Si schiarì la gola e si sistemò le maniche della camicia mentre due colleghi le passavano accanto, passò attraverso la porta scorrevole in vetro portandosi davanti ai metal detector e alle guardie appostate. Adele salutò con un cenno del capo, ma poi si portò rapida verso il retro della struttura del parcheggio, doveva aveva lasciato la sua berlina.
E inchiodò di colpo.
C’era una persona accanto alla sua auto.
Avvicinò la mano con titubanza all’arma di servizio che teneva al fianco, ma le sue dita si impietrirono non appena riconobbe la silhouette dai capelli ricci. Si stava allenando: aveva le braccia più grosse di almeno un paio di centimetri da quando l’aveva visto l’ultima volta, e il giro vita un paio di centimetri più stretto. Lo guardò dalla testa ai piedi, godendosi per un secondo la scena prima di rendere nota la propria presenza.
“Angus?” lo chiamò.
L’ex-fidanzato si girò di scatto e la guardò. Non portava neanche più gli occhiali. Lenti a contatto? Intervento al laser? Aveva i capelli più lunghi di quanto lei ricordasse e aveva una nuova cicatrice, appena visibile, sul labbro superiore.
“Oh cavolo, ciao… Adele,” disse, schiarendosi la gola. In passato la chiamava spesso con dei nomignoli, ma ora pronunciò il suo nome scandendolo con precisione, come se timoroso di esserselo dimenticato.
“Cosa ci fai qui?” gli chiese senza rispondere al suo saluto.
Angus spostò il peso da un piede all’altro, a disagio, appoggiandosi poi al cofano dell’auto. Adele lanciò un’occhiata severa al punto in cui si era seduto, quindi lui tossì e si risollevò dalla macchina, alzando le mani in segno di scuse. “Oh, scusa… ehm, scusa,” disse rapidamente. “È solo che… ero in zona e volevo assicurarmi che…”
“Ho ricevuto i tuoi messaggi.”
“Oh…” Si interruppe. “Oh,” ripeté con voce ferita.
Adele inspirò dal naso, cercando di ricalibrare la propria concentrazione e passare dai pensieri riguardanti una serie di omicidi tra le Alpi al suo impacciato ex-fidanzato. “Senti, Angus. Non ti stavo ignorando. Ero sommersa di lavoro. Non potresti mai credere alla quantità di carte da compilare che mi hanno messo sulla scrivania.”
Angus annuì, continuando a mostrare un’espressione ferita negli occhi. “Capisco,” disse lentamente. Alzò lo sguardo al cielo del pomeriggio che si apriva sopra al terzo piano del parcheggio. Poi sollevò una borsa di carta marrone. “Ti ho portato una cosa. Ce l’avevano nel negozio accanto al lavoro. Beh, a dire il vero era qualche isolato più in là. Ho dovuto girare un po’ di negozi per trovarlo… Ma, sì, ecco qua.”
Le rivolse un sorriso sghembo e spinse la borsetta di carta verso di lei.
Con riluttanza Adele accettò il dono, se non altro per calmare Angus. Sbirciò dentro al sacchetto e parte del suo sorriso divenne autentico. “Oh, Angus,” disse, con voce sommessa e triste. “Non avresti dovuto.”
“Ricordo che sono i tuoi preferiti… giusto? Li mangiavi ogni mattina. Anche a me piacciono i cereali al cioccolato, ma… ahah, mai quanto a te.” Indicò con un cenno del capo la scatola di cereali Chocapic. “Sono tedeschi, giusto?”
Adele abbassò la scatola, stringendo la borsa di carta con la stessa mano che prima si era mossa verso il fianco, quando aveva scorto una presenza accanto all’auto. Angus ovviamente sapeva della sua tripla cittadinanza: americana da parte di padre, francese da parte di madre e tedesca sulla base della nuova residenza della sua famiglia. Ma anche se lo sapeva, l’attenzione di Angus la colpì. Un’attenzione a volte troppo accentuata, e a volte – secondo la sua tacita opinione – rivolta a troppe persone. Sapeva che questo la rendeva egoista, ma ad Adele piaceva essere in qualche modo l’unica a fare breccia nel lato più tenero del suo compagno. Angus invece era come un labrador: mostrava la pancia a tutti. Crescendo, Adele aveva sempre preferito i pit-bull. Affidabili, intelligenti e ferocemente leali, ma solo a una persona.
