Zoe annuì lentamente, seguendo un determinato ritmo: uno, due, tre. “Mi dispiace,” disse, sebbene non lo sentisse particolarmente. “Non ho controllato molto la mia corrispondenza, ultimamente.”
Maitland sospirò. “Ascolti, Zoe, so che sono stati due mesi difficili per lei,” disse. “Le ho dato una sospensione di sei settimane perché sapevo che avrebbe comunque dovuto prendersi un permesso. È obbligatorio quando un agente perde il proprio partner. Soprattutto nel modo in cui è capitato a lei. È andata dal terapista?”
Zoe scosse lentamente la testa. Di nuovo a ritmo, uno, due, tre. Non aveva senso mentire. Lui avrebbe potuto controllare i registri. Probabilmente l’aveva già fatto. È solo che a lei non sembrava essere utile. Dopotutto aveva già la sua strizzacervelli. Anche se non c’era andata.
“Perché no?” domandò Maitland.
Zoe pensò alla risposta da dargli. Ci pensò troppo a lungo. I secondi passarono, tre, quattro, cinque, e alla fine Maitland si spazientì.
“Ok, mi stia a sentire,” disse, costringendo Zoe a guardarlo negli occhi. Lei cercò di concentrarsi sulle sue parole e non sul raggio della sua iride o su come questa cambiasse ogniqualvolta lui girava la testa da un lato all’altro, colpita in modo diverso dalla luce. “Il motivo per cui oggi mi trovo qui è perché ho bisogno di sapere quali sono le sue intenzioni. Ha scelto di non tornare al lavoro. Dovrei considerarle le sue dimissioni?”
Zoe aprì rapidamente la bocca in modo che lui capisse che voleva rispondere. In fondo non era una domanda difficile. “Sì,” rispose immediatamente. Come avrebbe anche solo potuto considerare di rientrare al lavoro? Come avrebbe fatto a camminare per quei corridoi senza avere accanto la sua partner? Prima di Shelley, l’avevano odiata tutti. Le avevano voltato le spalle. Con la morte di Shelley sarebbe stato anche peggio.
Maitland annuì lentamente, proprio come aveva fatto lei. A ritmo. Uno, due, tre. “Va bene,” disse. “Se ne è sicura. Tuttavia, avrò bisogno che lo metta per iscritto.”
Zoe guardò verso il computer e annuì in silenzio. Avrebbe scritto qualcosa e gliel’avrebbe inviata il prima possibile. Forse già domani.
Maitland si alzò, sollevando la sua imponente figura con una certa cautela, ovviamente riluttante a restare in questa casa ancora a lungo. “Ma prima di scrivere la sua lettera di dimissioni…” disse, porgendole un fascicolo. Zoe era stata talmente concentrata sulle misure di quell’iride da non accorgersi neanche del fatto che fosse posato sul ginocchio dell’uomo. Era marrone e di dimensioni standard, con un sottile bordo bianco di due millimetri che faceva capolino. “Penso che dovrebbe dare un’occhiata a questo. Potrebbe interessarle, e io potrei avvalermi del suo aiuto.”
Zoe lo guardò con diffidenza e Maitland sospirò prima di posarlo sul tavolino.
“Conosco la strada,” disse, dirigendosi verso la porta. Appena prima di raggiungerla, si fermò e si voltò per guardarla. C’era qualcosa sul suo viso, qualcosa che Zoe pensò potesse essere tristezza. “Lei è un buon agente, Prime. Sarebbe un peccato se quel figlio di puttana mettesse fine alla carriera di due dei miei migliori agenti. Ho visto altri agenti subire questo tipo di perdita, e la cosa migliore per loro è sempre stata quella di tornare al lavoro.”
Dopodiché aprì la porta e se ne andò, e Zoe rimase a fissare il fascicolo lasciato sul tavolo, esaminandone le dimensioni e cercando di ignorare tutto il resto.
***
Non era neanche mezzogiorno e Zoe si sentiva già a pezzi. La sua emicrania non era ancora sparita, e in più era stanca morta. Dopo aver camminato per metà della notte e aver bevuto, si sentiva come se fosse stata privata di tutte le forze. Ma non era il primo giorno che si sentiva così. Ultimamente era stata la norma.
