Una Maestra d`Asilo per il Re
Indice
Capitolo Uno
Capitolo Due
Capitolo Tre
Capitolo Quattro
Capitolo Cinque
Capitolo Sei
Capitolo Sette
Capitolo Otto
Capitolo Nove
Capitolo Dieci
Capitolo Undici
Capitolo Dodici
Capitolo Tredici
Capitolo Quattordici
Capitolo Quindici
Capitolo Sedici
Capitolo Diciassette
Capitolo Diciotto
Capitolo Diciannove
Capitolo Venti
Capitolo Ventuno
Capitolo Ventidue
Capitolo Ventitré
Capitolo Ventiquattro
Capitolo Venticinque
Capitolo Ventisei
Capitolo Ventisette
Epilogo
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio e non devono essere considerati come reali. Qualsiasi riferimento a fatti realmente accaduti o a persone, in vita o defunte, è puramente casuale.
Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere utilizzata, riprodotta elettronicamente o stampata senza l’autorizzazione scritta dell’autrice, fatta eccezione per brevi citazioni inserite nelle recensioni.
“The King and the Kindergarten Teacher” © 2019 Ines Johnson
A cura di Alyssa Breck
Prima edizione inglese febbraio 2019 – Stampato negli Stati Uniti d’America
“Una Maestra d’Asilo per il Re” traduzione italiana © 2021 Chiara Vitali
Con la collaborazione di Antonella Caso
Capitolo Uno
Guardando dalla finestra della sua stanza, Leo vide le guglie di alti castelli. Imponenti torri di metallo e vetro punteggiavano il paesaggio. Più in alto, bestie gigantesche ruggivano e lasciavano scie di fumo nel cielo mattutino. Luci multicolori lampeggiavano in lontananza, come se una strega o un mago stessero lanciando un incantesimo. In fondo alla strada, animali a grandezza naturale salutavano i bambini intimoriti e posavano per i passanti chiassosi.
Times Square, a New York, era pura magia.
Leo voleva scendere e farne parte. Ma sarebbe stato impossibile. Il dovere lo chiamava. Lo faceva sempre, motivo per cui raramente dormiva bene la notte.
Poteva anche vivere in un palazzo pieno di domestici, il cui compito principale era quello di servirlo e riverirlo, ma ognuna di quelle persone era, in definitiva, una sua responsabilità. Come loro monarca, i loro mezzi di sussistenza erano nelle sue mani.
«Siete pronto per il vostro discorso, Maestà?»
Re Leonidas si allontanò dai festeggiamenti che si svolgevano in strada. Si diede una spolveratina all’abito formale e allo stemma sul petto. Deteneva un titolo. Sapeva come maneggiare una spada. Ma niente favole o romanticismo nella moderna nobiltà. No. Solo affari e protocollo.
«È importante menzionare le ampie risorse di Cordoba» gli ricordò Giles, che era sia il suo assistente personale che il capo dello staff durante quel viaggio a New York. «Attireranno interessi commerciali maggiori.»
«Sì, lo so.» Leo si avvicinò allo specchio presente nella suite per sistemarsi la cravatta, ma Giles gli allontanò le mani e sciolse il nodo già perfettamente dritto.
«Sarebbe molto vantaggioso se riuscissimo a catturare l’interesse del governo spagnolo. Le loro risorse si sposano alla perfezione con le nostre. Sarebbe un’accoppiata perfetta. In effetti, questa non è l’unica partita che andrebbe a beneficio dei nostri due paesi.»
Leo alzò gli occhi al cielo. Sfortunatamente, Giles non colse l’allusione. Quell’uomo era troppo concentrato a rendere ancora più grazioso il cappio intorno al suo collo.
Erano passati due anni dalla morte della prima moglie di Leo. Giles non era l’unico a tallonarlo perché scegliesse una nuova consorte. L’intero paese era ansioso di avere una nuova regina, e Leo stava iniziando a sentirsi sotto pressione.
