Non resta che uccidere - Блейк Пирс 5 стр.


“Come ci ha già detto,” disse la detective Klopp annuendo. “E ci ha già riportato anche le folli e tirate affermazioni che ha fatto la giovane.”

L’autista esitò davanti a quelle parole. “Ha detto che ce n’erano degli altri,” disse, deglutendo e poi sollevando la mano per dare enfasi al suo discorso. “Ha detto che qualcuno li aveva catturati e che li avrebbe uccisi tutti.”

Adele però stava guardando la detective tedesca. “Non crede che il commento della ragazza vada preso sul serio?”

La detective Klopp stava scuotendo la testa. I suoi capelli erano raccolti in un ordinato chignon e il suo volto presentava minime tracce di make-up. Aveva gli zigomi alti e i suoi occhi erano indagatori mentre osservava Adele. “La ragazza era malnutrita, congelata e in mezzo alla foresta,” disse. “Prendere seriamente tutto ciò che può avere detto,” disse schiarendo la gola e spostandosi un poco, “soprattutto se riferito da un portavoce, potrebbe essere poco consigliabile a questo punto.”

Adele si voltò verso l’agente Marshall, poi tornò a guardare la donna. “Questa è la posizione ufficiale di questo dipartimento?”

La detective Klopp sorrise con calore al signor Carmichael, poi si rivolse ad Adele, ma sempre con gli occhi fissi sul camionista. “Sì. Herman,” disse, “le racconti come si è comportata la ragazza quando l’ha vista all’inizio.”

Il camionista si spostò sulla sua sedia, a disagio. “Beh, come stavo dicendo, ha detto che ce n’erano degli altri. Ma quando mi sono avvicinato a lei, non ha detto proprio niente. In effetti, era quasi come se non mi vedesse. Sono uscito di strada con il mio camion per evitarla. Era in piedi in mezzo alla statale. Senza nessun vestito addosso.” Arrossì un poco, schiarendosi la gola e scuotendo la testa. “Brutto affare. Brutto affare. Ad ogni modo la fräulein era lì in piedi, e sembrava che non mi vedesse, fino a che non le sono stato proprio vicino. Stavo anche parlando, ma lei fissava dritto davanti a sé.”

La detective Klopp agitò una mano come a voler mostrare qualcosa di sospeso nell’aria. “Come ho detto,” riprese, “potrebbe non essere la strategia migliore quella di prendere la ragazza alla lettera.”

Adele abbassò la testa per dimostrare che aveva sentito. Insistette con la stessa linea di interrogatorio per altri pochi minuti, ma il camionista non le fornì nessuna informazione che il direttore Foucault non avesse già dato loro: qualcuno, secondo la ragazza, teneva in prigionia altre persone. La ragazza era sembrata scossa, per ovvie ragioni. Era ricoperta di lividi e piccoli tagli per aver corso nella foresta. A parte questo, l’uomo non aveva altro da aggiungere.

Adele lo ringraziò e si alzò dal tavolo. John la tempestò di domande in francese, ma lei lo ignorò e disse alla Marshall, mentre uscivano dalla sala interrogatori: “Dov’è questo ospedale?”

L’agente la guardò. “Vuoi parlarle di persona?”

“Da come sembra, non pare possibile.”

La Marshall scosse la testa. “È in coma. Ma posso portarti all’ospedale se vuoi.”

Adele annuì. “Magari i dottori hanno trovato qualcosa che all’inizio era loro sfuggito. Il camionista comunque non sarà molto di aiuto.”

Adele aveva addosso una sensazione sbagliata. La premonizione del direttore Foucault si riversò anche su di lei. Questa era una brutta faccenda. Qualcosa riguardo a questo caso le sembrava ai limiti, inquietante. Adele stava iniziando a provare una sensazione simile. Non era sicura del perché. Ma in qualche modo non era certa di voler assistere alla conclusione di questa indagine. Il suo stomaco era un groviglio quando uscì dalla centrale di polizia. Si diresse verso l’auto, preparandosi ad andare in ospedale.

CAPITOLO SEI

“Questa volta il caffè non lo vado a prendere,” disse John austero.

Adele scosse la testa mentre avanzava in direzione dell’ingresso dell’ospedale.

