“Okay.” Zoe fece un respiro. “Non è per questo che sono qui.”
La dottoressa Monk annuì lentamente. “Vedo che stai passando un periodo molto difficile. Puoi dirmi come stai dormendo?”
“Non dormo molto.” Zoe scrollò le spalle. “Vado a letto tardi la sera e mi sveglio tardi la mattina. L’alcol aiuta, ma poi mi sento stanca. A volte dormo durante il giorno.”
La dottoressa Monk annuì di nuovo, stavolta più velocemente, muovendo la testa quattro volte. “Ho il sospetto che tu stia sperimentando un episodio depressivo maggiore,” disse. Zoe non poté fare a meno che essere d’accordo con quell’affermazione. In fondo la dottoressa Monk la conosceva abbastanza bene. E poi lei non sapeva nulla della depressione, ma si fidava della sua terapista. “Dovrò prescriverti alcuni farmaci che ti aiuteranno a sentirti meglio. Adesso ti firmerò una prescrizione e ne parleremo ulteriormente durante la nostra seduta.”
Zoe annuì, ripetendo lo stesso schema che aveva visto eseguire dalla dottoressa. Uno, due, tre, quattro, stop. “Fisserò un appuntamento in settimana.”
La dottoressa Monk esitò, mordendosi il labbro inferiore e toccandolo con l’estremità di una penna, tenendo in mano la ricetta non ancora compilata. “Quanto stai bevendo?” domandò.
Zoe fece di nuovo spallucce. “Fino a quando i numeri non si calmano.”
Zoe guardò la circonferenza degli occhi della dottoressa Monk aumentare di dimensione, la pelle sollevarsi insieme alle palpebre e gli angoli delle rughe, appena visibili ai lati degli occhi, cambiare. “Va bene.” Compilò la ricetta con un rapido movimento del polso, dopodiché tornò alla sua scrivania per frugare in un cassetto. “Ora voglio che tu prenda i farmaci che ti ho prescritto, ma nel frattempo bisogna gestire questo problema. Ecco, queste ti aiuteranno ad andare avanti.”
La dottoressa Monk si avvicinò con una confezione di pillole in mano, con il foglio argentato del blister che rifletteva la luce filtrante dalle ampie finestre, e la porse a Zoe, che la prese meccanicamente.
“Inizia a prenderle stasera,” continuò la dottoressa Monk. “Una a ogni pasto, la mattina, il pomeriggio e la sera. Assicurati di prenderle a stomaco pieno. E niente più alcol, okay? Queste dovrebbero servire anche a calmare i numeri. Non mischiare l’alcol con queste pillole. È tutto chiaro?”
Zoe annuì. “Inizierò e prenderle stasera,” disse.
La dottoressa Monk fece un respiro esitante. “Cos’hai da fare adesso? Hai tempo per una seduta?”
“Sto andando al lavoro,” disse Zoe.
“Sei tornata in servizio?” la dottoressa Monk sembrò allarmata.
“No. La mia sospensione è terminata ieri, ma non sono rientrata.” Zoe fece un respiro. “Devo parlare con l’Agente Speciale al Comando.”
La dottoressa Monk annuì. “Va bene. Va’ pure. Ma voglio vederti il prima possibile.”
“Ok.” Zoe si diresse verso la porta, con il blister ancora saldamente stretto in mano. Non osò girarsi a guardare la dottoressa Monk. I numeri strisciavano sul viso della terapista a sua insaputa.
Zoe si fermò un attimo in auto, prendendo una bottiglietta d’acqua e ingoiando una delle pillole. Non poteva aspettare. Ne aveva bisogno subito per riuscire a parlare con Maitland.
***
Il J. Edgar Hoover Building era tozzo e geometrico in modo rassicurante, tutte linee dritte in cemento grigio opaco. A Zoe piaceva il modo in cui era organizzato: era simmetrico, con schemi ripetuti per ogni piano, che permettevano di sapere sempre quale strada prendere. Un vero e proprio sollievo per lei. Quantomeno avrebbe potuto aspettare che le pillole facessero effetto senza essere troppo distratta dai numeri.
Pensò di dover attendere un po’ prima di parlare all’Agente Maitland, ma quando bussò tre volte alla sua porta, l’uomo rispose subito, invitandola ad entrare.
