Gloria Primaria - Джек Марс 6 стр.


Tracey ansimò e lanciò un piccolo stridulo strillo simile al verso di un topo. Margaret trattenne il respiro. Dixon avrebbe voluto rassicurarle in qualche modo, ma quel colosso di 100 chili gli impediva qualsiasi movimento.

"Non siete ferite", disse l'uomo. "Andrà tutto bene".

L'auto finalmente accelerò. Il motore rombò mentre l'auto prendeva velocità.

Qualcosa colpì ripetutamente la carrozzeria dell'auto.

Tracey rimase a bocca aperta. "Ci stanno sparando".

"Non possono spararci", disse l'uomo dei servizi segreti. "Quest'auto è antiproiettile".

Se così fosse, allora perché l'uomo continuava a coprire Dixon?

* * *

"Non c'è Dio al di fuori di Allah".

Il suo passaporto diceva che proveniva dalla Grecia. Diceva di chiamarsi Anthony. Era un falso impeccabile e la gente ci aveva creduto. Il personale addetto al check-in e alla sicurezza negli aeroporti ci aveva creduto. Gli impiegati dell'albergo ci avevano creduto. Tutti gli avevano creduto.

Adesso niente di tutto questo aveva importanza.

Era immerso nella folla gremita. Era una giornata calda, ma all'improvviso il sole sembrava così caldo che sembrava esplodere. Si era lasciato alle spalle edifici colorati e balconi decorati. Di fronte a lui c'era una fila di macchine nere striscianti con i finestrini scuri e le bandiere americane e portoricane drappeggiate sul parabrezza.

Era senza fiato. Non riusciva a pensare a nient'altro che a cose meccaniche che aveva memorizzato molto tempo prima.

"Oh Allah", disse, ad alta voce, il suono della sua voce soffocato dalle grida e dalle acclamazioni delle persone intorno a lui. "Concedici il bene nel mondo e il bene nell'aldilà e salvaci dal tormento del fuoco".

La gente urlava. Rideva. La folla era impazzita. Lui venne spinto più volte, di qua e di là. Si sentiva male e gli salì un improvviso senso di nausea. Tutto intorno a lui girava.

Barcollò in avanti, verso la macchina davanti a lui.

All'improvviso, alla sua destra, più indietro nel corteo di automobili, qualcosa esplose. Vide l'esplosione con la coda dell'occhio. Non aveva nemmeno bisogno di guardare. Sapeva cos'era. Era un fratello in Allah, qualcuno che non aveva mai incontrato, il primo dei mujaheddin a morire quel giorno.

Era anche il segnale per gli altri, e Anthony era uno di quelli.

La gente continuava a urlare, ma il tono era cambiato. Adesso la gente correva e urlava. Si sentì una sirena.

Le macchine erano bloccate nella folla. Erano bloccate nel loro stesso corteo.

Anthony quel giorno indossava una colorata camicia hawaiana con stampa floreale che si appoggiava al rigonfiamento intorno alla sua vita. Chi lo avesse visto avrebbe potuto pensare che fosse un po' in carne. Ma non lo era. Lui era molto magro.

Fece due passi nel traffico, quasi inciampando quando scese dal marciapiede. La gente spingeva, cercando disperatamente di scappare. Un uomo portava un bambino piccolo sulle spalle. Anthony superò l'uomo.

Era molto vicino alla macchina nera. Era grande, più grande di quanto si aspettasse.

Da qualche parte nelle vicinanze, iniziarono gli spari. I fratelli, la polizia, l'esercito, non c'era modo di dirlo adesso.

“Allahu Akbar”.

Gridò a squarciagola.

Sbirciò nel finestrino dell'auto, ma non vide niente. Forse il presidente americano era lì, forse no. C'erano comunque delle sagome. La macchina non era vuota.

Accanto a lui, sulle spalle dell'uomo, il bambino piangeva.

Anthony non esitò. Teneva in mano un accendisigari in plastica. Si allungò la mano sotto la camicia e cercò la miccia che avrebbe avviato l'esplosione. Si era esercitato molto, la trovò subito. Fece scattare l'accendino.

“Salvami!” gridò. Non sentì nemmeno la propria voce. Non sapeva a chi si stesse rivolgendo.

Un secondo dopo, si sentì avvolto dal calore. Poi arrivò il fuoco e la luce accecante.

