“Okay.”
“Okay, ti impegnerai a farlo?”
“Sì, ho capito.”
Ci guardammo negli occhi per molti altri secondi. Poi Nick si alzò. Le gambe della sua sedia emisero un orribile “criiiic” sfregando contro il pavimento in resina. Rabbrividii. Probabilmente al momento sbagliato, visto come aggrottò la fronte e strinse le labbra. Se ne andò.
Rimasi inchiodata alla mia sedia.
Un po’ di tempo dopo — secondi? minuti? — Emily interruppe la mia imitazione di un blocco di ghiaccio.
“Terra chiama Katie. C’è la pausa. Vieni?” chiese. Il suo tono era nervoso, ma non quanto i messaggi di questa mattina.
Rivolsi lo sguardo verso di lei. Con le sue gambe lunghissime, aveva messo degli stivaletti texani e un paio di jeans, che aveva poi abbinato ad una giacca in denim della Gap e una camicetta di cotone viola. “Ehm, no, grazie. Ci rivediamo dopo qui,” dissi.
Emily uscì dalla sala riunioni con un gruppo di consulenti legali. Mi precipitai al bar. Qual è un cocktail che sia accettabile bere alle dieci del mattino? Ordinai un Bloody Mary, un drink che non avevo mai provato. E chi lo sapeva quanto fosse buono il Bloody Mary? Il primo mi piacque, così ne ordinai un altro. Con l’aiuto del mio nuovo amico Bloody Mary, decisi che potevo rimettere le cose a posto con Nick. Solo, non riuscivo a trovarlo.
Una volta finita la paura, presi Emily da parte. “Hai visto Nick?” le chiesi.
Emily sospirò. “Se n’è andato. Ho sentito che diceva a Gino di avere un’emergenza familiare.”
Un fiasco.
La giornata voltò al termine. Non mi ricordo molto. Penso di aver fatto espressioni e commenti opportuni quando richiesto. O forse no. La lavatrice che avevo al posto del cervello stava centrifugando pensieri su Nick.
Ad una certa ora del pomeriggio, Emily mi riaccompagnò a casa sulla mia vecchia Honda Accord metallizzata. Il giorno si trasformò in notte, e la notte di nuovo in giorno, e quando mi svegliai il giorno seguente al sentire la voce di mio fratello, mi ritrovai stravaccata sul divano del soggiorno.
Quattro
Appartamento di Katie, Dallas, Texas
16 agosto 2012
“Hai una buona scusa per non aver riposto a nessuna delle mie chiamate?” disse Collin in un austero tono da fratello maggiore. Mi sforzai di aprire gli occhi abbastanza da vederlo gesticolare per il soggiorno del mio – una volta – bellissimo appartamento. Collin era come un gemello, più grande di me di undici mesi. Avevamo finito le superiori insieme, però, dato che nostro padre, un vero texano, aveva insistito che Collin aspettasse un anno per avere un vantaggio fisico nella squadra di football. Perciò non solo eravamo identici, ma anche compagni di classe. Eppure, Collin ha sempre avuto uno spirito paterno nei miei confronti, specialmente nell’ultimo anno, dopo aver perso mamma e papà.
Aprii leggermente gli occhi, abbastanza da vedere il casino che avevo lasciato. Non doveva avere un bell’aspetto. Normalmente sono inverosimilmente maniacale per quanto riguarda la pulizia. Collin ha sempre sostenuto che avessi un disturbo ossessivo-compulsivo, ma io non ero d’accordo. Passo l’aspirapolvere al contrario perché non mi piacciono le impronte sulla moquette. Organizzo i miei vestiti per stagione e li suddivido per scopo e colore, chi non lo fa? E anche se non tutti pettinano le frange dei cuscini come me, credo che dovrebbero faro. Frange aggrovigliate. Che orrore. Queste ultime settimane, però? Beh, non così tanto.
C’erano — oh — involucri di cibo pronto sul tavolo della cucina e un paio di bottiglie di Grey Goose vuote sul piano di lavoro. Per gli standard di Dennis la Minaccia, non era così antigenico, ma se mi conosceste come mi conosce mio fratello, vi preoccupereste. Avevo dormito con gli abiti da lavoro di ieri e i vestiti dei giorni precedenti erano in una pila che non avevo ancora portato in lavanderia, a lato del sofà — lo stesso sofà sul quale il cuscino dalle frange aggrovigliate mi stava innervosendo, con i suoi nodi e le sue trecce. Sulla televisione passava Runaway di Bon Jovi da un canale di musica anni ‘80. Un quasi prosciugato Bloody Mary si prendeva gioco di me dal tavolino da caffè, dove sedeva vicino al mio portatile Vaio, una bottiglia di Excedrin e il mio iPhone.