L’agente Marshall era già vicina alle porte di vetro rotanti. Sorrise educatamente e fece segno a lei e John di seguirla. I tre agenti entrarono nella lobby dell’ospedale e vennero accolti dall’odore dolce e nauseante di detergenti e disinfettanti. Adele sentì subito un prurito dietro al collo. Scosse la testa. C’era qualcosa negli ospedali che le dava sempre i brividi. Segretamente sperava che se mai si dovesse ammalare gravemente, la gente la lasciasse morire in pace nel suo letto, piuttosto che trascinarla in un posto orribile come quello. E neanche i dottori le piacevano particolarmente.

John andò dritto al bancone dell’accoglienza e parlò in francese: “Mademoiselle. Ha dei medici che parlano francese che si occupano di Amanda Johnson?”

La donna dietro al banco lo fissò esitante. Guardò uno dei suoi colleghi, ma il giovane uomo scrollò le spalle.

L’agente Marshall si avvicinò, toccando delicatamente il gomito di John. Parlò sommessamente e con rapidità agli infermieri e alla fine vennero tutti accompagnati a un ascensore in fondo all’ampio atrio. Passarono accanto a un paio di piante in vaso finte. Di nuovo Adele pensò a quanto odiava gli ospedali.

“Va tutto bene?” le chiese John, mentre le porte dell’ascensore si aprivano con un ding e loro entravano.

“Tutto ok,” rispose lei senza tanti giri di parole.

“Stai sudando,” le disse. “Fa freddo. Perché stai sudando?”

“Non sto sudando, taci.” Adele si girò, ma quando John riportò la sua attenzione sulla Marshall, mettendosi a chiacchierare con la giovane agente mentre l’ascensore arrivava al piano, si passò una mano sulla fronte. Umida. Stava sudando. Dannazione. Doveva sforzarsi di tenere a bada le proprie emozioni, anche in un posto come questo.

Uscirono dall’ascensore e si trovarono davanti un altro lungo corridoio con finestre di vetro da entrambi i lati. In lontananza si udivano suoni di macchinari: un altro rumore che le dava lo stesso effetto di unghie su una lavagna.

“Sei sicura di stare bene?” le mormorò John in un orecchio.

“Sto bene. Andiamo a vedere se riusciamo a trovare questo dottore.”

La Marshall, sentendo la conversazione, disse educatamente: “Il capo reparto che si occupa del caso di Amanda sa parlare inglese. Ho richiesto che ci aspettasse fuori dalla sua stanza. Da questa parte.”

La Marshall fece strada attraverso tre porte chiuse. Due avevano tende, ma una era aperta, con tre infermiere all’interno che indossavano i loro camici verdi e stavano tentando di sollevare un uomo debole e anziano per metterlo su un lettino con ruote.

La scena, gli odori, i bip bip dei macchinari. Tutto l’insieme provocò in Adele un altro spasmo di timore esistenziale. Per qualche motivo, pensò a Robert. Pensò alla sua tosse, alla sua età. Forse avrebbe fatto bene a correre un altro paio di ore domani. Sì, questo le avrebbe schiarito le idee.

Alla fine si fermarono davanti a una porta a vetri aperta. C’era un uomo che li stava aspettando. Aveva uno stetoscopio infilato malamente nel taschino del suo camice blu e una targhetta con il nome appuntata al petto.

“Dottor Samuel,” disse l’agente Marshall. “Abbiamo parlato al telefono poco fa.”

Il medico era di mezz’età, con la barba bianca candida e gli occhi contornati di rughe. Ma laddove le rughe del camionista erano d’espressione, generate più che altro dal sorriso, quelle del dottor Samuel erano rughe di preoccupazione.

“Non ho molto tempo,” disse senza tanti convenevoli. “Come posso aiutarvi?”

L’uomo parlava un inglese perfetto. L’espressione di John si illuminò e gli rispose con il suo pesante accento. “È lei che si occupa del caso di Amanda Johnson?”

Il dottore annuì. Non offrì nessun’altro particolare e aspettò, un piede nella stanza e uno fuori.

All’interno Adele scorse la figura della vittima distesa su un letto. La camera era buia, le luci spente. Tre diversi scherni mostravano i segni vitali della ragazza, con numeri che lampeggiavano e pulsavano. La giovane giaceva immobile sotto a due coperte. Il respiratore sembrava un macchinario estraneo, un dispositivo di invasione. I tubi, il metallo, le luci intermittenti: il tutto contribuì ad aumentare l’ansia di Adele. La ragazza sembrava così piccola, come una bambina rinchiusa in una trappola per orsi, o avvolta in una bara di tubi, metallo e vetro delle dimensioni di un ospedale.

