Chiavi. Sì, dovevano essere delle chiavi.
I suoi occhi scattarono ancora verso il corridoio sopra di lei. Chiavi per la stanza del motel? No? Loro avevano usato una key-card. Voltò le spalle alla strada e scrutò la lunghezza della seconda ala del motel, dietro alla quale sospettava fosse scomparso. Sarebbe tornato indietro?
Chiavi della macchina. Dovevano essere chiavi della macchina, giusto? Il pickup di Jason era nel parcheggio del motel, lo avevano visto arrivando.
Adele si convinse e poi, anziché dirigersi verso il passaggio tra gli edifici e quindi verso la strada, si girò e scattò nella direzione opposta. Il parcheggio del motel era situato dietro agli edifici, circoscritto da una grossa recinzione in legno e con dei cassonetti rossi con coperchi neri, nuovi di zecca, ai quattro angoli.
Un presentimento. Ma a volte un presentimento era tutto ciò che un agente aveva a disposizione.
Adele poteva sentire le sirene in lontananza, ma erano ancora deboli. Era sola. Si guardò alle spalle, verso le scale, notando che il suo collega stava lentamente scendendo, lo sguardo ancora frastornato mentre scuoteva la testa. Zoppicava un po’, il sangue che ancora gli colava dal naso.
Adele espirò rassegnata mentre continuava a correre in direzione del parcheggio. Saltò un’alta piccola siepe, riconoscente per tutto il tempo passato a correre ogni mattina. Corse lungo il lato dell’ufficio di registrazione documenti e poi passò oltre una rete e un cassonetto rosso posizionato sul retro degli uffici. L’olezzo della spazzatura di due settimane impregnava l’aria e le si appiccicò ai vestiti. Adele ignorò il puzzo e imprecò mentre la stoffa le restava impigliata in una parte sporgente della rete. Uno strappo silenzioso, un lampo di dolore. Ma non si fermò, ignorando lo squarcio nei suoi abiti.
Adele scivolò attraverso la rete e il cassonetto puzzolente prima di fermarsi di colpo e fissare il grosso pickup nero con gli specchietti sporgenti. Il veicolo era parcheggiato in mezzo a due spazi liberi, dietro a un minivan.
La portiera laterale del pickup era spalancata.
Jason si stava già arrampicando al posto di guida. Lanciò un’occhiata verso di lei, poi imprecò ad alta voce prima di sbattere la portiera e infilare la chiave nell’accensione. Si sentì un attutito rumore metallico, seguito da una scia di bestemmie in spagnolo.
Adele alzò la pistola e la puntò contro il finestrino. “Fermo o sparo!” gridò.
Ma il signor Hernandez la ignorò, continuando a trafficare con le chiavi. Alla fine il motore prese vita. Jason fissò fuori dal finestrino, gli occhi sgranati, nel panico. Il tatuaggio contorto dei due serpenti sembrava pulsare sulla sua pelle e le vene erano sporgenti alle tempie.
L’uomo mormorò qualcosa che Adele non poté sentire attraverso il vetro, poi inserì la marcia. Diede gas. Si udì il fischio dei copertoni e il pickup sfrecciò in avanti, andando quasi a sbattere contro la parete dell’ufficio. Jason imprecò tacitamene e inserì la retromarcia prima di guardarsi alle spalle e prepararsi alla manovra.
Diversamente dal motel, il pickup di Jason era in condizioni immacolate. I finestrini erano puliti e il veicolo stesso non aveva un singolo graffio o botta. Alcuni dei testimoni che avevano visto Hernandez seguire le sue presunte vittime a casa loro avevano affermato che tutto aveva avuto inizio quando il signor Carter aveva quasi tamponato il pickup di Jason.
Adele tenne la pistola puntata e si preparò, le spalle aperte, i piedi divaricati. “Fermo, FBI!” gridò.
“Agente Sharp!” chiamò una voce alle sue spalle. Per un brevissimo istante, Adele sussultò e si voltò.