Si alzò dal divano e si trascinò verso la camera da letto, gettandosi sulle coperte senza preoccuparsi di spostarle né di spogliarsi. Chiuse gli occhi, appoggiando la testa sul cuscino, e si lasciò avvolgere dall’oblio del sonno.
“Z, devi ascoltare.”
Zoe si voltò, guardandosi attorno e vedendo Shelley, che era in piedi davanti a lei. Indossava un bel vestito, i suoi capelli e il trucco erano ancora più ordinati del solito e il suo fisico era slanciato dai tacchi. Zoe abbassò lo sguardo su di sé, vedendo che stava indossando lo stesso vestito. Si trovavano nel bagno delle donne di un ristorante, mentre i rispettivi compagni le aspettavano in sala.
“Cosa?” domandò Zoe, aggrottando la fronte. C’era qualcosa di strano, ma non riusciva a capire di cosa si trattasse.
“Devi ascoltare,” insistette Shelley.
Zoe aggrottò ancora di più la fronte e fece un passo verso la sua partner, ma Shelley riuscì a restare alla stessa distanza pur senza muoversi. “Ascoltare cosa?” domandò Zoe.
Shelley indicò alle sue spalle e Zoe si girò: vide il riflesso del suo viso allo specchio, senza il trucco e il vestito elegante ma com’era adesso, spettinata e pallida, trasandata e con le occhiaie.
Ma non c’era nient’altro.
Zoe si voltò nuovamente verso la sua partner, ma Shelley era muta e la fissava con una tale concentrazione e una tale forza da smorzare le parole che volevano disperatamente uscire dalla sua bocca. Riuscì soltanto a ricambiare quello sguardo, cercando di comprenderne il significato, ma gli occhi della sua partner si velarono di bianco e smisero di fissare qualsiasi cosa.
Zoe scattò in piedi, ansimando. Era sudata e accaldata, e si accorse di avere i capelli bagnati di sudore quando alzò la mano per spostarli dalla fronte. Ci mise molto a togliersi dalla mente l’immagine degli occhi bianchi di Shelley, e quando si girò di lato vide di fronte a sé un altro enorme paio di occhi. Zoe lanciò un urlo e saltò dall’altra parte del letto, per poi accorgersi che si trattava di Eulero, intento a fare le fusa e a guardarla con timore e con una zampa sollevata verso di lei.
Zoe riprese fiato e allungò la mano per accarezzarlo dietro l’orecchio, in modo che capisse che andava tutto bene. Il cuore continuava a batterle all’impazzata. Eulero scosse la testa e si allontanò, perdendo interesse per lo strano comportamento del suo umano. Zoe contò i suoi passi fino a quando non uscì dalla stanza, dopodiché cercò di contare i propri respiri, rallentandoli il più possibile.
Altro che riposino rigenerante. Zoe portò le gambe fuori dal letto, facendole oscillare brevemente prima di posare i piedi sul pavimento, sentendo con un certo sollievo quella superficie fredda, che le ricordava che non si trovava più in un sogno. O meglio, in un incubo. Cosa stava cercando di dirle Shelley? Zoe non ne aveva la più pallida idea. Era quello il problema del subconscio: forse non significava proprio niente.
Seguì Eulero in cucina, pensando che le avrebbe fatto bene prendere un altro bicchiere d’acqua e fare una doccia. Appoggiata al bancone della cucina per bere, il suo sguardo vagò fino a posarsi sul tavolino da caffè e sul fascicolo. Lo ignorò. Non era il momento giusto. Distolse lo sguardo, desiderando che Maitland non gliel’avesse affatto lasciato.
Zoe abbassò lo sguardo sul proprio corpo: indossava una felpa e un paio di leggings non abbinati, risalenti al periodo dell’università, ormai consunti e sbiaditi. Non si lavava i capelli da giorni. Avrebbe potuto farlo, quantomeno per far passare il tempo.
