Lei era sopravvissuta anche a quell’orrore, salvata da Jessie e da un furbo doppio gioco ideato da lei stessa. Bolton Crutchfield era finito ucciso. E anche se non era più una minaccia fisica, Jessie non era così sicura che non fosse riuscito a infiltrarsi nella mente di Hannah, corrompendola con la sua fede malata, fatta di sangue e nichilismo.
Jessie si alzò in piedi, in parte per sgranchirsi, ma anche perché poteva sentire che stava sprofondando in una sorta di sabbie mobili mentali. Guardò la propria immagine riflessa nello specchio della sala d’aspetto. Doveva ammettere che, nonostante avesse passato gli ultimi due mesi come inaspettato tutore di un’adolescente problematica, aveva ancora un aspetto presentabile.
I suoi occhi verdi erano chiari e limpidi. I capelli castani lunghi fino alle spalle erano puliti, morbidi e sciolti, liberi dalla solita coda di cavallo che portava al lavoro. Un lungo periodo passato senza la paura di essere braccata da un serial killer le aveva permesso di recuperare una routine lavorativa semi-normale, donando alla sua statura di oltre un metro e ottanta una forza e una solidità che da tempo aveva perduto.
La cosa più impressionante di tutte era che nessuno dei suoi casi recenti si era presentato con sparatorie, attacchi con arma da taglio o niente che si avvicinasse a ferite personali. Come risultato, Jessie non aveva aggiunto nessuna nuova cicatrice alla sua enorme collezione, che includeva un segno all’addome, graffi lungo braccia e gambe e una lunga cicatrice rossastra a forma di luna che le percorreva per dieci centimetri circa la base del collo, dalla clavicola alla spalla destra.
La toccò senza pensarci, chiedendosi se stesse per arrivare il momento in cui qualcuno l’avrebbe vista, insieme a tutte le altre. Aveva la sensazione che lei e Ryan si stessero avvicinando al punto in cui sarebbero stati in grado di studiare vicendevolmente da vicino le loro imperfezioni.
Il detective Ryan Hernandez era, oltre al collega che la affiancava regolarmente nei casi, anche il suo ragazzo. Era strano usare quel termine, ma non c’era modo di aggirarlo. Si frequentavano semi-regolarmente almeno da quando Hannah si era trasferita a vivere da lei. E anche se non erano ancora arrivati a quel passo fisico finale, sapevano entrambi che ci mancava poco. L’attesa e l’imbarazzo rendevano l’ambiente lavorativo piuttosto interessante.
Jessie fu risvegliata dai suoi pensieri dalla porta che si apriva. Hannah né uscì, il suo aspetto né turbato né chiuso. Sembrava stranamente… normale, cosa che, considerato tutto quello che aveva vissuto, sembrava di per sé bizzarro.
La dottoressa Lemmon uscì insieme a lei e incrociò lo sguardo di Jessie.
“Hannah,” disse la donna, “voglio parlare un paio di minuti con Jessie. Ti spiacerebbe aspettare un momento qui?”
“Nessun problema” rispose Hannah sedendosi. “In due dovreste riuscire a determinare se sono pazza o no. Io avvertirò solo lo stato della vostra enorme violazione della regola della riservatezza sanitaria.”
“Mi pare una buona idea,” rispose la dottoressa Lemmon, senza adescare all’amo. “Vieni dentro, Jessie.”
Jessie si accomodò sulla stessa poltroncina che usava per le sue sedute e la dottoressa Lemmon prese posto sulla sedia di fronte a lei.
“Voglio essere breve,” disse la donna. “Nonostante il suo sarcasmo, non penso che sia di aiuto ad Hannah la preoccupazione che io stia condividendo con te i dettagli di ciò che mi dice, anche se le ho assicurato che non l’avrei fatto.”
“Che non l’avrebbe fatto o non avrebbe potuto farlo?” insistette Jessie.
“È ancora sotto i diciotto anni, quindi tecnicamente, in quanto suo tutore, potresti insistere. Ma penso che questo andrebbe a minare la fiducia che sto cercando di sviluppare con lei. Ci è voluto un po’ per indurla ad aprirsi in un modo reale. Non voglio mettere a rischio questo risultato.”