Sapeva di essere responsabile per ogni cittadino del suo paese. Ma ciò dava loro il diritto di avere voce in capitolo nelle sue scelte personali? Lì, nella Terra degli Uomini Liberi, Leo si chiese se la democrazia non fosse un modo per andare oltre il concetto di monarchia.
Guardò di nuovo le luci brillanti della grande città. Se fosse stato solo un cittadino comune, sarebbe stato libero dai suoi doveri e si sarebbe goduto la vita. Andando a Times Square. Assistendo a un evento sportivo senza sconvolgere l’intero Paese. Prendendo una tazza di caffè in un locale tranquillo. Avrebbe potuto chiedere un appuntamento a una ragazza, per quella tazza di caffè – senza che nessuno lo tenesse d’occhio. Era un re di trent’anni, e, per buona parte della sua vita, doveva ancora essere accompagnato da assistenti e uomini della sicurezza.
Cordoba era un piccolo stato, situato su un’isola nel Mediterraneo tra il confine sud-occidentale della Francia e quello nord-orientale della Spagna. Era praticamente sconosciuto, lì in America. Quello era il motivo per cui la sua scorta e il suo entourage erano al minimo. Solo Giles e un autista, il più delle volte. Avrebbe potuto liberarsene con facilità. Aveva visto suo fratello farlo molte volte.
Leo diede le spalle alla finestra e sollevò gli appunti per il suo discorso. Sapeva che migliaia di persone si affidavano a lui per il proprio sostentamento, quindi faceva il suo dovere. E si sarebbe pure trovato una nuova moglie. Prima o poi.
Non poteva chiedere di uscire a una donna qualunque. Proprio come era capitato per il primo matrimonio, anche il secondo sarebbe stato un affare. Non un affare di cuore, ma uno da cui dipendevano gli interessi nazionali.
«La duchessa spagnola, Teresa d’Almodovar, ha ottime referenze. È giovane, istruita, si occupa di beneficenza, e le donne della sua famiglia sono ottime fattrici.»
Leo sarebbe rabbrividito se non avesse sentito quella litania anche per la sua prima moglie. Isabel aveva tutte quelle stesse qualità, ed erano andati d’amore e d’accordo. Ma la cosa era finita lì.
Non aveva mai sperimentato la passione. Non sarebbe mai successo. Non era destino, per un re.
Leo diede un’ultima occhiata ai suoi appunti. Li conosceva tutti a memoria. Nel suo destino c’era la stabilità economica e una moglie che avrebbe soddisfatto le esigenze del suo paese e gli avrebbe dato un erede. Se fossero riusciti ad andare d’accordo, come avevano fatto lui e Isabel, sarebbe stato un vantaggio, ma non un requisito.
«Sono passati due anni» gli ricordò Giles. «Un tempo sufficiente per un lutto rispettoso. Cordoba ha bisogno di un erede.»
«Ho già un’erede.»
«Sapete che la costituzione del nostro paese è patriarcale.» Giles alzò la mano prima che Leo potesse obiettare. «Non abbiamo né il tempo né il supporto per cambiare quella legge. Dovrete trovare una nuova regina e generare un erede maschio. In caso contrario... non voglio prendere in considerazione l’alternativa.»
Come se li avesse sentiti parlare di lui, l’alternativa irruppe nella stanza. Una versione leggermente più giovane e molto più disordinata di Leo aprì la porta e si precipitò dentro la stanza.
I lembi della camicia di Alex erano sbottonati. Gli mancava la cintura. Il colletto era storto e con visibili tracce di rossetto impresse sul tessuto bianco. Probabilmente Alex si era fatto strada tra la baldoria di Times Square.
Leo non invidiava suo fratello, né il suo comportamento da playboy. Invidiava il fatto che potesse scegliere chi amare. Non che suo fratello optasse per una scelta sola. Perché farlo quando poteva averle tutte?
«Buongiorno, Vostra Altezza, è una bellissima mattina di sole» disse Giles, ponendo l’accento sulla parola “mattina”.
«È già mattina? Speravo di riuscire a fare un sonnellino prima che sorgesse il sole.» Alex si riparò gli occhi dalla luce delle prime ore del giorno. «Troppo tardi. Eccolo.»