Masse stava arrancando lungo l’edificio più vicino a Jason. Chiaramente aveva fatto il giro dalla strada, percorrendo la via più lunga. Ma ora significava che era più vicino al pickup rispetto a lei. Masse scorse Jason. Il giovane agente sgranò gli occhi e sollevò la pistola.
“Aspetta!” gridò Adele.
Ma Masse scaricò tre colpi a raffica. Due colpirono il cofano del veicolo, il terzo mandò in frantumi entrambi i finestrini, passando dritto da uno all’altro. Nessuno degli spari colpì Jason Hernandez.
Ma attraverso la cornice dei finestrini ora infranti, Adele aveva adesso una buona visuale dell’espressione dell’uomo.
Non stava più trafficando con volante e accensione. Fissava il vetro distrutto, gli occhi sgranati come scioccato, il volto ora pallido. Guardò i frammenti del finestrino distrutto, poi i suoi occhi passarono ai due fori fumanti sul cofano dell’adorato pickup.
“Puta!” gridò. Hernandez passò sul sedile del passeggero e aprì la portiera da quel lato, uscendo velocemente dal veicolo. Ora si trovava dalla parte opposta del mezzo rispetto ad Adele, ma più vicino a Masse.
Adele cercò di mantenere la propria posizione, ma sbuffò frustrata: aveva perso il bersaglio diretto. Si spostò rapidamente, sempre con movimenti controllati, cercando di mantenere i due soggetti all’interno del campo visivo mentre faceva rapidamente il giro del parcheggio.
Jason iniziò ad avanzare verso l’agente Masse, ignorando la pistola puntata contro il suo volto e Adele che stava facendo il giro da dietro. Quando si fu rimessa in posizione, Adele scrutò la sua espressione: gli occhi di Jason erano dilatati, le vene gli pulsavano sulla fronte e sul collo.
“Cavron!” gracchiò, spostando lo sguardo dal suo pickup ora rovinato all’agente dell’FBI che aveva sparato. Sembrava del tutto indifferente, o forse inconsapevole dell’arma che Masse ancora teneva tra mani tremanti.
Sembrava che il giovane agente stesse registrando solo ora il grido “Aspetta!” che Adele gli aveva lanciato poco prima. Il dito premuto contro il grilletto era ancora bianco per la tensione, ma lui sembrava pietrificato. Aspettò, esitante, guardando Adele e poi la figura di Hernandez che si stava avvicinando. Esitò per un secondo di troppo.
“No… non farlo!” gridò Adele, ma fu troppo tardi.
Jason si lanciò in avanti, abbassandosi sotto alla linea di tiro di Masse e prese il giovane agente per la vita, cadendo insieme a lui sul marciapiede.
Adele corse in avanti, cercando un varco, la pistola puntata. Il cemento freddo del parcheggio e la barriera di sicurezza fornivano una superficie dura contro la quale le scapole di Masse andarono a sbattere una volta, e poi un’altra, mentre lui tentava di rialzarsi. Ma Jason ringhiava, tirava pugni e tentava di graffiare gli occhi dell’agente.
“Levati di mezzo!” gridò Adele. Poi sparò.
Masse si lasciò scappare un grido di terrore. Hernandez sbuffò per il dolore, ruotò su se stesso e cadde a terra accanto all’agente che aveva immobilizzato.
“Il primo al braccio,” disse Adele con tono secco, la pistola sempre puntata su Hernandez. “Continua a ribellarti e il prossimo di finisce dritto nel petto, capito?”
Il rumore di grida e imprecazioni da parte di Jason svanì. L’uomo continuava a rotolare avanti e indietro, i denti digrignati per il dolore e la testa premuta contro il ruvido marciapiede. Dei piccoli rivoli di sangue rosso gli scorrevano tra le dita. Di tanto in tanto distoglieva lo sguardo dal braccio ferito e guardava il suo pickup danneggiato, scuotendo la testa con rinnovata angoscia.
Adele sospirò, poi portò la mano alla radiotrasmittente che aveva al braccio. “C’è bisogno di un medico,” disse.
Guardò il collega, che si stava ancora mettendo in piedi, tremante, e poi la forma di Hernandez che si contorceva a terra. Sospirò di nuovo. “Meglio due”. Poi ruotò gli occhi al cielo e si avvicinò a Hernandez, prendendo le manette che teneva alla cintura.