Mi misi a sedere nel modo più decoroso possibile e stiracchiai i vestiti. “Perché non ho sentito l’allarme quando sei entrato?” gli chiesi. Collin aveva una copia delle chiavi del mio appartamento, ma l’allarme avrebbe dovuto suonare quando aveva aperto la porta.
Senza mezzi termini, Collin disse, “Devi essere stata troppo ubriaca per ricordarti di impostarlo. O forse c’era un ospite che se n’è andato tardi?”
Si guardò intorno cercando un secondo bicchiere, ma avevo bevuto da sola. Collin iniziò a mettere a posto il casino.
“Collin, ci penso io,” dissi.
“No. Vai a darti una rinfrescata,” disse. “Ti porto a fare colazione. È un ordine.”
Lo guardai con i miei occhi tristi. Indossava i soliti jeans 501 con una maglietta della Hooters, e sprizzava la frase Io non ho problemi da tutti i pori. Non volevo fare colazione con lui. Volevo mettermi in posizione fetale. Volevo dormire e stare da sola. Volevo stare così ferma da non esistere più.
Mi guardò mentre rimanevo immobile sul divano e qualcosa gli fece mettere giù la mia roba e venire lì da me. Prendendomi la mano, mi mise in piedi. Trattenne il mio corpo rigido in un abbraccio da orso, dondolandomi piano per qualche secondo. Oh oh. In un primo momento, provai a trattenermi, ma poi mi ripiegai su di lui e iniziai a singhiozzargli sulla spalla. Dal singhiozzare passai a tirare su col naso, poi iniziarono i gemini e dopo i vennero i respiri irregolari. Mi inclinò la testa all’indietro mettendo il pollice sotto al mio mento e mi guardò negli occhi, scrutandomi.
“Vai a farti una doccia calda. Mangiamo in posto tranquillo, ma esco — con te in macchina — tra venti minuti.” Mi diede una pacca sulla spalla. “Hop hop. Sai che se devo ti vengo a prendere nella doccia. Non costringermi a farlo.”
Con una spinta leggera, mi spedì in fondo al corridoio, al bagno, da dove lo sentii mentre ricominciava a mettere a posto. Le lacrime mi scorrevano sul naso e sulle guance. Cavoli, avrei dovuto bere litri e litri d’acqua a colazione; visto il ritmo del mio pianto e la quantità di vodka che avevo bevuto la sera prima, ero ad un passo da un violento mal di testa per disidratazione.
Quarantacinque minuti dopo, ci sedevamo all’IHOP di Mockingbird Lane. Da sempre uno dei nostri posti preferiti da bambini, oggi notai che aveva molte rifiniture arancioni nell’arredamento, e per questo iniziò a piacermi meno. Collin mi sorprese quando chiese un tavolo per tre, ma non avevo le energie per fare domande. Capii solo quando vidi i capelli da sfilata di Emily all’entrata. Camminò verso di noi nei suoi pantaloni plissettati blu notte e la sua camicetta in seta gialla, stretta alla vita da una cintura in pelle che si abbinava ai tacchi marroni.
“Ciao, Katie.” Mi guardò per un secondo, poi distolse lo sguardo.
Alzai la mano in segno di saluto. Ottimo. Un’altra persona a vedermi in questo stato. Avevo evitato di fermarmi davanti allo specchio a casa, ma la rapida occhiata che avevo dato mi era bastata. Una coda di cavallo bagnata. Dei vecchi pantaloni della tuta e una maglietta. Occhi gonfi e giallastri. Bleah.
Evitammo di parlare, guardando ognuno il proprio menù, fino a che la cameriera di mezza età, che avrebbe dovuto indossare un’uniforme di una taglia in più, non venne a prendere l’ordine. I muscoli dello stomaco mi si strinsero mentre se ne andava. Quasi la richiamai indietro per farle togliere il succo d’arancia dal mio ordine, ma non lo feci. Perché ritardare l’inevitabile. Collin ci aveva riunito per un motivo e, per quanto spiacevole, la cosa stava per venire fuori.