“Francesi,” gli disse.
“Come scusa?”
“I cereali. Sono francesi. Non importa. Grazie, Angus. Ma di certo non sei venuto fino a qui per darmi una scatola di cereali per la colazione.”
Angus si grattò la nuca, arruffandosi i capelli ricci. Adele poteva notare i segni degli occhiali sul naso, ora non più tanto evidenti, forse ridotti a semplici segni del sole. Accennavano a un passato, a un ricordo.
“Volevo… volevo parlare,” le disse con cautela. “Sto pensando tantissimo… e mi sono davvero preso del tempo…” Iniziò a parlare più velocemente, con tono più alto, raccogliendo il coraggio come se avesse già provato prima quelle parole.
Adele lo guardò con pazienza, in silenzio, permettendogli di parlare ma temendo ciò che sarebbe venuto poi. Voleva tornare insieme a lei? Cos’era questa storia? E lei voleva davvero saperlo?
Radici. Le radici erano la sicurezza. Le radici erano affidabili, certe. Le radici erano una casa, un posto dove tornare.
Adele guardò oltre la parete del parcheggio e scrutò l’orizzonte, il cielo lontano. Una debole vocina – una parte di lei che fingeva di non possedere – le stava dando la sua opinione. Le radici erano una restrizione. Le radici erano come catene. Le radici ti tenevano in trappola.
“Senti, Angus,” gli disse, interrompendolo a metà frase. “Possiamo parlare. Ti prometto che parleremo. Ma ora non è un buon momento.”
Il volto di lui si fece mesto mentre lei gli passava oltre, diretta all’auto. Aprì la portiera e gettò la borsa con i Chocapic sul sedile posteriore. Si voltò e gli sorrise tristemente, sussultando. “Te lo prometto,” ripeté. “Presto. Sto andando fuori città per lavoro. Quando sarò tornata, ok?”
Angus esitò, la bocca mezza aperta. Era stato davvero sempre carino con lei. L’espressione ferita che aveva in volto la faceva sentire come se avesse appena dato un calcio a un cucciolo. Sentì un graffiante senso di colpa stringerle il petto e cercò disperatamente di cacciare quell’emozione. Sapeva, guardandolo, che se si fosse fermata più a lungo avrebbe cambiato idea. Si sarebbe fermata ad ascoltarlo. E poi… le parole avevano il loro modo di convincere le persone. E Adele non era sicura di volersi lasciare convincere. E poi era stato lui a lasciarla. Solo perché lui aveva risolto i suoi problemi, non significava che dovesse valere la stessa cosa per lei.
Con movimenti rapidi, montò in auto, lanciò un altro sorriso dispiaciuto al suo ex e fece per chiudere la portiera. L’opprimente senso di solitudine, di colpa, di confusione la inseguirono fin dentro l’abitacolo e le spinsero le parole fuori dalla bocca. “Più avanti, promesso. Mi spiace, Angus. Davvero, voglio parlare sul serio. Ma non adesso, ok?”
Lui annuì, un’espressione triste negli occhi. “Scusa, Adele. Non avrei dovuto venire qui, hai ragione. La prossima settimana va bene?”
Lei fece una pausa e le si strinse lo stomaco. “Il lavoro mi richiederà un po’ di tempo. È in Europa. Quando torno ti faccio sapere. Sul serio. Ti faccio sapere.”
E detto questo, accese il motore e liberò il posto macchina, salutando Angus con la mano mentre usciva e si allontanava. Mentre lasciava l’edificio, si rifiutò di guardarsi alle spalle e tenne gli occhi fissi davanti a sé, evitando con tutta se stessa di sbirciare nello specchietto retrovisore.
C’era un assassino nella Alpi. forse un serial killer. Due coppie scomparse, a distanza di trecento chilometri l’una dall’altra. Priorità. Doveva concentrarsi. Adele strinse il volante, cacciando via dalla propria mente i pensieri di Angus e facendo un elenco di tutto ciò che le sarebbe servito per il viaggio. Mentre guidava, uscita dal parcheggio, iniziò a prendere velocità e un sorriso le curvò le labbra.