In questo modo, Zoe non ebbe il tempo di essere nervosa; allungò la mano verso la maniglia della porta e la girò, facendo un passo avanti. Meglio così. Era abituata ad aspettare nel corridoio esterno con una certa ansia, domandandosi per cosa sarebbe stata redarguita questa volta, ma non oggi.
“Agente Prime.” Maitland la guardò piuttosto sorpreso, posando sulla scrivania i documenti che stava esaminando. “Non l’aspettavo così presto.”
Zoe annuì, dal momento che non sapeva cosa rispondere. “Ho esaminato il fascicolo del caso.”
“E…?” Maitland appoggiò le mani sulla scrivania davanti a sé, una sull’altra, in attesa. Zoe le guardò per un istante e vide gli angoli che si intersecavano, ma distolse subito lo sguardo.
“Ero curiosa,” disse. “Non sto accettando il caso. Volevo soltanto sapere perché mi ha dato questo dossier.”
Maitland la fissò per un lungo istante; la sua espressione era illeggibile. “Lei è sempre stata la migliore con questo genere di casi,” cominciò, con un tono burbero ma al tempo stesso tranquillo. “Non creda che non abbia mai notato la sua abilità ad avere a che fare con casi che non riguardano serial killer ordinari. Lei è perfetta quando le cose si fanno strane. Quando abbiamo bisogno di vedere la faccenda da un punto di vista, diciamo così, non convenzionale.”
Zoe ci pensò su. Quello che diceva era vero. È solo che non riusciva a capire se si sentisse lusingata dalle sue parole o se in fondo lui le stesse dando della stramba. “Ho lavorato su diversi casi del genere,” rispose.
“Non voglio costringerla, Agente,” disse Maitland. “Se torna al lavoro e non è pronta, le cose potrebbero mettersi male. Per entrambi. Ma penso anche di conoscerla abbastanza bene da sapere che dà il meglio di sé quando ha davanti un enigma su cui lavorare. Sarò franco. La voglio su questo caso. A dire il vero, non credo che ci sia qualcun altro in grado di lavorarci come farebbe lei.”
Zoe venne travolta da un mare di pensieri. Era difficile concentrarsi su quelle parole quando i numeri continuavano a comunicarle i decibel, la lunghezza delle parole e delle sillabe, le dimensioni della scrivania e di tutto quello che c’era sopra. Sarebbe stato piacevole avere a che fare con qualcosa di nuovo. Avrebbe potuto utilizzare i numeri per fare del bene, come faceva prima.
Sarebbe stato bello fare la differenza. Magari salvare una vita o due.
A patto di non dover trascinare nessun altro in pericolo con lei.
“Accetterò il caso,” disse lentamente. Il viso di Maitland si illuminò; non era un sorriso, ma era sicuramente qualcosa di più vivace della sua solita espressione impassibile. Ma Zoe continuò, per evitare che a lui sfuggisse la parte più importante. “A condizione che possa occuparmene da sola. Non voglio che mi venga assegnato un altro partner.”
Maitland inclinò la testa a un angolo di dieci gradi in più rispetto a prima, e i suoi occhi si restrinsero del quindici percento. “Sa che non posso farlo, Agente.”
“Ho già lavorato da sola in passato,” gli fece notare Zoe. Era vero. Prima di Shelley, quando cambiava frequentemente partner perché nessuno era in grado di sopportare a lungo le sue stranezze, aveva risolto da sola molti casi.
“Non su un caso del genere,” disse Maitland. “Soltanto su crimini più semplici. E non subito dopo la morte della sua partner. Sono spiacente, Zoe. Non sto dicendo che Shelley verrà sostituita. Non potrà mai essere sostituita. Ma dovrà collaborare con un altro agente.”
Zoe abbassò lo sguardo sul pavimento, dove c’erano meno numeri. “Preferirei davvero non lavorare con una nuova persona.”
“Beh, temo che ci sia già qualcuno in lista d’attesa. Vedrà, sarà perfetto.” Maitland alzò la voce per farsi sentire. “Se è là fuori, Agente Flynn, entri pure. È tempo che voi due vi conosciate.”
CAPITOLO CINQUE
La testa di Zoe si girò in tempo per vedere la porta che si apriva per lasciar entrare un giovane uomo che indossava un completo scuro. Era alto un metro e novanta, magro ma con l’abito abbastanza aderente da far notare la sua muscolatura, capelli neri raccolti sulla fronte, un sorriso furbo pieno di denti bianchi e dritti. Ventitre o ventiquattro anni. A Zoe non piacque da subito.
