Non resta che scappare - Блейк Пирс 3 стр.


Afferrò la manopola e la ruotò dall’altra parte. Piccoli stratagemmi raccolti nel tempo. L’acqua fredda cominciò a colpirle la testa, facendole venire la pelle d’oca sulle braccia. Nel giro di pochi istanti Adele iniziò a battere i denti e il dolore al fianco svanì lasciando spazio a un indolenzimento gelido mentre l’acqua da fredda diventava ghiacciata.

Ma lei rimase nella doccia.

L’assassino l’aveva presa in giro. Come se avesse saputo qualcosa. Qualcosa che a lei era sfuggito. Qualcosa che era sfuggito anche alle autorità. Cosa c’era di così importante nel suo posto di lavoro? Quella era la parte che la disturbava di più. Era come se… Scosse la testa, cacciando via il pensiero.

Ma… e se fosse vero?

E se il killer di sua madre fosse in qualche modo collegato al DGSI? Magari non l’agenzia stessa, ma l’edificio. Magari c’era una connessione. Altrimenti che altro senso potevano aver avuto le sue parole?

Soprattutto considerato dove lavoravi…

L’uomo che John aveva ucciso sapeva qualcosa dell’assassino di sua madre. Ma se l’era portato nella tomba. E il Killer di Picche, l’uomo che lui aveva tanto venerato, l’uomo che aveva ucciso sua madre, era ancora libero.

L’acqua fredda continuava a scorrere in mezzo alle sue scapole e lei fece qualche breve respiro rapido e ravvicinato in risposta a quella sensazione, ma ancora si rifiutò di spostarsi.

La prossima volta sarebbe stata più furba. Le avevano chiesto di far parte di una task force con l’Interpol in caso di necessità. Ma Adele non vedeva l’ora di tornare in Europa. La California le piaceva, e le piaceva anche lavorare con l’FBI, soprattutto con la sua amica, l’agente Grant, come supervisore. Ma il desiderio di risolvere l’omicidio di sua madre le richiedeva un certo livello di vicinanza geografica al luogo dei fatti.

Alla fine, spingendo un braccio contro la porta di vetro e annaspando, Adele ruotò il pomello della doccia.

La cascata di acqua ghiacciata cessò. Lei rimase tremante all’interno della cabina in vetro e plastica, mentre l’acqua le gocciolava dal corpo.

Chiunque avesse progettato quel bagno, aveva messo il porta-asciugamano sul retro della porta, dalla parte opposta della stanza. Ci volevano un paio di passi per raggiungerlo, e anche se lei aveva messo un tappeto da bagno sul pavimento per assorbire l’acqua, preferiva sempre aspettare un po’ nella doccia, in attesa che l’eccesso di acqua scivolasse giù, prima di uscire.

E quindi aspettò, pensando, meditando, tremando. Pensò a un’altra volta che si era trovata bagnata zuppa di acqua, anche lì tremante…

Un lampo di calore le pervase le guance. Pensò a quando aveva nuotato nella piscina di Robert. John era venuto per una serata…

Era insopportabile. Rude, odioso, fastidioso, per niente professionale.

Ma anche affascinante, disse una piccola parte di lei. Affidabile. Pericoloso.

Scosse la testa e uscì dalla doccia, facendo stridere la porta di vetro e metallo, mandandola a sbattere contro la parete gialla. Un paio di pezzettini di intonaco caddero dal soffitto. Adele sospirò, guardando in alto. Sotto alla pittura del muro si erano già formate delle macchie di muffa. Il proprietario precedente ci aveva tinteggiato sopra, nascondendo quindi il problema.

Magari avrebbe potuto mandare un messaggio a John.

No, sarebbe stato un atteggiamento troppo familiare. Un’email allora? Troppo impersonale. Una telefonata?

Adele esitò un momento e allungò la mano per prendere l’asciugamano e asciugarsi i capelli. Una chiamata poteva essere carina. Si asciugò poi lungo il fianco, sussultando ancora per il graffio.

Alcune ferite guarivano lentamente. Ma altre volte era meglio evitarle a priori, le ferite. Forse era meglio che non telefonasse a John.

