si sedette accanto al cavallo. In qualche modo Royce sospettava che non avrebbe avuto problemi a tenere il passo.
“Portiamo con noi dei mostri adesso?” chiese sir Bolis.
“Non è più estraneo di tutti noi,” disse Matilde.
“È molto più pericoloso però,” disse Neave con espressione seria. “Non è una buona idea.”
Buona idea o no, Royce era sicuro che fosse la cosa giusta da fare. Spronò il cavallo ad avanzare, diretto verso Ablaver, con Bragia sopra di loro a fare strada. Se il falco aveva qualche indizio sul motivo per cui lo aveva portato a trovare il bhargir che ora li seguiva, di certo si curò di non offrire loro nessuna risposta.
***
La città di Ablaver colpì Royce con il suo odore prima che lui potesse vederla: un odore di pesce mescolato al mare, tale da proclamare ciò che era successo. Era un odore che gli fece venire voglia di girarsi e tornare indietro, ma lui continuò lungo la sua strada.
Quando la cittadina apparve alla vista, le cose non furono migliori. Era imbruttita da stazioni per la pesca delle balene da una parte: la scena di quelle creature enormi e bellissime che venivano eviscerate fece venire a Royce i conati di vomito. Riuscì a trattenersi, ma fu difficile.
“Non possiamo dire alla gente chi siamo,” avvisò gli altri.
“Perché un gruppo con Picti e cavalieri insieme potrebbe essere composto da chiunque,” sottolineò Mark.
“Se la gente ce lo chiede, siamo mercenari che lasciano la guerra e cercano nuovi incarichi,” disse Royce. “La gente penserà probabilmente che siamo disertori, o banditi, o qualcosa del genere.”
“Non voglio che la gente pensi che sono un bandito,” disse Bolis. “Io sono un leale guerriero del conte di Undine!”
“E in questo caso il modo migliore che hai per mostrare la tua lealtà e fingere di essere qualcos’altro,” disse Royce. Il cavaliere parve cogliere il messaggio. Si spalmò addirittura del fango sullo scudo, continuando a borbottare per tutto il tempo, in modo che nessuno vedesse l’emblema raffigurato. “Tenete tutti i cappucci sulla testa. Soprattutto tu, Neave.”
Royce non era sicuro di come gli abitanti della cittadina avrebbe reagito vedendo un Picti tra loro. Non aveva voglia di mettersi a combattere per dover attraversare la città. Già era problematico avere Gwylim che camminava con loro, troppo grosso e spaventoso per essere un semplice lupo.
Si addentrarono verso il centro, guardando gli edifici pericolanti man mano che si dirigevano verso il porto e le navi lì attraccate. La maggior parte delle imbarcazioni erano poco più grandi di pescherecci, ma alcune delle baleniere erano più grandi, e tra loro si trovavano navi a vela e barche più lunghe che sembravano essere lì per commercio.
C’erano taverne dove Royce poteva sentire i rumori di festeggiamenti, ubriachi e occasionale violenza e bancarelle del mercato dove pareva che carne rancida e buon cibo straniero fossero messi fianco a fianco.
“Dovremmo sparpagliarci,” disse Matilde. Sembrava stesse adocchiando una taverna.
Royce scosse la testa. “Dobbiamo stare insieme. Andremo al porto, troveremo una nave e poi potremo esplorare.”
Matilde non sembrava contenta della decisione, ma si diressero comunque verso il porto. Lì pareva che le cose stessero procedendo in maniera arrancante, con i marinai che controllavano i ponti delle navi stando di vedetta o seduti al sole.
“Come facciamo?” chiese Mark guardandosi attorno. “Immagino che non sarà facile trovare un capitano diretto alle Sette Isole.”
Royce non era certo che ci fosse una buona risposta per quella domanda. Per quanto poteva vedere, c’era una sola opzione, e non era per niente sottile o delicata.
“Ascoltatemi!” gridò per farsi sentire nel vago bisbigliare del porto. “Mi serve una nave. C’è un capitano disposto a portarci fino alle Sette Isole?”
“Dici che è una cosa saggia?” chiese Bolis.