“Capisco,” disse Jessie. “Allora perché sono qua dentro?”
“Perché sono preoccupata. Senza entrare nei dettagli, dirò che a parte una seduta in cui ha mostrato un po’ di emozione riguardo a ciò che ha vissuto, Hannah è ampiamente… indifferente. In retrospettiva, dopo averla conosciuta, sospetto che quell’unica dimostrazione di emozione sia stata effettuata a mio beneficio. Hannah sembra essersi dissociata dagli eventi che le sono accaduti, come se fosse stata un’osservatrice, piuttosto che una partecipante.”
“La cosa non mi sembra sorprendente,” disse Jessie. “Anzi, la sento scomodamente familiare come sensazione.”
“Come è giusto che sia,” confermò la dottoressa Lemmon. “Tu stessa hai attraversato un periodo simile. È un modo piuttosto consueto del cervello per spiegare un trauma personale. Categorizzare degli eventi traumatici o disconnettersi da essi non è insolito. Quello che mi preoccupa è che Hannah non sembra farlo per proteggersi dal dolore di ciò che le è successo. Sembra aver semplicemente cancellato il dolore dal suo sistema, quasi come un disco fisso che viene svuotato. È come se non vedesse come doloroso quello che ha vissuto, ma le considerasse semplicemente delle cose che sono accadute. Si è narcotizzata e li considera fatti che non hanno niente a che vedere con lei o con la sua famiglia.”
“E mi viene da pensare che non sia una mossa salutare?” chiese Jessie pensierosa, mentre si spostava nervosamente sulla sua poltroncina.
“Odio dover giudicare la cosa,” disse la dottoressa Lemmon con il suo solito tono misurato. “Per lei sembra funzionare. La mia preoccupazione è dove questo possa portare. Le persone che non riescono a entrare nel proprio dolore emotivo, a volte arrivano al punto in cui non sono in grado di riconoscere il dolore degli altri, emotivo o fisico che sia. La loro capacità di provare empatia si disintegra. Questo può spesso portare a un comportamento socialmente inaccettabile.”
“Quello che mi sta descrivendo sembra sociopatia,” sottolineò Jessie.
Sì,” confermò la dottoressa Lemmon. “I sociopatici mostrano alcune di queste caratteristiche. Non farei una diagnosi formale per Hannah, sulla base del tempo limitato che abbiamo passato insieme. Buona parte di questo potrebbe essere semplicemente attribuito a un profondo stato di DPTS. Ad ogni modo, hai notato qualche comportamento che possa essere ricondotto a ciò che ho appena descritto?”
Jessie pensò agli ultimi mesi, a partire dall’inesplicabile e insensata bugia riguardo alla televisione quella mattina stessa. Ricordò come Hannah si fosse lamentata quando Jessie aveva insistito nel portare da un veterinario un gattino malato e abbandonato che avevano trovato nascosto sotto a un cassonetto. Ricordò come la ragazza fosse rimasta in silenzio per ore, indipendentemente da ciò che Jessie aveva fatto per tentare di farla parlare. Pensò alla volta che aveva portato Hannah in palestra e a come la sua sorellastra aveva iniziato a prendere a pugni il pesante sacco senza indossare guanti, colpendolo fino a trovarsi con le mani scorticate e sanguinanti.
Tutti quei comportamenti sembravano corrispondere alla descrizione della dottoressa Lemmon. Ma si potevano anche facilmente interpretare come le azioni di una giovane donna che cerca di elaborare il suo dolore interiore. Niente di tutto questo significava che Hannah fosse una futura sociopatica. Jessie non voleva neanche avvicinarsi a un’etichetta del genere, neppure con la dottoressa Lemmon.
“No,” mentì.
La terapeuta la guardò, ovviamente poco convinta. Ma non insistette, passando a un’altra priorità.
“Come va la scuola?” le chiese.
“Ha iniziato la settimana scorsa. L’ho inserita nella scuola superiore terapeutica che lei mi ha consigliato.”
“Sì, io e lei ne abbiamo parlato brevemente,” confermò la dottoressa. “Non sembrava particolarmente colpita. È anche la tua sensazione?”