Adele rabbrividì e distolse lo sguardo, rifiutandosi di continuare a guardare. “C’è niente che possa dirci?” chiese a labbra strette. “Si riprenderà?”

Il medico parlò con tono rapido e secco. Sembrava irritato dalla loro presenza, ma Adele sospettò che fosse irritato da tutto. “La poverina è scappata,” disse. “Ha passato ore nella foresta. Ecco,” disse. “Guardate voi stessi.”

Tirò fuori una cartella da una fessura accanto alla porta e la porse ad Adele. Lei abbassò lo sguardo, sfogliando le grandi foto, gli occhi che si socchiudevano su ciascuna.

Prima di tutto vide i piedi della ragazza. Tagli profondi su tutta la pianta, la pelle sbucciata, la terra sotto alle unghie e all’interno delle ferite. Due unghie mancavano del tutto e un paio di dita erano di colore bluastro.

“Congelati?” chiese Adele.

“Quasi,” disse il dottor Samuel. “Quei tagli, li vede? Per aver corso a piedi scalzi nella foresta. Terreno duro. Qualsiasi cosa l’abbia spaventata, l’ha fatta andare avanti nonostante il dolore.”

Adele annuì. “E il resto del corpo?”

Il dottore tirò fuori la prima immagine, girandola sopra alla cartella. Indicò quella accanto. “Altri lividi e piccoli tagli in tutto il corpo. Qui e qui.”

Adele scorse dei graffi sopra all’ombelico e altri lividi sopra al petto della ragazza.

“Ma qui,” disse l’uomo, “queste sono ferite più vecchie. Vecchie cicatrici.”

“Quanto vecchie?” chiese Adele rapidamente.

Il medico scosse la testa. “Nella sua condizione è difficile dirlo. Stiamo ancora cercando di capirlo. Ma non pensiamo che sia rilevante per la sua condizione attuale.”

“Cinque mesi?” chiese Adele.

Ma il medico scosse la testa. “Di più. Anche se questa,” disse sommessamente, “potrebbe rientrare in quel lasco di tempo.”

Passò all’ultima foto, che mostrava la sommità della testa della ragazza, con parte dei capelli rasati.

“Che cos’è?” chiese John.

Adele guardò soltanto. C’era una piccolissima cicatrice sopra a un lembo di carne sollevato. Era guarita, ma malamente.

“Questa ha cinque mesi?” chiese Adele.

“Cinque mesi senza cure od ospedale. Cinque mesi se qualcuno continua a stuzzicarla. Sì. Può vedere come si è allargata la cicatrice e come la ferita non si sia mai del tutto rimarginata.”

Adele si voltò lentamente verso John e l’agente Marshall, inarcando le sopracciglia. “Cinque mesi fa. Pensate che sia stato in questo modo che l’aggressore l’ha sottomessa?”

Il dottor Samuel si schiarì la gola. “È stato un colpo alla nuca. Potrebbe benissimo averle fatto perdere conoscenza, se è questo che vi state chiedendo.”

Adele premette le labbra tra loro, pensando. Guardò il contegno preoccupato del medico, il suo volto segnato dalle rughe. “Nient’altro?”

“Ho trovato qualche altra ferita. Segni di abusi. Un braccio rotto e risistemato in malo modo. Segni che potrebbero corrispondere a lividi causati da pugni. Ho anche visto dei graffi sulla schiena della ragazza che potrebbero derivare da un animale o da unghie lunghe.”

“Magari uno degli altri rapiti dallo psicopatico?” commentò John sottovoce. “Ha detto che ce n’erano degli altri.”

Adele esitò, considerando tutti quei dati preoccupanti, poi si rivolse nuovamente al dottore. “Quante possibilità ci sono che sia in grado di parlare con noi?”

Il medico stava ancora con un piede sulla soglia e uno fuori. Scosse la testa. “Non molte. Le possibilità di un recupero totale sono scarse. Come ho detto, è rimasta in quella foresta per ore, a correre tra gli alberi. I tagli non sono l’unica cosa di cui dobbiamo preoccuparci. Il freddo ha avuto il suo effetto sui suoi polmoni. Era in ipotermia quando è arrivata qui.”

“È sedata?”

“Per il dolore. Ma non molto. È in coma. Attaccata al respiratore.”

Adele guardò ancora nella stanza e le ci volle un momento, ma poi scorse il macchinario di compressione dell’aria: una cosa in plastica bianca e beige con un sacco di pulsanti.