“Emily ed io abbiamo parlato, e mi ha raccontato cosa ti sta succedendo,” Collin.
Speravo che Emily avesse omesso alcuni dettagli, ma non potevo incolparla per avere la mia salute a cuore. O per aver spettegolato con Collin. Era un poliziotto, aveva seguito la scia di nostro padre, e c’era testimone che non riuscisse a far crollare, gli piaceva dire.
Collin continuò a parlare. “Siamo preoccupati per te. Sei nei casini. Ti stai facendo del male.”
Volse lo sguardo ad Emily in cerca di una conferma e lei abbassò lo sguardo verso il copritavolo in formica. Conoscendo Collin, l’aveva trascinata in questa piccola sessione di terapia e, conoscendo Em, era venuta a malincuore. Emily era spigliata, ma dare ordini non era il suo stile.
Non avevo le forze di contrariare Collin e, sinceramente, non ero neanche in disaccordo con lui. Ero un disastro in questo momento, senza dubbio. Mi aveva presa in uno di quei rari momenti in cui la parte di me senza peli sulla lingua non era lì a difendere la parte più fragile. Probabilmente era ancora stravaccata sul divano a riprendersi dalla sbornia.
“Hai ragione,” ammisi. Queste parole erano come polvere sulla mia lingua secca. “Devo rimettermi in sesto.”
“Penso tu debba andare in un centro di disintossicazione.” Le parole di Collin erano forti, anche perché non c’è un modo per addolcire l’espressione “centro di disintossicazione”.
Quindi era così che si era sentita Amy Winehouse. E adesso era morta. Questo mi diede da pensare. Però io non ero Amy Winehouse.
“Sto passando un brutto periodo, sì, e sto bevendo troppo, ma solo da alcune settimane. Non penso sia il caso di mandarmi in un centro.” Il solo pensiero di dover parlare dei miei problemi con tutti quegli alcolisti mi faceva sentire claustrofobica. Gli Alcolisti Anonimi forse aiutano la maggior parte delle persone, ma io non sono una ragazza da lavori di gruppo. E poi, non ero un’alcolista.
“Queste ultime tre settimane sono state particolarmente dure, ma sei su questa strada da molto più tempo.” disse Collin. “Tipo un anno. Riesci a ridurre o smettere? Scommetto che ci hai già provato, vero?” Evitavo il suo sguardo. “E scommetto che non ha funzionato.”
No, stronzo, non ci ho provato stavo per dire. Stavo per. Invece, dissi, “Non ci ho provato. So che posso, quando sarò pronta.”
Arrivò la mia omelette al formaggio, ma non avevo fame. Nessuno di noi toccò il proprio cibo.
“Ammetto che avrei dei problemi a farlo qui a Dallas, anche se ci provassi. Quando ci proverò. Ma so che, se riuscissi a mettere in pausa la mia vita per qualche settimana, potrei tenere tutto sotto controllo. Sono disposta a cominciare da qui. I centri non fanno per me. Forse se un giorno mi trovaste a dormire in un cassonetto allora sì, ma non adesso.”
“Va bene. Ti darò una possibilità, fanne tesoro. Hai in mente qualcosa?” chiese Collin.
Inspirai tutta l’aria che potevo, per poi sforzarmi a espirarla tutta, fino a quando il mio stomaco non crollò. “St. Marcos. Ho bisogno di superare ciò che è successo a mamma e papà.” Iniziai a piangere, poi mi trattenni. Aprii la bocca per parlare e le lacrime iniziarono a sfociare di nuovo.
“Ne sei sicura?” chiese Collin.
Annuii e usai la parte pulita del tovagliolo per asciugare le lacrime. Come alzai lo sguardo, una giovane donna nera attirò la mia attenzione, un po’ perché mi stava fissando, e un po’ perché era scalza all’IHOP e i suoi vestiti sembravano di centocinquanta stagioni fa. Ora, lei aveva un problema. Droga, a quanto sembrava. Un’ottima candidata per un centro di disintossicazione. Non io. Mi asciugai gli occhi di nuovo e quando li aprii, non c’era più. Niente di niente. Stavo impazzendo. Deglutii.
Avevo un disperato bisogno di andarmene. Questo viaggio, questa disintossicazione in solitaria o periodo sabbatico o qualunque cosa fosse, sarebbe stato una manna dal cielo.