La stanchezza le pesava sulle spalle mentre si dirigeva in camera da letto. Tre ore di straordinari, a compilare carte e a giustificare il motivo dello sparo, ora si stavano facendo sentire.

Era un pensiero orribile, ma Adele stava iniziando a sperare di avere presto un caso in Europa.

Magari qualcosa che non facesse troppo male a qualcuno. Giusto qualcosa che la tirasse fuori dalla California per un po’. Fuori da quel piccolo e angusto appartamento. C’era troppo silenzio. Per alcune persone, il rumore di altri esseri umani che si muovevano attorno, che si godevano le loro vite, era un rumore ristoratore. Teneva alla larga certi sprazzi di solitudine.

Adele sospirò ancora ed entrò nella sua stanza, preparandosi per andare a letto. Si sistemò una benda sul graffio e cercò di cacciare via ogni pensiero di astio nei confronti del suo nuovo partner. Si infilò a letto e rimase ferma lì qualche minuto.

In passato, lei ed Angus guardavano la TV prima di addormentarsi. A volte lui leggeva un libro, raccontandoglielo a voce alta riga per riga, in modo che anche lei se lo potesse sentire. Altre volte stavano solo lì abbracciati a parlare per ore prima di appisolarsi.

Ora però c’era solo lei lì sdraiata. Niente TV. Niente libri. Solo silenzio.

CAPITOLO TRE

Melissa Robinson salì i gradini dell’appartamento canticchiando sommessamente tra sé e sé. In lontananza sentiva le campane della città. Si fermò per ascoltare e il suo sorriso si fece più grande. Abitava a Parigi da sette anni ormai, ma quel suono non la stancava mai.

Imboccò l’ultima rampa di scale. Niente ascensori in questi appartamenti. Gli edifici erano così vecchi. Pieni di cultura, pensò tra sé e sé.

Sorrise ancora e salì i gradini uno alla volta. Non c’era fretta. La neo-arrivata che doveva incontrare aveva detto alle due. Era le 13:58. Melissa si fermò sul pianerottolo, guardando fuori dalla grande finestra che lasciava vedere la città sottostante. Non era cresciuta a Parigi, ma quel posto era bellissimo. Adocchiò le vecchie strutture in pietra ingiallita di certi edifici che erano più vecchi di alcuni Paesi. Notò lo schema geometrico di alcuni appartamenti e locali e strade che si incrociavano nel cuore della città.

Con un altro sospiro soddisfatto, Melissa raggiunse la porta al terzo piano e bussò delicatamente sulla cornice. Passarono alcuni istanti.

Nessuna risposta.

Continuò a sorridere, sempre ascoltando le campane e poi girandosi ancora a guardare fuori dalla finestra. Da lì si vedeva la piccola guglia di Sainte-Chapelle che si stagliava all’orizzonte.

“Amanda,” chiamò con voce delicata e gentile.

Ricordò la prima volta che era venuta a Parigi. Le era sembrato tutto così travolgente. Sette anni fa, un’espatriata dall’America che si sistemava in un nuovo Paese, in una nuova cultura. La gente che bussava alla porta era stata una distrazione ben accetta al tempo. Melissa sapeva che molti dei suoi amici nella comunità di espatriati facevano fatica ad adattarsi alla città. Non era sempre così amichevole di primo acchito, soprattutto non per gli americani, o per ragazzi in età da college. Ricordava i primi due anni passati in un campus in America. Era stato come se tutti avessero voluto essere suoi amici. In Francia la gente era un po’ più riservata. E questo era il motivo per cui lei dava una mano a organizzare il gruppo.

Melissa sorrise ancora e diede un altro colpetto alla porta. “Amanda,” ripeté.

Ancora nessuna risposta. Esitò, guardando da una parte e dall’altra del corridoio. Mise la mano in tasca e ne tirò fuori il telefono. Gli smartphone andavano benissimo ed erano comodi, ma Melissa preferiva qualcosa più in vecchio stile. Diede un’occhiata al vecchio telefono a conchiglia e notò l’ora sullo schermo. Le 14:02. Scorse i messaggi e lesse di nuovo l’ultimo che Amanda le aveva mandato.