“Agente Aiden Flynn,” disse, allungando la mano davanti a sé, con quel ghigno ancora stampato sul viso.
Zoe prese la sua mano e la strinse con noncuranza, prendendo le misure del suo viso e gli angoli dei suoi zigomi alti. Aveva l’aspetto di un uomo che portava guai, dalla testa ai piedi. Quel vestito si adattava perfettamente al suo corpo: non era stato acquistato in negozio ma fatto su misura. Veniva da una famiglia benestante. La sua mano era morbida e Zoe non ebbe bisogno dei numeri per capire che le sue scarpe fossero nuove di zecca.
Zoe rivolse uno sguardo accusatorio a Maitland. “Questo è il suo primo incarico,” disse.
“È appena uscito dall’Accademia,” rispose Maitland, prima di allungarsi, mettendo le mani dietro la testa e appoggiandosi allo schienale della poltrona. La sua schiena rimase perfettamente dritta; a cambiare fu soltanto l’angolo dei suoi fianchi.
“Non voglio fare da babysitter,” scattò Zoe, forse più bruscamente di quanto avesse voluto. Maitland avrebbe ancora potuto decidere di non affidarle il caso. “Questi omicidi sono gravi. L’assassino deve essere preso alla svelta.”
“Posso farcela,” si intromise subito l’Agente Flynn. “Ero il migliore del mio corso. Me ne occuperò senza problemi.”
“Quanti anni ha?” domandò Zoe. “Ventitre?”
“Sì,” rispose l’Agente Flynn con voce perplessa. “Come ha fatto a…”
“È un ragazzino,” disse Zoe, rivolgendosi a Maitland.
Gli angoli della bocca del suo superiore si contorsero, sollevandosi di mezzo centimetro e cambiando l’espressione del suo viso. “Agente Prime, le darò due opzioni,” disse. “O lavora su questo caso insieme all’Agente Flynn o è fuori. Quale preferisce?”
Zoe guardò di nuovo Flynn, vedendo brulicare i numeri davanti ai suoi occhi. Oltre a essere troppo inesperto, le comunicava troppe informazioni. Quel ragazzo era tutto angoli acuti: la sua corporatura, i suoi zigomi, il suo vestito. Almeno con le persone che conosceva bene riusciva a mettere a tacere i numeri. Lavorando con lui sarebbe stato impossibile.
Però non aveva mai parlato dei numeri con nessuno dei suoi partner, fatta eccezione per Shelley. La vedevano già come se fosse una tipa strana, e non voleva dar loro altre ragioni per pensarlo. Quindi non poteva tirarli in ballo adesso per usarli come scusa. Non poteva dire a Maitland che vedeva numeri ovunque e che quelli le avrebbero impedito di concentrarsi.
Zoe sapeva fin troppo bene che una tale ammissione non soltanto l’avrebbe fatta apparire una matta agli occhi di Maitland, ma probabilmente l’avrebbe anche spinto a metterla in malattia e a chiederle di sottoporsi a una serie di sedute con uno psichiatra messo a disposizione dall’agenzia – o forse persino a farla internare. Non aveva nessuna intenzione di rischiare.
“Non mi sta dando scelta, a quanto pare,” disse, nel tentativo di capire se ci fosse qualche remota possibilità che potesse fare a meno di questo nuovo partner.
“Certo che ha una scelta,” disse Maitland. “Può salire su un aereo nel giro di qualche ora oppure può tornarsene a casa. Cosa sceglie?”
Zoe sospirò. La risposta era scontata. Non poteva lavorare insieme a questo giovane idiota, con le sue scarpe scintillanti e il suo sorriso da ragazzo ricco. Ma non poteva nemmeno tornarsene a casa così; non poteva limitarsi a restarsene seduta sul divano con i suoi gatti con lo sguardo perso nel vuoto, né poteva continuare a presentarsi davanti alla casa di Shelley di notte. Aveva un dovere, non solo nei confronti della sua partner morta ma anche verso le vittime, che chiedevano giustizia. E delle vittime che sarebbero morte nei giorni e nelle settimane seguenti se l’assassino non fosse stato catturato.