«Non hai chiuso occhio?» gli chiese Leo.
«Oh, un po’ ho dormito. Solo non nel mio letto.» Alex si tolse la giacca. E, in maniera maleducata, la lasciò cadere sul pavimento, sicuro che qualcuno l’avrebbe raccolta. «Oggi non hai bisogno di me, vero? Nessun nastro da tagliare? Nessuna ereditiera da intrattenere? Nessun giornalista da distrarre con il mio ghigno follemente fotogenico?»
«In realtà», disse Leo, «ho bisogno di te. Hai promesso di portare fuori Pen, oggi.»
Alex sbatté le palpebre, come se si stesse svegliando da un lungo sonno. «L’ho fatto?»
Leo annuì. «Dovete andare in una scuola locale. Voleva visitare una classe dell’asilo.»
«Bene.» Alex sospirò drammaticamente e si passò una mano sulla ricrescita della barba. «Per quella piccoletta non posso venire meno alla parola data. Ho solo bisogno di un pisolino. E di una doccia. E di un cambio di vestiti. E poi sarò come nuovo.»
Alex si accasciò sul divano. Appena chiuse gli occhi, si addormentò. Quell’uomo aveva sempre avuto la capacità di scivolare in un sonno beato ovunque posasse la testa. Era facile, quando non ti importava di niente e nessuno al mondo.
Leo rimise in ordine le sue note e si infilò i fogli nella tasca del cappotto. Prima di andarsene, fece capolino nella stanza di sua figlia. Lei era la piccola donna a cui, per prima, andava la sua lealtà. A parte il suo dovere verso il popolo, sua figlia era la sua ragione di vita.
La principessa Penelope dormiva pacificamente nel letto della camera d’albergo. I suoi capelli scuri si allargavano a ventaglio sulla federa bianca. Sul comodino c’era un libro di frazioni.
A differenza della maggior parte dei bambini di cinque anni, la sua Pen preferiva addormentarsi facendo matematica. Era un tratto che aveva ereditato da sua madre. Isabel aveva studiato ingegneria all’università, anche se sapeva che non le sarebbe tornata utile nei suoi doveri di regina. Ma farlo l’aveva resa felice. I numeri facevano lo stesso con la sua bambina, quindi lui era più che contento di impugnare una matita e fare algebra prima di coricarsi, al posto di leggere una storia.
Perdere sua madre in così giovane età era stata dura, per la sua Penelope. Avrebbe dovuto lasciarla a casa, ma odiava starle lontano. Lei era il vero amore della sua vita.
Il suo angelo dormiva profondamente. Non osò svegliarla, anche se voleva darle il buongiorno prima di dare il via ai suoi impegni. Leo stava iniziando presto la sua giornata, e non voleva che lei saltasse il programma fatto. Specialmente con lo zio messo fuori combattimento nell’altra stanza.
Penelope meritava una madre e lui le avrebbe trovato la migliore possibile. Quello sarebbe stato il suo primo criterio di scelta. Non un interesse economico per il suo paese: Leo si sarebbe concentrato sull’interesse di sua figlia. Con quella determinazione, uscì per guadagnarsi favori per il suo paese e trovare una madre per sua figlia.
Capitolo Due
«Il Principe Azzurro sguainò la spada e corse a salvare la principessa, ma in quel momento...»
«Ma... signorina Pickett?»
A quell’interruzione, Esmeralda Pickett alzò lo sguardo dal libro illustrato. Non era la prima volta che quella storia veniva interrotta. Si era fermata praticamente a ogni pagina del libro per rispondere a una domanda o offrire una spiegazione ai bambini della sua classe dell’asilo, che la guardavano con occhi brillanti. Era orgogliosa di quel gruppetto curioso. Le loro piccole menti erano come spugne, affamate di nuove conoscenze.
«Signorina Pickett, perché la principessa non può sguainare da sola la spada?» Aubrey Thomas arricciò il nasino all’insù mentre cercava di venire a capo del suo problema con la favola. «Hai detto che quello non era il primo principe che cercava di salvarla. E sono tutti nella tana del drago. Quindi ci sono altre spade per terra. Perché lei non ne prende una da sola?»