“Sono contenta di vederti dopo. Diciamo alle due? Non vedo l’ora di far parte del gruppo. È difficile farsi amici in città.”

Il sorriso di Melissa divenne più esitante. Ricordò l’incontro con Amanda: un incontro casuale in un supermercato. Erano andate subito d’accordo. Le campane sembravano essersi fatte più lontane adesso. D’impulso, Melissa mise la mano sulla maniglia e la provò. Girò. Un click e la porta si aprì.

Melissa rimase a guardare.

Avrebbe dovuto assicurarsi di avvisare Amanda che era pericoloso lasciare la porta così aperta in centro. Anche in una città come Parigi, la cautela veniva prima della sicurezza. Melissa esitò un poco, presa da una crisi di coscienza, ma poi, alla fine, aprì la porta del tutto spingendola delicatamente con l’indice.

“Ciao,” disse, rivolta all’appartamento buio. Forse Amanda era fuori a fare la spesa. Magari si era dimenticata del loro appuntamento. “Ciao, Amanda? Sono io, Melissa, del forum…”

Nessuna risposta.

Melissa non si considerava una tipa particolarmente impicciona. Ma quando si trattava di americani a Parigi, provava un certo senso di affinità. Quasi come se fossero parte della sua stessa famiglia. Non le sembrava tanto di fare l’intrusa, quanto di verificare che una sorella minore stesse bene. Si rassicurò mentalmente, giustificando la decisione tra sé e sé prima di entrare nell’appartamento della donna che aveva incontrato solo una volta in vita sua.

La porta scricchiolò ancora quando lei la urtò con il gomito, facendola aprire ancora di più. Esitò e le parve di sentire delle voci che provenivano dal fondo del corridoio. Sporse la testa nuovamente verso l’esterno, guardando in direzione delle scale.

Una giovane coppia stava salendo. La notarono, ma invece di salutarla o farle un cenno della testa, continuarono a chiacchierare allegramente. Melissa sospirò e tornò nell’appartamento. Poi rimase immobile. Il frigorifero era aperto. Uno strano fascio di luce gialla usciva dallo scomparto, illuminando il pavimento della cucina.

Amanda era lì. Seduta sul pavimento, rivolta verso la parete opposta. La schiena era mezza appoggiata alla credenza, una scapola premuta contro il legno, l’altra che sporgeva oltre la struttura del mobile, il braccio sinistro appoggiato sul pavimento.

“Ti è caduto qualcosa?” chiese Melissa, avanzando di più nella stanza buia.

Sotto al braccio sinistro di Amanda c’era una pozza di vino. Melissa fece un altro paio di passi e si voltò a guardare Amanda, sempre sorridendo.

Il suo sorriso si irrigidì. Gli occhi privi di vita di Amanda la guardavano. Sul collo si apriva un profondo squarcio. Il sangue rappreso le macchiava la maglietta e si era poi riversato sul pavimento, dove si era addensato sul linoleum.

Melissa non gridò. Sussultò e basta, le dita tremanti che tentavano di trovare il suo inalatore. Barcollò verso la porta, afferrando l’inalatore con una mano e tirando fuori il telefono con l’altra.

Dopo qualche spruzzata d’aria, emise un gemito gorgogliante e digitò le cifre 1-7 sul suo cellulare a conchiglia, per chiamare la polizia.

Sempre ansimando, la schiena appoggiata alla parete fuori dalla porta spalancata dell’appartamento, deglutì e aspettò che l’operatore rispondesse. Dietro di lei le parve di sentire il vago ed evanescente rumore di un liquido che gocciolava sul pavimento.

Solo allora, gridò.

CAPITOLO QUATTRO

Adele controllò il suo smartwatch, scorrendo tra diverse schermate che facevano il riepilogo di battito cardiaco, movimento, musica… Inspirò dal naso mentre stava sulla soglia del suo appartamento e guardò l’ora. Precisamente le 4 del mattino. Un sacco di tempo per farsi una corsa di due ore prima di andare al lavoro. Si sistemò la fascetta che le teneva indietro i capelli e si voltò a guardare verso il lavandino.