Si fermò in bagno, colpita dall’immagine del suo stesso viso allo specchio. Evitava di guardarsi da molto tempo, ma qualcosa, probabilmente il sogno, l’aveva finalmente indotta a farlo. Ora si vide come doveva averla vista Maitland: tutta occhiaie, capelli unti e spettinati e carnagione pallida. Aveva un aspetto terribile.
E in fondo lo meritava. Non aveva forse lasciato che la sua partner venisse uccisa? Zoe chiuse gli occhi per un istante per scacciare il dolore.
Le tornarono in mente le parole di Maitland. Il pensiero che gettarsi nuovamente in un caso potesse renderle più facile lasciarsi alle spalle tutta questa sofferenza.
Magari avrebbe potuto dare un’occhiata al fascicolo. Almeno così avrebbe scongiurato una nuova visita da parte di Maitland, e forse la sua partner morta avrebbe smesso di infestare i suoi sogni. O quantomeno avrebbe potuto dire a se stessa di averci provato.
Zoe si avvicinò al tavolino prima che la sua determinazione potesse svanire e prese il fascicolo. All’interno c’erano quattro fogli di carta, due per vittima. Due vittime. Si sentì male soltanto a tenerli tra le mani, sentendo il bisogno impellente di metterli giù, ma l’immagine del viso di Shelley era ancora ben presente nella sua mente, e così Zoe iniziò a leggere.
Esaminò rapidamente le informazioni che vi erano contenute, venendo subito travolta dalle parole e dalle frasi. Cadaveri ritrovati a nord di New York. Da quelle parti faceva freddo in questo periodo dell’anno, pensò. A prima occhiata, le due donne erano state uccise in modi diversi; persino i loro dettagli erano differenti. Zoe non notò alcun collegamento nelle loro età, nel peso corporeo e nell’altezza, negli indirizzi di casa e, appunto, nel modo in cui erano state assassinate.
In realtà c’era un elemento che le collegava, una ragione per la quale questi due casi erano stati inseriti nello stesso fascicolo e portati alla sua attenzione. Entrambe le donne avevano un simbolo intagliato sull’addome dopo la morte, probabilmente con la punta di un coltello: una linea piatta dalla quale scendevano due gambe perpendicolari. Zoe lo riconobbe immediatamente: era il simbolo del pi greco.
Interessante. Adesso capiva per quale motivo Maitland le avesse lasciato il dossier. Era esattamente il caso che in passato avrebbe seguito. Il genere di caso di cui Shelley avrebbe sentito parlare e per il quale avrebbe proposto i loro nomi, se non ci avesse pensato prima Maitland. Segni e simboli, equazioni, strani indizi che sembravano sfuggire alla comprensione degli altri agenti. Era esattamente la sua specialità.
E in un certo senso quel pensiero era quasi rigenerante. Permettere nuovamente che i numeri lavorassero su qualcosa di davvero importante. Quello che lei aveva reso lo scopo della propria vita. Cercare collegamenti e indizi, risolvere un omicidio. Era bello che i numeri le stessero finalmente comunicando informazioni riguardanti un caso e non soltanto le dimensioni del suo appartamento e di ciò che c’era dentro. Sì, era un vero e proprio sollievo.
Non voleva dire che ci avrebbe lavorato, ma ne era incuriosita. Abbastanza da volerne sapere di più, anche se quello significava doversi recare personalmente da Maitland. Forse avrebbe potuto tenere a bada i numeri ancora un po’, dar loro qualcos’altro su cui concentrarsi. E forse, soltanto per cinque minuti, avrebbe potuto sentirsi nuovamente se stessa.
Ma prima di raggiungere il J. Edgar Hoover c’era qualcosa di più importante da fare.
CAPITOLO QUATTRO
Zoe tenne lo sguardo fisso sulla parte posteriore dell’auto davanti a lei. Finora era stato difficile guidare. Era arduo concentrarsi sulla strada quando non riusciva a smettere di esaminare le targhe, i gas di scarico, tenere il conto del numero di auto dello stesso colore, della stessa marca e dello stesso modello, intravedere le persone sedute negli abitacoli, ciascuna con le proprie misure e i calcoli che ne derivavano. Tuttavia, in qualche modo era riuscita ad arrivare fin qui, concentrandosi sul mantenere la stessa velocità per la maggior parte possibile del tragitto.