Quello era un ottimo ragionamento, specialmente da parte di una bambina di cinque anni che Esme spesso sospettava ne avesse cinquanta. Tutt’intorno a Esme, altre dieci testine dondolavano e si inclinavano considerando quella possibile svolta nella storia. Non cercavano subito la risposta nella maestra. No, discutevano tra di loro le possibilità e i fattori in gioco.
Avevano ascoltato attentamente le prime due pagine. Le interruzioni erano iniziate quando la principessa aveva disobbedito al padre ed era andata nel bosco. I giovani studenti di Esme erano rimasti a bocca aperta e con gli occhi spalancati, come se non avessero mai preso in considerazione l’ipotesi di non seguire le indicazioni dei propri genitori.
Erano rimasti senza fiato e aggrappati al filo della storia quando la principessa aveva accettato il cibo da uno sconosciuto. Kurt Willis e Carla Barrow avevano interrotto il racconto discutendo sui pericoli di accettare da qualcuno che non si conosce caramelle o qualsiasi altra cosa che non fosse ben sigillata e con gli ingredienti e gli allergeni chiaramente etichettati, in modo che mamma e papà potessero leggerli.
Ma la parte migliore l’aveva fatta Tracey Chen. Aveva incrociato le braccine sul petto in preda all’orrore, facendo ondeggiare i codini quando Esme aveva descritto il cattivo della storia come una strega malvagia e aveva mostrato la sua immagine. Tracey era stata certa che Esme stesse discriminando le persone anziane, o quelle con psoriasi ed eczema.
Quale bambino di cinque anni conosceva una di quelle parole, era in grado di pronunciarla e ne comprendeva il significato? Beh, almeno erano tutti coinvolti nel racconto. E quello era il succo dell’apprendimento, no?
«Va bene» disse Esme, riferendosi all’ultima domanda che le era stata posta dai bambini. «E se la principessa raccogliesse la spada? Cosa pensate che farebbe?»
«La principessa con la spada potrebbe uccidere il drago» rispose Aubrey, come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Poi potrebbe tornare a casa prima di sera, scusarsi con i suoi genitori e non essere punita troppo severamente per le sue azioni.»
«Ma così ucciderebbe un drago!» intervenne Carla. «È crudeltà verso gli animali.» La bimba era vegana e piangeva ogni volta che vedeva uno dei suoi compagni di classe mangiare bastoncini di pollo o hot dog.
«I draghi non sono reali» le disse Aubrey.
«Lo sono nella mia cultura» ribatté Tracey. «In Cina simboleggiano forza, potere e buona fortuna. Ecco perché la mia gente indossa costumi che li rappresentano durante le feste.»
Kurt Willis tirò su col naso come se il pensiero di un immaginario drago sofferente o di uno in costume a una parata lo facesse stare male. «Penso che dovrebbe sedersi, parlare con il drago e risolvere i loro problemi a parole.»
«Queste sono tutte ottime idee» disse Esme. «Ma cosa credete che dovrebbe fare il principe?»
La classe la osservò in silenzio.
«Mi ero dimenticata di lui» disse Aubrey.
«Perché è ancora lì?» chiese Tracy.
«Per salvarla, no?» rispose Carla.
«Ma è lei che ha combinato un guaio» sostenne Aubrey. «Mia mamma dice che se ti trovi in un pasticcio, devi cavartela da solo.»
Esme non faceva fatica a crederci. La madre di Aubrey parlava in continuazione di regole e procedure. Il primo giorno di scuola, la signora Thomas si era presentata con un documento rilegato di dieci pagine intitolato “Conoscere Aubrey”, in cui era indicato per filo e per segno il rituale del bagno a cui la bambina era stata addestrata da quando aveva un anno. E aveva insistito che Esme lo seguisse alla lettera.
«Nelle favole», disse Esme, rompendo il silenzio, «è compito del principe salvare la principessa e le donzelle in pericolo.»