E poi l'oscurità.

* * *

"È un buon oratore", disse Don Morris. "Glielo concedo".

Si trovava insieme a Luis Montcalvo diverse vetture davanti all'auto del presidente. Tutt'intorno a loro, le persone erano quasi schiacciate contro i finestrini, scrutavano nell'oscurità, sperando di intravedere Clement Dixon.

"Un oratore eccezionale", disse Montcalvo. "E ha detto molte cose che il popolo portoricano ha bisogno di sentire".

Don annuì. "Penso che lei abbia ragione. Il pubblico ha apprezzato il suo discorso e le persone alla parata… " Fece un gesto fuori dal finestrino e lasciò che la folla elettrizzata parlasse per lui.

"Siamo pronti per l'indipendenza", disse Montcalvo. "Siamo stati troppo a lungo in questo limbo e ciò va a sostegno di chi vuole una completa scissione".

Don lanciò un'occhiata al giovane addetto ai servizi segreti che viaggiava in macchina con loro. Il ragazzo sembrava annoiato. Ascoltava e non ascoltava allo stesso tempo. La vera azione avveniva in un'altra macchina.

Don guardò Montcalvo. Sembrava appena più vecchio dell'uomo dei servizi segreti che doveva proteggerlo. Era sicuro di sé e composto. Si era incontrato con il Presidente degli Stati Uniti e aveva ottenuto il suo rispetto. Essere governatore di Porto Rico era di più, e al contempo di meno, che essere governatore di uno stato. In un certo senso, era come essere il presidente di un piccolo paese. Montcalvo gestiva bene questa responsabilità.

"Penso che lei ed io non siamo così diversi come sembra", disse Don.

Montcalvo annuì. "Sono d'accordo. Non potrei dire altrimenti. So che lei è un grande uomo. Ma la School of the Americas … Sono sicuro che capirà che noi abbiamo una grande affinità con tutta l'America Latina. Sono nostri fratelli e sorelle".

Don avrebbe potuto crederci. “Certo”.

"Andiamo per la nostra strada", disse Montcalvo. "Possiamo perdonare, ma non possiamo …"

All'improvviso, una bomba esplose proprio fuori dalla vettura.

Il suono era attutito, ma si sentì in ogni caso.

Era successo dietro di lui, quindi non vide nulla. Ma Don aveva visto tutto. Un uomo si era avvicinato facendosi largo tra una folla compatta, e poi era esploso. Don non lo aveva visto innescare l'esplosivo, ma vide che gli occhi dell'uomo erano chiusi, probabilmente in preghiera.

Era esploso, era diventato irriconoscibile in un istante, e così le persone intorno a lui. C'era un uomo che portava un bambino sulle spalle.

Una forte spruzzata di sangue colpì il finestrino proprio dietro la testa di Montcalvo.

Poi Don si tolse la cintura di sicurezza e coprì Montcalvo schiacciandolo contro il sedile. Era puro istinto. Bussò al finestrino dell'abitacolo. Gridò all'unisono con il giovane agente dei servizi segreti dietro di lui.

"Andiamo via! Veloci! Subito!”

L'auto si fece strada tra la folla. Tutt'intorno a loro, la gente gridava, sconvolta, premendo i volti insanguinati contro la finestra. Si udirono colpi di arma da fuoco.

Il primo pensiero di Don fu per Margaret, nell'auto del presidente. E non c'era niente che potesse fare per lei. Quelle macchine erano come fortezze mobili, lo sapeva. La cosa più pericolosa era venire intrappolati nella folla e non riuscire più a muoversi. Se la vita di Margaret era in pericolo, era a causa di questo ingorgo.

Premette il corpo di Montcalvo in modo delicato ma risoluto al tempo stesso.

“Non si alzi, figliolo. Stia giù".

Si voltò a guardare l'uomo dei servizi segreti.

“Fai muovere questa macchina. SUBITO".

All'improvviso, come in risposta alla richiesta di Don, l'auto accelerò. Guardò attraverso il vetro fumé e attraverso il parabrezza, nella stessa direzione dell'autista. L'auto cercava di evitare la folla che si gettava in preda al panico sui marciapiedi.

L'autista fece una brusca svolta ad alta velocità e si infilò in una traversa laterale.