CAPITOLO DUE
Adele espirò pesantemente, ascoltando il sommesso cigolio dei cardini mentre la porta di casa sua si chiudeva. Dopo quattro ore di ridicoli documenti e interrogatori, era felice di essere finalmente di nuovo a casa.
Premette un interruttore della luce e osservò lo spazio angusto mentre ruotava le spalle e sussultava sentendo un’improvvisa fitta di dolore. Adele si guardò il fianco e notò per la prima volta una macchia rossa sulla camicia bianca sotto alla giacca.
Si accigliò. Con un altro sussulto, scrutò il suo piccolo appartamento mentre andava al lavandino della cucina, sfilando rassegnata la camicia dalla cintura.
Un’altra casa. L’affitto andava di due mesi in due mesi. Restare nel vecchio appartamento le sarebbe risultato troppo costoso. Dopo che Angus se n’era andato, Adele semplicemente non prendeva abbastanza soldi per poter continuare a pagare l’affitto a SoMa, il quartiere di aggregazione di Angus e dei suoi amichetti informatici. Ora, dopo essersi trasferita a Brisbane, notava che il cambiamento non le dava per niente fastidio. Non era un posto rumoroso – e di questo doveva ringraziare i suoi vicini – anche se l’appartamento era poco più di una cucina, una TV e una camera da letto con bagno privato. Tutto quanto, addirittura anche il televisore, sapeva un po’ di muffa.
Ad ogni modo non era che lei passasse poi tanto tempo a casa.
Adele sussultò di nuovo mentre tirava la camicia fuori dalla cintura ed esaminava il lungo graffio sulla sua pelle. Fece una smorfia ricordando. Senza dubbio un regalino della rete di ferro.
“Maledetti dilettanti,” mormorò sottovoce.
L’agente Masse era giovane. Aveva finito l’addestramento solo pochi mesi prima. Adele dubitava di essere stata molto meglio durante il suo primo caso, eppure… questo era davvero stato un disastro. Sentiva la mancanza di John. L’ultima volta che si erano visti, però… si erano trovati impacciati. Ricordava la nuotata notturna nella piscina privata di Robert. Il modo in cui John si era chinato verso di lei, e come poi, quasi di riflesso, si era ritratto.
Adele si accigliò al pensiero, ma avrebbe voluto poter tornare indietro. Prese un pezzo di carta assorbente dalla mensola della cucina e fece scorrere l’acqua calda. Aprì l’anta sopra al frigorifero e ne tirò fuori una bottiglia di disinfettante. Vi inzuppò la carta e premette la medicazione improvvisata contro le costole, sussultando un’altra volta.
Andò all’unica sedia che c’era in cucina, infilata sotto al mezzo tavolo che si trovava tra il frigorifero e il fornello, e si sedette di fronte al muro, tamponando il graffio con il pezzo di carta assorbente pregno d’alcool. Alla fine, appoggiandosi allo schienale, sospirò profondamente.
Sovrappensiero, si voltò a guardare la porta alle sue spalle. Due chiavistelli e una catena ornavano la cornice di metallo, rimasuglio dei proprietari precedenti.
La sedia grattò contro il pavimento mentre lei si spostava e posava un gomito sul tavolo, fissando la superficie del legno liscio. Si spostò ancora, se non altro per sentire nuovamente un po’ di rumore. L’appartamento era così silenzioso. Quando abitava con Angus, c’era sempre stato almeno uno spettacolo alla TV, o qualche podcast che riverberava dalla sua stanza mentre lavorava a un progetto di decodificazione. Per il paio di settimane che aveva passato da Robert in Francia, si era spesso trovata nella stessa stanza in cui c’era il suo vecchio mentore, godendosi la sua compagnia accanto al fuoco, mentre lui leggeva un libro o ascoltava un concerto alla radio.
Ora però, nel piccolo e stretto appartamento di San Francisco… era tutto di nuovo tremendamente silenzioso.