Aveva lasciato la sua tazza di plastica di Topolino sul ripiano metallico tra il secchiaio e il banco della cucina. Di solito puliva subito dopo aver mangiato, ma oggi, nel piccolo e silenzioso appartamento…

“Può aspettare,” disse, rivolgendosi a nessuno in particolare. Il che ovviamente era parte del problema.

Quella appena passata era stata una notte di riposo a intermittenza e scarso sonno. Adele era ancora sulla soglia quando il suo orologio digitale passò a segnare le 4:01. Guardò un’altra volta il lavandino e brontolò sommessamente tra sé e sé. Alla fine, andò nervosa fino a secchiaio, aprì con scatto irritato della mano il rubinetto dell’acqua e sciacquò i residui di latte sul fondo della tazza, posandola poi sullo scolapiatti. Tornò alla porta.

Prima che potesse ruotare la maniglia, però, una sommessa vibrazione colse la sua attenzione. Gli occhi di Adele scattarono verso il tavolo della cucina. Era il suo telefono.

Si accigliò. L’unica persona che la poteva chiamare così presto era suo padre dalla Germania, oppure poteva trattarsi di lavoro.

E con suo padre aveva già parlato un paio di giorni fa. Fu un po’ una sorpresa, quindi, quando guardò lo schermo verde acqua che lampeggiava e vide una singola parola in lettere bianche.

Ufficio.

Prese il telefono mentre la vibrazione cessava. Adele lesse le tre semplici parole di un messaggio di testo sullo schermo. Urgente. Vieni qui.

Si tolse la fascetta e andò velocemente in camera sua per cambiarsi. La sua corsa avrebbe dovuto aspettare.

***

Dal parcheggio e attraverso i controlli della sicurezza, Adele si fermò solo una volta per lasciare il solito caffè a Doug, uno dei suoi amici della squadra addetta alla sicurezza. Quando raggiunse il quarto piano – e l’ufficio dell’agente Grant – già si sentivano le voci attraverso la porta a vetri opaca.

Adele la spinse ed entrò senza tanti preamboli.

Due grossi monitor appesi alla parete mostravano volti che Adele conosceva. A sinistra, sopra alla scrivania della Grant, il direttore Foucault, supervisore del DGSI. A destra, sulla TV situata accanto alla finestra dal vetro blu che si affacciava sulla città, Adele scorse la signora Jayne, la corrispondente dell’Interpol che per prima le aveva proposto l’idea di essere a capo di una task force combinata.

L’agente Lee Grant, che portava il nome dei due generali della Guerra Civile, si trovava dietro all’alta scrivania verticale in metallo, il mento appoggiato sulle punte delle dita, il volto preoccupato. Posò lo sguardo su Adele e le fece cenno di entrare. L’ufficio dell’agente Grant era minimalista, con un materassino da yoga nell’angolo e una pila di DVD di workout nascosti sotto a un raccoglitore di plastica blu accanto alla sua scrivania.

La donna indicò uno degli sgabelli vuoti davanti alla sua scrivania e aspettò che Adele prendesse posto. Alla fine si schiarì la gola, guardando Adele e facendo un cenno della testa, poi disse: “Hanno di nuovo bisogno di te in Francia.”

Adele guardò i due monitor alla parete. Gli sguardi della signora Jayne e di Foucault erano un po’ deviati, entrambi concentrati sui diversi schermi a loro disposizione e quindi non direttamente puntati sulle loro videocamere. Lo stesso, Adele cercò di incrociare i loro occhi, cercando di comprendere le motivazioni.

“Una brutta faccenda?” chiese con tono esitante.

La signora Jayne si schiarì la gola e la sua voce chiara e cristallina rispose: “Solo due vittime per il momento. Lascio che sia Foucault a darle i dettagli.” La signora Jayne era una signora di mezza età, con occhi luminosi e intelligenti dietro a occhiali dalla montatura in osso. Aveva i capelli argentati e una corporatura un po’ più pesante rispetto alla media degli agenti. Parlava senza lasciar trapelare un particolare accento, lasciando intendere che padroneggiava la lingua inglese, anche se si capiva che non era madrelingua.

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