La caccia aveva inizio.
***
Prima classe, niente scali. Questa era vita. O almeno lo sarebbe stata senza le immagini sanguinolente della carneficina, ora disposte sul tavolino reclinabile davanti a lei. Adele studiava le foto della scena del crimine, ascoltando il ronzio dei motori del jet e alzando lo sguardo di tanto in tanto per assicurarsi che non ci fossero hostess di passaggio. Aveva imparato nel modo più duro, qualche anno prima, quale impatto avessero quelle foto sul pubblico in generale.
Far svenire un’altra assistente di volo durante la traversata atlantica? Meglio di no.
Adele si spostò, scivolando lungo lo schienale imbottito per schermare alcune delle foto da sguardi indiscreti. Il signore e la signora Beneveti erano stati trovati due giorni fa, i pezzi sparpagliati tra gli alberi. Il signore e la signora Hanes, coppia svizzera, erano scomparsi quasi una settimana prima di allora, e non erano ancora stati rintracciati.
Qualche centinaio di chilometri separava le due coppie scomparse. Unici collegamenti tra loro: benestanti, influenti, nelle Alpi.
Adele corrugò la fronte e allungò una mano, prendendo un sorso della sua acqua ghiacciata per poi rimettere il bicchiere al suo posto. Emise un lungo respiro, il cui suono andò a perdersi tra le vibrazioni della ventola del condizionatore sopra alla sua testa. Tamburellò con le dita sul bordo del tavolino, piegando una delle foto che si rifiutava di stare dritta e piatta.
“L’attacco di un orso?” mormorò tra sé e sé, permettendo alla domanda di permeare l’atmosfera circostante.
Non sembrava che fosse così. Non secondo il rapporto preliminare, anche se stavano ancora aspettando il medico legale. Eppure una rapida ricerca online rendeva palesemente chiaro che il pubblico era ancora convito che gli orsi bruni fossero tornati a popolare le Alpi. Ma non c’erano segni di morsi, e alcune porzioni di corpo che sembravano aver subito la furia di artigli, potevano essere stati facilmente ridotti in quello stato da un’ascia o da una piccozza. Alcuni dei tagli erano slabbrati. Giusto… un’ascia arrugginita magari. Un machete poco affilato?
Adele sussultò al pensiero dei due abbracciati tra i boschi gelidi, usciti per una gita in giornata e finiti da…
Da cosa? da chi?
Adele scandagliò ancora le foto, catalogando le informazioni. C’erano agenti dell’FBI molto più svegli di lei, altri che erano più precisi e altri ancora con un ottimo talento naturale. Ma ce n’erano pochissimi che lavorassero sodo quanto lei, che prestassero la medesima attenzione al dettaglio.
Il diavolo stava nei dettagli. E a quanto pareva anche nelle Alpi.
CAPITOLO CINQUE
Il veicolo che avevano mandato a prenderla accostò fuori dal Wolfsschluct Resort e, ringraziato l’autista, Adele uscì dall’auto, felice di poter allungare le gambe e inspirare un po’ di aria fresca. Dall’interno l’autista la chiamò. “Le servono indicazioni?”
Adele si guardò alle spalle e scosse la testa. “No, grazie. Viene una persona a prendermi qui.”
L’autista la salutò, voltandosi a guardare la strada. Adele recuperò il suo bagaglio: non le era mai piaciuto faro fare agli autisti, anche se alcuni agenti lo consideravano un privilegio.
Con il trolley su ruote stretto in una mano, rimase ferma alla rotonda al centro del resort. Quando aveva sentito nominare la prima volta il Wolfsschluct Resort, si era inizialmente figurata un albergo con un paio di piste da sci, magari una o due piscine interne. Ma ciò che aveva davanti adesso sembrava più un intero villaggio spruzzato di neve e circondato da ogni lato dallo scenario più candido e immacolato che Adele avesse mai visto.