“In che altro modo possiamo trovare qualcuno?” chiese Royce. Anche se fossero andati nelle taverne a chiederlo sottovoce, la notizia si sarebbe presto diffusa. Magari questo modo d’azione era addirittura meglio. Alzò la voce. “Ve lo chiedo ancora: chi ci porta alle Sette Isole?”
“Perché vuoi andarci?” rispose la voce di un uomo. Quando si fece avanti, videro che indossava abiti di seta da mercante, e aveva una struttura imponente e con la pancia prominente, indice di vita fin troppo benestante.
“Ho degli affari lì,” disse Royce, non volendo svelare di più. “Ci sono persone che assolderebbero me e i miei compagni per le nostre capacità.”
L’uomo si avvicinò di più. Royce gli guardò il volto, cercando di capire se l’uomo li avesse riconosciuti, ma non gli parve di cogliere nulla.
“Quali capacità?” chiese il mercante. “Siete giullari? Giocolieri?”
Royce pensò rapidamente. Magari non era così facile passare come mercenari, ma questo…
“Certo,” disse. Fece molta attenzione a non guardare Bolis negli occhi. “Abbiamo un incarico alle Sette Isole.”
“Devono essere tanti soldi, se ci andate,” disse il capitano. “Il che significa che potete pagare, giusto?”
Royce tirò fuori un piccolo borsello. “Fino a un certo punto.”
Se fossero arrivati dove si trovava suo padre, avrebbe pagato ogni singola corona contenuta nel borsello, e anche di più. Lanciò il borsello verso il capitano e l’uomo lo prese al volo.
“È sufficiente?” chiese Royce.
Quello era l’altro pericolo. L’uomo avrebbe potuto girarsi e tenersi i soldi, scappare alla sua nave, e se Royce avesse fatto qualcosa per tentare di fermarlo, questo avrebbe svelato la sua vera identità. Per un momento, tutto parve restare immobile e sospeso.
Poi il capitano annuì. “Sì, può bastare. Vi porterò tutti insieme alle Sette Isole. Ma dopo sarete da soli.”
CAPITOLO DUE
Genevieve si allontanò barcollante dalla città, frastornata, quasi incapace di credere a ciò che era appena successo al castello di Altfor. Era andata lì piena di speranza, eppure adesso si sentiva come se non le fosse rimasto nulla. Pensava che con l’esercito del duca ora sconfitto, con Royce vittorioso, sarebbe stata capace di andare da lui, sarebbe stata capace di stare finalmente insieme a lui.
Invece la sua mente le riportava di continuo l’immagine dell’anello al dito di Olivia, il gioiello che proclamava il fidanzamento dell’uomo che lei amava.
Genevieve inciampò andando a sbattere con il piede contro una zolla di terra, e il movimento repentino le fece slogare la caviglia, redendola dolorante. Continuò a camminare, zoppicante, perché cos’altro le restava da fare? Del resto non poteva esserci nessuno lì ad aiutarla, in mezzo alla brughiera.
“Avrei dovuto ascoltare la strega,” disse fra sé e sé mentre procedeva. La donna, Lori, aveva cercato di metterla in guardia dicendole che ci sarebbe stata solo miseria per lei se fosse andata al castello. Le aveva mostrato due sentieri, e le aveva promesso che quello che non conduceva a Royce era quello che l’avrebbe resa felice. Genevieve non le aveva creduto, ma ora… ora le sembrava che le si spezzasse il cuore.
Una parte di lei si chiedeva se potesse essere ancora possibile prendere la direzione di quel secondo sentiero, ma anche mentre ci pensava, Genevieve sapeva che la possibilità era svanita. Non era solo il fatto che ora non si trovava nello stesso posto, ma c’era anche la questione che aveva comunque visto ciò che era successo a Royce, e lei non avrebbe mai potuto essere felice con nessun altro.
“Devo andare a Porto Autunno,” disse Genevieve. La sua speranza era che la direzione che stava seguendo la portasse alla costa. Alla fine sarebbe arrivata, e ci sarebbe stata una barca che l’avrebbe portata dove doveva andare.