“La ragazza è rimasta sui suoi piedi così a lungo solo perché è di tempra tosta,” disse il medico. “Molte persone potrebbero non avercela fatta per così tanto tempo in mezzo alla foresta. Soprattutto non avrebbero percorso tanta strada. L’adrenalina l’ha spinta avanti. È stata fortunata a trovare la statale in quel momento. Altrimenti sarebbe morta in qualche buca in mezzo al bosco.”

Adele si accigliò. “È un pensiero macabro.”

“Eppure vero. Senta, ho altri pazienti. Se non c’è altro,” disse il dottor Samuel interrompendosi.

Adele guardò i suoi colleghi, ma loro rimasero in silenzio. Gli investigatori salutarono il medico e lo guardarono allontanarsi, percorrendo il corridoio con passi lunghi che stridevano con il suo aspetto anziano.

Adele si girò verso la Marshall. “Hai il numero di telefono dei genitori della ragazza?”

La Marshall non perse un secondo. “Negli Stati Uniti? Con il fuso orario, è giorno inoltrato e dovresti riuscire a trovarli al telefono.”

Adele annuì riconoscente e aspettò che la Marshall sfogliasse il suo bloc notes alla ricerca dei giusti dettagli.

La porta vicino alla quale il dottore si era trovato fino a poco fa si stava ancora chiudendo, rallentata da un meccanismo a molla sopra alla cornice. Quando si fu chiusa, li escluse dalla vista della stanza, con il respiratore e Amanda Johnson.

“Troviamo una sala del personale, così posso fare questa chiamata,” disse Adele, la bocca nuovamente tesa in una linea severa.

***

Adele ascoltava il sommesso trillo del telefono. Aveva su di lei un effetto stranamente calmante: il metallo fresco premuto contro la guancia, il tut tut che assomigliava al cinguettio di una ninna-nanna. Era seduta con un ginocchio premuto contro la lunga gamba di John. Lui era accasciato sulla sua sedia, le braccia incrociate e gli occhi fissi su di lei.

L’agente Marshall ancora una volta stava in piedi. Adele si chiedeva se la giovane agente fosse mai stanca. La Marshall aveva chiuso la porta della sala del personale alle loro spalle e aveva anche tirato le tende per ottenere maggiore privacy.

Adele ascoltava il trillo.

Abbassò lo sguardo sul numero sotto al suo braccio piegato, scritto a mano su un pezzo di carta che la Marshall le aveva dato. Il numero era giusto. Forse aveva sbagliato con il fuso orario.

Un altro trillo. Adele stava per mettere giù il telefono, quando si sentì un’interruzione, un fruscio e poi una voce dall’altro capo della linea parlò. “Pronto? Chi è?”

La voce era allerta, ansiosa.

“Salve, sono l’agente Sharp. Sono dell’Interpol. Parlo con il signor Johnson?”

La voce le arrivò ora più lontana, come se il telefono fosse stato abbassato un momento. “Tesoro, è l’Interpol. Sono in linea. Sì, adesso, sbrigati.”

Poi la voce divenne di nuovo forte e chiara. “Scusi il ritardo. Eravamo fuori con il cane. Qualche aggiornamento? Ecco…” Una pausa e l’uomo si schiarì la gola. “Immagino stia chiamando per nostra figlia.”

Adele si trattenne prima di annuire e disse con tono risoluto: “Sì. Mi scuso se ci sono stati dei ritardi da parte nostra. Sua figlia è viva. Detto questo, volevo…”

Prima che potesse continuare, udì un lieve sussulto dall’altra parte. La seconda voce, più lontana e quasi impossibile da distinguere disse: “Grazie, oddio. Grazie, Signore santo.”

La prima voce, quella del signor Johnson, proseguì: “Sono belle notizie da sentire. L’ultima volta che ci hanno contattati non erano sicuri che ce l’avrebbe fatta.”

Adele arricciò il naso. Non si era resa conto di essere stata designata a unica comunicatrice di notizie alla famiglia Johnson. Immaginò che, essendo americana, aveva senso che i tedeschi le lasciassero quel compito. Cambiò rapidamente tattica, cercando di gestire al meglio quel suo nuovo incarico. “È ancora presto,” si affrettò a dire. “Non è in buone condizioni. Non ho intenzione di mentirvi. Non sono ancora certi se si potrà riprendere del tutto.”

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