E così concordammo che sarei partita. Immediatamente. Tipo, domani. Porca miseria. Un po’ prima di quanto avevo previsto, ma Collin insistette, e Emily promise di aiutarmi a renderlo possibile. Collin mi fece promettere con una stretta di mano, quando mi riaccompagnò all’appartamento, e Emily era proprio dietro di noi a testimoniare.
Emily ed io ci presentammo a lavoro alla Hailey & Hart a metà mattinata, dopo essermi messa un tailleur estivo color crema, più adatto all’ufficio. Non facemmo molto se non pianificare il mio viaggio e liberare la mia agenda. Chiesi a Gino i giorni di ferie, aspettandomi di dover litigare, ma non fu così. Mi diede una pacca sulla mano. Ugh.
“Un po’ di tempo libero ti farà molto bene,” disse. “Hai lavorato sodo quest’anno, in circostanze terribili, hai bisogno di ricaricarti e riportare qui la migliore versione di te stessa.”
Ottimo. Che nella lingua dei capi, significava Sei un disastro, vai via da qui. Beh, lo ero. Un disastro mortificato. Domani non era poi così presto per andarsene, dopotutto.
Sotto richiesta di Collin, Emily passò la notte da me a sorvegliarmi, lasciando il marito a casa da solo. Emily era un’amica molto migliore di quanto meritassi, ma, tanto tempo fa, avevo fatto lo stesso per lei quando Rich aveva temporaneamente annullato il loro fidanzamento. Il karma.
Più tardi quella notte, finalmente menzionai il nome che nessuno aveva pronunciato per tutto il giorno. “Se Nick dovesse chiedere dove sono, per favore dagli la versione censurata.”
Emily era seduta su uno sgabello ed io ero in piedi all’altro lato del piano cucina. Si sporse verso di me. “Non pensarci nemmeno. Da quando siamo andate a Shreveport, Nick si sta comportando come Heathcliff di Cime Tempestose. Forza. Lascia perdere.”
Stavo ricevendo un sacco di consigli velati oggi. Questo era: la verità è che non gli piaci abbastanza. Ahia, ma aveva ragione.
Ma sarei davvero riuscita a lasciare qui i miei sentimenti per lui ed andare a St. Marcos con la mente sgombra? Mi rigirai tutta la notte nel letto, in balia dei pensieri sui miei genitori e su Nick.
Cinque
Aeroporto Internazionale DFW, Dallas, Texas
17 agosto 2012
“Si pregano i gentili passeggeri di spegnere e riporre tutti i dispositivi elettronici,” disse la voce dell’assistente di volo dall’altoparlante dell’American Airlines. Merda. Stavo scrivendo un’e-mail ad Emily, promettendo di offrirle una costata di manzo da Del Frisco, se avesse tolto gli avanzi di sushi dal frigo di casa mia, e arrivai a premere invia per il rotto della cuffia.
Mi ero sistemata al mio posto in prima classe, in attesa di arrivare a St. Marcos, con le cose più essenziali a portata di mano: passaporto, il mio portatile rosso della Vaio e iPhone, nella sua cover zebrata della Otter Box. So che la maggior parte degli avvocati preferisce i dispositivi della Dell e Blackberry, ma mi piaceva pensare che non ero come gli altri. Certo, ultimamente ero diventata il peggiore degli stereotipi sugli avvocati: quello che beve troppo. Purtroppo per me.
L’e-mail che avevo mandato ieri agli amici esterni al lavoro spiegava la mia partenza improvvisa come una vacanza. Potevano immaginarmi a sorseggiare una Piña Colada sulla spiaggia, ballando tutta la notte sulle note di musica calypso con un attraente uomo caraibico, mentre mi davo alla pazza gioia. Emily si sarebbe occupata di dare la notizia al lavoro questa mattina.
A proposito di uomini caraibici, l’uomo al mio fianco in prima classe stava cercando di leggere quello che scrivevo al telefono. Mi girai dall’altro lato. Dove sono le tue maniere da passeggero di prima classe?
Tornai ad occuparmi delle mie e-mail. Non avrei dovuto avvisare Nick in prima persona? Forse si era comportato un po’ come Heathcliff ma, prima di Shreveport, gli avrei sicuramente mandato un avviso provocante sulla mia partenza. Se fosse stato lui a scomparire, avrei voluto saperne il perché. Ipso facto, non lo avrebbe voluto anche lui? Seguendo questo raziocinio logico scadente, mi buttai a scrivere un’e-mail veloce.