Di fronte a loro, una donna con in braccio un bambino piccolo si trovava sulla carreggiata. Il bambino giaceva inerme tra le sue braccia. Il viso della donna era pieno di sangue. Urlava.

Stavano per investirla.

L'autista sterzò a sinistra. L'auto si catapultò sul marciapiede, evitando la donna. Colpì il muro di un edificio azzurro di epoca coloniale e rimbalzò indietro per il colpo. Per un secondo, sembrò che l'auto si sarebbe raddrizzata, ma poi il lato del guidatore si sollevò da terra.

Don sentì la macchina capovolgersi. Conosceva bene quella sensazione.

Inizialmente era un movimento lento e poi molto, molto veloce. L'auto si capovolse e rotolò su se stessa.

Don fu gettato in avanti e di lato, la sua faccia colpì il vetro tra gli scomparti. Poi finì addosso all'agente dei servizi segreti.

Tutto divenne buio.

Gli sembrò di fluttuare nello spazio.

Poco tempo dopo, aprì gli occhi. L'auto era capovolta. Don era sdraiato sul soffitto. Si portò una mano al viso insanguinato. Sia Montcalvo che l'uomo dei servizi segreti erano a testa in giù, ancora legati ai sedili, con le braccia penzoloni.

Gli occhi di Montcalvo erano chiusi.

Le orecchie di Don fischiavano. Aveva le vertigini.

Si frugò in tasca e prese il cellulare. Il numero di Margaret era il primo in rubrica. Lo trovò e premette il pulsante verde. Il numero squillò e sembrò che qualcuno raccogliesse la chiamata dall'altra parte del telefono.

“Tesoro?”, disse. “Tesoro?”,

Nessuno rispose.

Fuori dai finestrini la gente correva. Riusciva a vedere solo i loro piedi. Una macchina nera passò sulla strada correndo, poi un'altra: erano i membri del corteo presidenziale che si precipitavano verso l'aeroporto.

Don strisciò verso la porta, pensando di aprirla e chiedere aiuto. Ma… accadde qualcosa. Passarono istanti che sembravano interminabili. Aprì gli occhi e si ritrovò di nuovo sdraiato sul soffitto.

Arriverà qualcuno.  L'autista deve aver chiamato i soccorsi. Don guardò attraverso il tramezzo e l'autista era appeso a testa in giù, proprio come gli altri uomini che si trovavano con lui nell'abitacolo.

"Qualcun altro oltre a me è cosciente?"

CAPITOLO SETTE

Ore 11:15 fuso orario dell’Atlantico (ore 11:45 fuso orario della Costa Orientale)

Air Force One

Aeroporto internazionale Luis Muñoz Marín

San Juan, Puerto Rico


"Piano, piano", disse Clement Dixon.

Nessuno gli dava ascolto. Lo avevano portato fuori dalla macchina con tutte le precauzioni. Dixon era alto, ma una mano forte lo costringeva a rimanere abbassato fino a farlo quasi accovacciare. Un muro di uomini molto alti in giubbotti balistici lo circondava completamente. Si mossero in gruppo verso l'aereo.

Al di là dei corpi che lo circondavano, riusciva a malapena a vedere l'aereo blu e bianco sull'asfalto, la bandiera americana sulla coda, e la scritta STATI UNITI D'AMERICA lungo la fusoliera.

Dixon riuscì a intravedere l'auto mentre si allontanava, era circondata da veicoli blindati. Vide anche Tracey Reynolds e Margaret Morris seguirlo scortate da due donne in giubbotti balistici. Non erano circondate e non erano costrette a stare chine: non importava al mondo della vita di una giovane assistente e della moglie di un agente dei servizi segreti.

La scala dell'aereo era abbassata. I motori stavano già girando. Faceva caldo sull'asfalto. Dixon poteva sentire il sole picchiare sulla schiena.

"Cosa sta succedendo?" disse.

Quando raggiunsero le scale, si rese conto di essere senza fiato. Sentiva una punta di dolore al petto.

Non ora. Non un attacco di cuore adesso.

Sarebbe stato troppo banale, troppo. Era quello che i suoi figli avrebbero chiamato meme. Un vecchio vive per decenni facendo lavori stressanti, poi sopravvive a una sorta di aggressione violenta, solo per morire di insufficienza cardiaca pochi istanti dopo.