La strada in cui si trovava adesso era piuttosto familiare. Zoe conosceva questi edifici, sapeva che uno aveva un piano in più degli altri e che aveva sviluppato una leggera inclinazione di cinque gradi a causa del calo delle fondamenta; sapeva anche l’orario, grazie all’angolazione del sole sul marciapiede. Era stata qui diverse volte e aveva già fatto tutti quei calcoli; si guardò attorno, vedendo i numeri fluttuare davanti ai suoi occhi, e fu a malapena in grado di concentrarsi nuovamente e ricordare per quale motivo fosse venuta qui.
Trovò un posto in cui parcheggiare l’auto, il che era già di per sé un miracolo. Zoe si fermò per guardarsi allo specchietto retrovisore. Era ancora pallida e i suoi occhi avevano ancora quegli aloni neri, ma stava decisamente meglio rispetto a prima. Una doccia e un abbigliamento più consono avevano fatto la differenza, anche se soltanto esternamente.
Non sarebbe bastata una doccia a rimetterla in sesto internamente.
Trovò la forza di alzarsi dal sedile, aprire la portiera e scendere dall’auto. Fissò quel palazzo familiare, guardando l’ingresso e tutte le dimensioni che le si affacciarono subito davanti agli occhi, e proseguì.
L’ufficio della dottoressa Lauren Monk era al terzo piano. Visitava i suoi pazienti lì, di solito a orari predefiniti; Zoe non aveva fissato un appuntamento, ma aveva chiamato in anticipo per assicurarsi che la sua terapista fosse disponibile.
La dottoressa Monk era seduta alla sua scrivania e la porta del suo ufficio era aperta; era chiaramente disponibile. Zoe attraversò lo spazio luminoso della sala d’attesa, colorato di rosso, giallo e blu, ed entrò nello studio, dove una ben nota poltrona in pelle consunta la stava chiamando. Zoe ignorò quel richiamo e rimase in piedi, rivolgendo lo sguardo alla dottoressa Monk, che lo ricambiò.
Zoe non capiva quella sua espressione. Tutto ciò che riusciva a vedere erano le dimensioni: la distanza tra i suoi occhi, l’angolo delle sue sopracciglia, la lunghezza di ciascuno dei suoi capelli, che cadevano sul viso in modo talmente folto che fu quasi impossibile per Zoe riuscire a vedere il volto. Notò che l’aspetto della dottoressa Monk non era cambiato minimamente dall’ultima volta in cui Zoe l’aveva vista, un paio di mesi fa, quando la sua terapista le aveva comunicato che ormai non avrebbe avuto più bisogno del suo aiuto. Era ancora la stessa, con i suoi capelli scuri a caschetto tagliati in modo piacevolmente dritto e la stessa voglia a un centimetro dalla sua bocca, sul lato destro.
“È bello rivederti, Zoe,” disse la dottoressa Monk, alzandosi dalla sua postazione. Di solito si sedeva di fronte alla poltrona in pelle durante le sedute, in modo da trovarsi faccia a faccia con il paziente. “Sono passate settimane.”
“Non volevo fissare un altro appuntamento,” disse Zoe, incrociando saldamente le braccia al petto. “Lei mi aveva detto che stavo meglio.”
“Era così,” disse delicatamente la dottoressa Monk. Girò attorno alla scrivania per portarsi proprio di fronte a Zoe. “Ma il lutto può compromettere anche la riabilitazione di maggior successo. Può far apparire inefficaci le nostre strategie di adattamento o farci sentire come se fosse inutile continuare a seguirle. Dopo la morte di una persona cara è normale aver bisogno di un po’ di aiuto in più.”
Zoe si sforzò di vedere al di là dei numeri per cercare nuovamente di capire l’espressione della dottoressa Monk, ma senza riuscirci. “Pensavo di avere tutto sotto controllo.”
La postura della sua psicologa si addolcì e le sue spalle si rilassarono. “Vorrei che fissassi un altro appuntamento, Zoe. Senza aspettare troppo. Anzi, il prima possibile.”