“Penso che il modo in cui ha posto la cosa sia ‘per quanto tempo devo frequentare questi drogati e aspiranti suicidi prima di poter tornare in una scuola vera?”
La Lemmon annuì, chiaramente non sorpresa.
“Caspico,” disse. “Con me è stata un po’ meno esplicita. Capisco la sua frustrazione. Ma penso che sia necessario tenerla in un ambiente sicuro e fortemente controllato almeno per un mese, prima di considerare il passaggio a una scuola tradizionale.”
“Questo lo capisco. Ma so che è frustrata. Doveva diplomarsi quest’anno. Ma con tutto il tempo che ha perso, anche in una scuola tradizionale, dovrà frequentare i corsi estivi. Non è che impazzisca di gioia per essere finita con, come li chiama lei, ‘i bruciati al cervello e i cretini’.”
“Un passo alla volta,” disse la dottoressa Lemmon, per niente turbata. “Andiamo avanti. Tu come stai?”
Jessie rise nonostante tutto. Da dove cominciare? Prima che potesse parlare, fu la dottoressa Lemmon a farlo.
“Ovviamente non abbiamo tempo per una seduta completa in questo momento. Ma come te la stai cavando? Sei improvvisamente responsabile di un minore, hai iniziato una relazione con un collega, il tuo lavoro ti richiede di entrare nelle teste di brutali assassini, e stai gestendo il crollo emotivo di aver messo fine alle vite di due serial killer, uno dei quali era tuo padre. Mi pare ci sia abbastanza materiale per giocare.”
Jessie fece un sorriso forzato.
“Detta così, non sembra poi chissà che roba.”
La dottoressa Lemmon non sorrise.
“Dico sul serio, Jessie. Devi restare cosciente della tua salute mentale. Questo non è un periodo pericoloso solo per Hannah. Il rischio che anche tu abbia una regressione è significativo. Non fare l’eroina al riguardo.”
Jessie fece sparire il sorriso, ma mantenne le labbra rigide.
“Sono consapevole dei rischi, dottoressa. E sto facendo del mio meglio per prendermi cura di me. Ma non è che possa prendermi una giornata per andare alla spa. E se smetto di muovermi, verrò investita.”
“Non sono sicura che sia vero, Jessie,” disse la Lemmon con voce sommessa. “A volte, se ci si ferma, il mondo fa marcia indietro e tu puoi rimontare in sella. Sei una persona di valore, ma non essere arrogante. Non sei così indispensabile in questo mondo da non poter cliccare il tasto pausa di tanto in tanto.”
Jessie annuì, aggressive e sarcastica.
“Ne ho preso nota,” disse, fingendo di scrivere un appunto. “Non essere arrogante. Non indispensabile.”
La dottoressa Lemmon corrucciò le labbra, apparendo quasi irritata. Jessie cercò di andare oltre.
“Come sta Garland?” chiese con tono beffardo.
“Scusa?” chiese la Lemmon.
“Sa, Garland Moses, consulente profiler per il Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Mi ha aiutato a trovare e salvare Hannah, più vecchio, aspetto trasandato in quel modo un po’ affascinante da ‘chi se ne frega’.”
“Conosco il signor Moses, Jessie. Non sono sicura del perché tu mi stia chiedendo di lui.”
“Per nessun motivo,” le rispose, sentendo che era andata a segno. “È solo che ha accennato a lei qualche tempo fa, e qualcosa nel suo tono mi ha dato l’impressione che foste pappa e ciccia. Quindi mi stavo chiedendo come se la stesse passando.”
“Penso che con questo il nostro tempo oggi sia finito,” disse bruscamente la dottoressa Lemmon.
“Wow,” disse Jessie, questa volta sorridendo sul serio. “Ha chiuso davvero velocemente, dottoressa.”
La dottoressa Lemmon si alzò in piedi e le fece segno di andare verso l’uscita. Jessie decise di mollare. Quando ebbero raggiunto la porta, si girò verso la terapeuta e le pose la domanda che la stava tormentando da qualche minuto.
“Sul serio, dottoressa, se Hannah sta seguendo la strada alla fine della quale farà fatica a provare empatia per le altre persone, ci saranno modi di farla tornare indietro?”