Ormai Sheila doveva essere arrivata a Porto Autunno. Genevieve poteva andarci con lei, e insieme avrebbero potuto escogitare un modo per trarre il meglio da tutto ciò che era successo, sempre ammesso che esistesse un meglio. C’era forse qualche modo per trasformare in qualcosa di buono una situazione dove lei si trovava incinta del figlio di Altfor, dove l’uomo che amava l’aveva abbandonata e l’intero ducato era nel caos?
Genevieve non lo sapeva, ma forse con l’aiuto di sua sorella, sarebbero state capaci di pensare a qualcosa.
Continuò a procedere nel mezzo della brughiera, la fame che la perseguitava la stanchezza che iniziava a crescere appesantendole le ossa. Sarebbe stato tutto più facile da sopportare se Genevieve avesse saputo esattamente quanta strada ci fosse ancora da percorre, o dove fosse possibile trovare del cibo. E invece le lande sembravano dispiegarsi all’infinito davanti a lei.
“Forse dovrei sdraiarmi qui e lasciarmi morire,” disse Genevieve, e anche se non lo pensava veramente, c’era una parte di lei che… no, non doveva neanche pensarci. Non l’avrebbe fatto.
In lontananza le parve di vedere delle persone, ma si allontanò, perché non c’era modo che l’incontro con loro potesse trasformarsi in qualcosa di buono per lei. In quanto donna da sola in mezzo a quelle terre selvagge, era a rischio davanti a ogni gruppo di disertori o soldati o addirittura ribelli avesse potuto incontrare. In quanto moglie di Altfor la gente di Royce non aveva alcuna ragione per amarla.
Decise quindi di allontanarsi dal loro fino a che non poté più vederli. Avrebbe fatto questo viaggio da sola.
Solo che non era sola, giusto? Genevieve si mise una mano sulla pancia, come se fosse possibile sentire la vita che vi stava crescendo dentro. Il bambino di Altfor, ma anche suo. Doveva trovare un modo per proteggere suo figlio.
Continuò a camminare mentre il sole iniziava a svanire all’orizzonte, illuminando le lande e trasformandole in strisce di arancio fuoco. Ma era un fuoco che non faceva nulla per tenere Genevieve al caldo, e infatti lei poté vedere il suo fiato che usciva come nebbia davanti a sé. Sarebbe stata una notte fredda. La cosa migliore da fare era trovare un buco o un fossato in cui rannicchiarsi, bruciando qualsiasi pezzo di torba o felce potesse mettere insieme per creare un fuoco vero.
Al peggio sarebbe morta là fuori, congelata a morte nella brughiera che non mostrava alcuna gentilezza per le persone che tentavano di attraversarla a quel modo. Magari questo era addirittura meglio che andarsene in giro senza meta fino al punto di morire di fame. Una parte di Genevieve avrebbe voluto fermarsi e sedersi lì a guardare le luci che pian piano salutavano le lande, fino a che…
Con un sussulto Genevieve si rese conto che non tutto l’arancio e il rosso sulla brughiera attorno a lei erano riflessi del tramonto. Lì in lontananza poteva vedere una luce che sembrava provenire da un qualche genere di edificio. C’erano delle persone là fuori.
Prima la vista di un gruppo di persone era bastata a farle cambiare direzione e allontanarsi, ma questo era successo alla luce del sole e al caldo, quando la gente rappresentava niente più che pericolo. Ora, al buio e al freddo, quei pericoli erano controbilanciati dalla speranza di un ricovero.
Genevieve zoppicò verso quella luce, anche se ogni passo che faceva le sembrava una battaglia. Sentiva i piedi che affondavano nel terreno torboso delle lande, i cardi che le graffiavano le gambe mentre continuava a procedere. Sembrava quasi una sorta di barriera disposta dalla natura, pensata per intrappolare e graffiare, e in definitiva prosciugare la forza di volontà di chiunque pensasse di passare di là. Nonostante tutto Genevieve continuò a camminare.
Lentamente le luci si fecero più vicine, e mentre la luna iniziava a salire e illuminare meglio il paesaggio, lei vide che aveva davanti una fattoria. Si mise a camminare un po’ più velocemente, avvicinandosi il più rapidamente possibile con tutta la stanchezza e i dolori che aveva addosso. Arrivò nei pressi della struttura e vide delle persone che uscivano dalla casa.