Mentre stava sul bordo della rotonda, subito sotto il marciapiede dell’hotel più grande, osservò la serie di vetrine azzurre e i pittoreschi edifici disposti lungo la strada che portava al valico montano, dove si ergevano delle baite e altre ali dell’hotel, il tutto circondato dalle cime innevate e da un po’ di vegetazione disseminata qua e là. C’era addirittura una chiesetta di pietra e una torre idrica dove si leggeva il nome del resort.
Suo padre l’avrebbe definito un momento divino. La bellezza era di per sé ipnotica: la perfetta fusione di sforzo umano e arte naturale.
Adele guardò la sua valigia mentre rimetteva in ordine i pensieri, cercando di concentrarsi sul motivo per cui si trovava lì.
“Salve!” la chiamò una voce dall’interno dell’hotel che aveva davanti. L’edificio sembrava essere fatto più di vetro che di muri, come se gli architetti non avessero voluto sprecare nessuna opportunità per mettere in bella vista le bellezze delle Alpi.
Adele si voltò verso le porte scorrevoli che si erano aperte lasciando apparire una giovane donna sulla ventina che si fermò sulla soglia e la salutò allegramente con la mano.
Adele sorrise, riconoscendo la ragazza. Aveva i capelli molto più corti dell’ultima volta che si erano incontrate. Quasi rasati a dire il vero. Tutto in lei suggeriva pulizia e ordine. Indossava un abito nero e un paio di stivali che sembravano luccicare per la buona dose di cera applicata. Aveva gli occhi svegli e vivaci e agitò la mano per salutarla, anche se poi interruppe il movimento a mezz’aria facendole un cenno con la testa, forse temendo che il suo entusiasmo potesse essere considerato poco professionale.
“Salve,” le disse di nuovo mentre Adele si avvicinava, portandosi sul marciapiede e prendendo la valigia in una mano e la borsa del portatile nell’altra. “Sono l’agente Beatrice Marshall,” disse, chinando in segno di saluto la testa rasata. Parlava un inglese quasi perfetto, con un leggerissimo accento tedesco.
Adele rispose al saluto. “Lo so,” le disse, sempre in inglese. “Abbiamo già lavorato insieme.”
Il sorriso dell’agente Marshall ricomparve. “Ricordo! Ma non ero sicura che te ne ricordassi anche tu, agente Sharp. È un piacere lavorare di nuovo con te.”
“Idem per me. Allora…” Il tono di Adele si fece più cupo mentre lei si soffermava un secondo sulla soglia del lussuoso hotel. L’atrio era una combinazione di travi in legno laccato e pietra naturale. Una piccola cascata sgorgava in delicati zampilli riversandosi in un laghetto vicino al banco della reception. Un uomo in uniforme bordeaux e oro salutò educatamente con un cenno della testa le due donne, ma poi riportò l’attenzione al computer del check-in.
“Allora…?” ripeté l’agente Marshall. “Posso mostrarti la tua stanza se vuoi.”
Adele si fermò. “Sarebbe perfetto. Questo è il resort dove alloggiava la coppia scomparsa, giusto?”
L’agente del BKA arricciò il naso e annuì. “Sono stati trovati ad appena tre chilometri da qui da una delle squadre di salvataggio montano. Sono qui in attesa, se ti va di parlarci.”
Adele ci rimuginò sopra, mordendosi il labbro, ma poi decise per il no. “A breve magari. Ma vorrei mettermi in contatto con il DGSI e fare qualche chiamata, se non è un problema.”
“L’agente Renee!” esclamò la giovane. “Ricordo!”
Adele si accigliò. “Non solo John, ehm, l’agente Renee. Ci sono altre persone con cui ho bisogno di parlare.”
“Certo, sì, certo. Non volevo alludere a niente.”
Adele si accigliò di più e l’agente Marshall parve rendersi conto che stava avanzando su un campo minato. “Bene che sei arrivata ben attrezzata per il tempo,” disse, indicando il giaccone di Adele. “Ovviamente l’albergo è confortevole. Ti mostro la stanza, ok? Il personale è stato avvisato di non disturbarti e di evitare la tua camera. Abbiamo una chiusura temporanea sui lettori delle keycard per evitare ogni sorta di ficcanaso.”