Adele si spostò ancora una volta, ascoltando lo scricchiolio di protesta della misera sedia. Le venne in mente una frase della sua infanzia, una delle preferite di suo padre: “Le cose semplici appagano le menti semplici.” In una sorta di protesta fantasma, Adele oscillò sulla sedia, ascoltando un’ultima volta quello scricchiolio stranamente consolante, prima di stringere i denti, sempre premendosi la benda improvvisata sulla ferita. Poi si alzò in piedi e imboccò il corridoio.
“Maledetto Renee,” mormorò.
Jason Hernandez non sarebbe mai scappato se John fosse stato lì. La Francia le mancava. Dopo il colloquio con l’Interpol, aveva passato del tempo con Robert. Delle giornate interessanti, rigeneranti in un certo senso. Le avevano offerto un’opportunità di fare delle ricerche sull’assassino di sua madre.
Adele aprì la porta del bagno alla fine del corridoio e si mise davanti allo specchio. Era un bagno piccolo e stretto. La doccia era sufficiente, dato che erano quasi sei anni che Adele non faceva un bagno. Le docce erano molto più efficaci. Il sergente – suo padre – probabilmente non aveva fatto un bagno in tutta la sua vita.
Adele sospirò mentre si spogliava ed entrava nella doccia, aprendo l’acqua calda. Lo spruzzo era ancora tiepido. Un altro piccolo difetto del nuovo appartamento. La pressione dell’acqua non era un gran che, ma si sarebbe dovuta accontentare.
Mentre Adele stava sotto all’erogatore della doccia, chiuse gli occhi e permise alla sua mente di vagare, mettendo da parte gli eventi della giornata e tornando agli ultimi due mesi negli Stati Uniti.
Le parole rigiravano nella sua mente.
“… Onestamente, è buffo che tu te ne sia andata da Parigi, sai? Soprattutto considerato dove lavoravi.”
Sospirò mentre l’acqua le inzuppava i capelli e iniziava a gocciolarle dal naso e dalle guance in lenti scrosci irregolari che corrispondevano al getto intermittente dell’erogatore. Ma lei tenne gli occhi chiusi, ripensando ancora a quelle parole. Riecheggiavano – a volte addirittura durante il sonno – risuonando nella sua testa.
Era quello che aveva detto il killer.
Di nuovo in Francia. Un uomo che aveva fatto a pezzi le sue vittime e le aveva guardate morire dissanguate, indifese e da sole. Lei e John avevano catturato quel serial killer, ma non prima che avesse quasi assassinato anche suo padre. Aveva quasi ucciso anche Adele stessa, in effetti.
Quel bastardo venerava l’assassino di sua madre. Un altro assassino. Ce n’erano così tanti.
La fronte di Adele si aggrottò sotto al flusso dell’acqua mentre teneva serrati i pugni, le nocche premute contro la plastica bianca, fredda e scivolosa, che sembrava porcellana.
John aveva ucciso il serial killer prima che l’uomo finisse Adele, ma questo l’aveva solo lasciata con più domande. Da qualche parte dentro di lei quasi desiderava che fosse rimasto in vita.
Perché era così buffo che lei se ne fosse andata da Parigi? Quella frase ora la ossessionava. Continuava a girarsela e rigirarsela nella testa. Buffo che tu te ne sia andata da Parigi… soprattutto considerato dove lavoravi. Come se la stesse prendendo in giro. Stavano parlando dell’assassino di sua madre.
Parigi. Ora ne era quasi certa. L’assassino di sua madre aveva vissuto a Parigi. Forse ci viveva ancora. Avrebbe avuto, cosa, cinquant’anni? Adele scosse la testa, spruzzando goccioline d’acqua nella doccia e sul ripiano scivoloso.
Strinse i denti mentre altra acqua tiepida scendeva in getti irregolari.
In uno scoppio di frustrazione, girò la manopola a metà, ma l’acqua non si scaldò. Adele sbatté le palpebre, gli occhi che bruciavano contro i rigoli di liquido che le striavano le guance. Fissò con rabbia il pomello della doccia, la freccia che indicava l’estremità di un segno rosso.
“Allor ava bene,” mormorò.