"C'è stato un attacco, signore", disse un uomo. “Non siamo sicuri della sua natura. È tutto tranquillo e ora stiamo evacuando".

"E il resto del gruppo?"

"Troveranno un modo per tornare".

"Quanti sono morti?" chiese Dixon. Ci devono essere stati dei morti. Aveva visto la gente esplodere con i suoi occhi.

"Non dei nostri, signore. Faremo in modo di farle avere queste informazioni non appena saremo decollati. Pronto a salire le scale?"

La scaletta si stagliava sopra di lui. Erano solo una dozzina di scalini. Li aveva contati la prima volta che ci era salito. Normalmente saliva le scale quasi correndo, per dimostrare a tutti i media o alle persone vicine quanto fosse in forma per la sua età.

Ma non quel giorno. Tutto, il mondo intero, sembrava muoversi intorno a lui. Sentì dei conati di vomito. Inciampò e per una frazione di secondo vide due aerei. Poi le loro immagini si unirono improvvisamente.

Un aereo, due aerei, aereo bianco, aereo blu.

"Mi sento un po' stordito", disse.

Lo presero per le braccia e lo trascinarono su per le scale. Per fortuna, le gambe non gli cedettero. Sarebbe stato imbarazzante. Sembrava che i suoi piedi non toccassero il suolo mentre gli uomini lo aiutavano a salire per le scale in fretta e furia.

In pochi secondi erano all'interno dell'aereo. Nessuno gli chiese dove volesse andare. Si spostarono invece in gruppo lungo il corridoio fino all'angusto annesso medico, camminando velocemente, quasi trascinando Dixon di peso.

Passarono attraverso la porta stretta e due agenti lo fecero sedere sul sedile di pelle vicino al lettino. Era uno spazio minuscolo, con apparecchiature mediche allineate alle pareti. Dixon sapeva che più in profondità all'interno della dependance avrebbe potuto aprirsi un tavolo operatorio se si fosse rivelato necessario. Sperava molto di non arrivare mai a tanto.

C'era Travis Pender, il medico dell'Air Force One. Al suo fianco c'era un'infermiera, una donna di mezza età. Il suo viso era sempre serio. Dixon la conosceva, ma al momento la sua mente sembrava…

"Buon giorno, Signor Presidente", disse.

"Ciao", disse Dixon. Non provò nemmeno a chiamarla per nome.

Pender era texano, Dixon lo ricordava. Era stato nell'Air Force. Lui sorrise. Era biondo, molto abbronzato, la sua carnagione era quasi aranciata. Aveva una grande mascella sporgente, come un uomo di Cro-Magnon. Dixon, per lunga esperienza, considerava quella mascella un tratto distintivo di sicurezza. Gli uomini con un tocco di Neanderthal sembravano avere più sicurezza in sé stessi rispetto agli altri uomini, a ragione o meno.

Da parte sua, Pender sorrideva sempre, sembrava sempre divertirsi. La mascella poteva essere una delle ragioni, ma certamente non era la sola. Gli uomini sicuri di sé potevano essere scontrosi come chiunque altro. Pender non lo era. Dixon non capiva quell'uomo.

"Come ti senti, Clem?" disse il dottore. “È una giornata turbolenta, eh? Mi hanno detto che forse hai avuto un po' di vertigini. Hai perso conoscenza? Ti ricordi?

A Dixon balenò un pensiero, non certo per la prima volta. Ma questa volta lo espresse ad alta voce.

“Hai sempre chiamato i presidenti per nome? O lo fai solo me?"

Il sorriso di Pender si fece ancora più ampio. “Chiamo tutti per nome. Siamo tutti uguali agli occhi di Dio". Guardò uno degli uomini dei servizi segreti.

"Puoi aiutarmi a togliergli giacca e camicia?"

L'uomo dei servizi segreti raggiunse Dixon.

"Ce la faccio, grazie!" disse Dixon. "Non sono un invalido!"

Si tolse la giacca e iniziò a sbottonare la camicia. Non aveva senso opporre resistenza. Era successo qualcosa poco prima e lo avrebbero visitato, che gli piacesse o meno.

Travis Pender sorrise ancora di più. Era un sorriso delle dimensioni del Texas.

“Questo è lo spirito giusto. Mi piace".

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