La dottoressa Lemmon esitò e la guardò fissa negli occhi.
“Jessie, ho passato trentacinque anni della mia vita a cercare di rispondere a domande come questa. La migliore risposta che posso darti è: lo spero.”
CAPITOLO TRE
Lizzie Polacnyk arrivò a casa davvero tardi.
Si era aspettata di tornare dalla sua sessione di studio alla California State University a Northridge entro le 7 di sera. Ma avevano un esame enorme di Psicologia 101 domani e tutti si erano fatti domande senza sosta. Quando avevano deciso che la serata era finita, si erano fatte ormai le nove passate.
Quando aprì la porta di casa sua, erano quasi le 21:45. Cercò di mantenere il silenzio, ricordando che Michaela aveva fatto chiusura alle 6 di mattina gli ultimi due giorni, e quindi ormai era sicuramente addormentata.
Percorse il corridoio in punta di piedi fino alla sua stanza e fu sorpresa di vedere una luce soffusa che filtrava da sotto la porta della camera della compagna d’appartamento. Non era da lei restare sveglia fino a tardi se doveva alzarsi prima delle cinque di mattina. Si chiese se l’amica di vecchia data e recente coinquilina fosse stata semplicemente troppo stanca e si fosse addormentata con la luce accesa. Decise di sbirciare dentro alla camera e spegnerla se necessario.
Quando spinse la porta leggermente, vide Michaela stesa supina, senza le coperte addosso. Il cuscino le copriva in parte la faccia. C’era solo l’abat-jour accesa, quindi era difficile esserne sicuri, ma sembrava che non si fosse neanche levata i vestiti della giornata: una divisa da cheerleader.
Lizzie stava per chiudere la porta quando notò una cosa strana. La gonna era tirata in basso, sulle cosce di Michaela, lasciando scoperto il pube. Questo sembrava piuttosto strano, per quanto fosse stata stanca.
Lizzie si chiese se tirare un lenzuolo sopra all’amica per coprirla. Considerato quello che Michaela faceva di lavoro, sembrava un atto di forzata modestia. E poi non era che nessuno sarebbe potuto entrare nella stanza. Però Lizzie sentì la ragazza cattolica dentro di sé che si dimenava e sapeva che l’avrebbe tormentata tutta la notte se non avesse fatto qualcosa.
Quindi spinse delicatamente la porta ed entrò nella stanza, camminando silenziosamente fino al bordo del letto. Era a metà strada quando si fermò di colpo. Ora, senza schermi davanti, poteva vedere i buchi sul petto e sullo stomaco di Michaela.
Una densa pozza si era formata sotto al suo torso, con il sangue che era uscito dalla divisa lacerata, e stava leggermente imbevendo le lenzuola del letto. Gli occhi dell’amica erano strizzati, come se li avesse tenuti chiusi con forza per proteggersi da ciò che stava accadendo.
Lizzie rimase lì per diversi secondi, insicura su come reagire. Sentiva di dover forse gridare, ma la gola era improvvisamente secca. Lo stomaco gorgogliò e lei temette per un secondo di dover vomitare.
Sentendosi come in uno strano sogno, si girò e uscì dalla stanza, tornando in cucina, dove si versò un bicchiere d’acqua. Quando fu sicura di essere in grado di parlare, chiamò il 911.
*
L’appuntamento stava andando bene.
Mentalmente Jessie iniziò a chiedersi se questa sera potesse essere la sera giusta. Era quasi riluttante a desiderarlo. La sua relazione con Ryan era la cosa più stabile nella sua vita in questo momento, ed era restia a fare qualsiasi cosa potesse complicarla.
Aveva passato la maggior parte della serata nell’affascinante ed elegante ristorante italiano, lamentandosi di come le cose stessero andando con Hannah. Gli aveva raccontato le basi della sua conversazione con la dottoressa Lemmon e si lamentava della mancanza di progressi da parte sua nell’aiutare la sorellastra a tornare alla normalità. Fu solo quando Ryan si scusò per andare in bagno che Jessie si rese conto di quando fosse stata centrata solo su se stessa.