I gatti sarebbero stati bene senza di lei. La sua mangiatoia a rilascio lento si sarebbe presa cura di loro. E non c’era nessun altro al mondo che avesse bisogno di lei. Non quanto questo caso.
Avrebbe dovuto reprimere le obiezioni che le bloccavano la gola, minacciando di soffocarla se non le avesse sputate. Sapeva che era quello che Shelley avrebbe voluto che facesse.
Aprì la bocca per dare la sua risposta, seppur pentendosene immediatamente.
***
Zoe lesse nuovamente i dettagli del caso per prendervi confidenza. Il volo era breve, ma aveva abbastanza tempo per memorizzare tutte le informazioni e iniziare a pensare ai passi da fare una volta atterrati. Tanto per cominciare, avrebbero dovuto dare un’occhiata all’ultima scena del crimine e ad entrambi i cadaveri.
“Ti dispiace leggerlo ad alta voce?” Flynn, seduto accanto a lei, stava disperatamente cercando di dare un’occhiata ai fogli, senza però avere successo. Le sue lunghe gambe erano stranamente piegate nell’angusto spazio del sedile dell’aereo, mentre i suoi gomiti erano una costante minaccia allo spazio personale di Zoe. “Vorrei farmi trovare pronto.”
Zoe sospirò sommessamente, desiderosa che lui la lasciasse in pace. Ma la sua non era certo una richiesta irragionevole. È solo che non sapeva che avrebbe dovuto tradurre tutto nella sua mente, rimuovere i numeri che vedeva dappertutto e leggere il testo come un robot. Nessun contesto, nessuna inflessione, soltanto le parole scritte sulla pagina. Per lei era difficile farlo, esattamente come sarebbe stato difficile per un neonato leggere quelle pagine.
“Il primo cadavere è stato ritrovato a nord della città di Syracuse, e il secondo proprio a Syracuse,” disse. “La prima vittima era una donna di quarantuno anni di nome Olive Hanson, strangolata e lasciata nei pressi di un’ansa del fiume Oneida dove, a quanto pare, stava facendo un’escursione.”
Zoe gli passò le foto della scena del crimine, immagini che aveva già studiato. La donna era distesa sulla riva, il suo collo era violaceo mentre il resto era pallido e indistinto; i suoi occhi fissavano il vuoto. Poi l’immagine finale: l’addome esposto, la maglietta sollevata senza indizi di manomissione dei suoi vestiti, e il simbolo inciso nella sua carne già fredda. Risaltava nettamente, come succedeva sempre in casi del genere. Un taglio che squarciava la pelle bianca, macchiandola di rosso e dandole la consistenza della carne in scatola.
Zoe fissò le mani di Flynn. Non riusciva a concentrarsi sul suo viso e leggere la sua espressione, non con tutti gli angoli e i calcoli nuovi che la travolgevano ogni volta che i muscoli dell’uomo si contraevano. Ma poteva prestare attenzione al tremolio. E lo vide, non appena lui passo all’ultima foto: un tremito della sua mano che fece sussultare leggermente anche la carta. Ne era sconvolto.
Era un bene. La paura l’avrebbe reso più facile da controllare, da zittire quando lei avrebbe avuto bisogno di tempo e spazio per riflettere. E voleva anche dire che era umano, che aveva quell’empatia di cui Zoe, a detta di tutti, era carente. In termini pratici, era un bene avere accanto una persona empatica che parlasse alle famiglie delle vittime: quando percepivano che qualcuno capiva il loro dolore, erano più disposti a dire la verità.
Zoe prese gli altri due fogli, leggendo con attenzione le informazioni che vi erano riportate. “Anche la seconda vittima è una donna. Un’astronoma di nome Elara Vega, trovata morta nel planetario dove lavorava. Cinquantanove anni. Si presume che sia morta la sera prima del suo ritrovamento. È stata affogata in un secchio per pulire i pavimenti.”
Queste foto mostravano una storia simile alla prima, se non esattamente la stessa. Il corpo lasciato disteso nel punto in cui era caduto, i capelli ancora bagnati. Anche la sua maglietta era stata tirata su, i bottoni inferiori erano stati slacciati per permettere all’assassino di incidere quel simbolo sulla sua pelle. Una linea dritta superiore e poi due linee parallele verso il basso.