Una Maestra D'Asilo Per Il Re - Vitali Chiara 2 стр.


«Donzelle in pericolo?» Sia Tracey che Carla pronunciarono quelle nuove parole come se le sentissero per la prima volta.

«Ma questo è il mondo reale, signorina Pickett» disse Aubrey. «C’è una regina in Inghilterra e un sacco di principesse.»

«Oggi una di loro viene a trovarci» disse Carla saltellando per l’impazienza.

«Ma è solo una bambina.» Aubrey alzò gli occhi al cielo. «Mia madre ha incontrato una principessa adulta. Salvava i bambini dalle zone di guerra.»

«Ooh» disse Kurt. «Sei riuscita a incontrarla?»

Aubrey annuì. «Mi ha portato dei cioccolatini, ma contenevano latte, quindi non ho potuto mangiarli.»

Tutti i bambini si voltarono e ascoltarono la storia di Aubrey. Il tempo della favola era effettivamente finito, quindi Esme chiuse il libro illustrato.

«Va bene, bambini» disse. «Andate ai vostri materassini. È l’ora del pisolino.»

Ci fu un coro di lamenti, ma tutti fecero come era stato loro detto. Più o meno. Kurt andò all’armadietto per prendere la sua copertina speciale. Aubrey tirò fuori gli auricolari e l’iPhone dal suo zainetto. Una parte del documento di benvenuto di Aubrey diceva che durante il pisolino la piccola doveva ascoltare Brain FM, una app che offriva specifiche sequenze musicali in grado di favorire il sonno e il relax.

Finalmente tutti i bambini si misero stesi per il pisolino di metà mattina. L’insegnante di supporto entrò per permettere a Esme di fare la pausa pranzo, di cui aveva davvero bisogno.

Faceva quel lavoro solo da un paio di mesi, ma quelli non erano bambini normali. Uscita dall’università, aveva sognato di cambiare la vita dei suoi giovani allievi, donando loro la voglia di imparare e ampliando la loro immaginazione. Fino a quel momento, l’unica voglia che le era stato permesso di soddisfare alla Global Learning Preparatory Academy proveniva da prodotti preconfezionati, senza latticini, frutta a guscio e glutine. L’immaginazione veniva soffocata, perché quei bambini non guardavano la TV, e i giochi a cui partecipavano non erano educativi. Esme non stava cambiando proprio un bel nulla.

Afferrò la sua borsa dalla sala insegnanti e si preparò per uscire nella luminosa giornata di New York City. Camminando lungo il corridoio della scuola, sorpassò premi, riconoscimenti ed encomi. I ragazzini degli anni passati catturati nella celluloide sembravano tutti molto seri. Non un sorriso di gioia o occhi che scintillassero di immaginazione.

Esme era ancora determinata a portare divertimento e gioia nella sua classe d’asilo, ma prima aveva bisogno di una pausa. E di qualcosa da mangiare.

«Signorina Pickett.»

Le spalle di Esme si piegarono al suono della voce del preside Clarke. Il modo in cui diceva “signorina” era singolare, e pronunciava male la parte finale, come se la troncasse. Era come se volesse allontanare da lei quel diminutivo in più, e trasformarla, così facendo, in una signora.

Anche a Esme sarebbe piaciuto. Il problema era che non erano molti i ventenni come lei pronti a sistemarsi. Trent’anni. Sembrava fosse quello il momento giusto per fidanzarsi. E guai pensare a fare dei figli prima dei trentacinque, innanzitutto bisognava far decollare la carriera e sistemare la casa, arredarla e renderla a prova di bambino, il tutto seguendo i dettami del feng shui.

Come per la maggior parte delle cose, Esme era una fan dei vecchi metodi. Era una femminista, certo. Del tipo, però, che voleva uguali diritti e pari stipendio, ma gradiva che ci fosse un uomo ad aprirle la porta e pronto a conquistarla. Avrebbe combattuto al fianco del suo principe se un drago, in una torre o durante una parata, li avesse attaccati. Ma perché avrebbe dovuto farlo, quando era a lui che spettava farsi trovare ben equipaggiato?

«Signorina Pickett, ho appena ricevuto un’altra lamentela per del materiale inappropriato letto nella sua classe. Qualcosa su principesse, draghi e spade.»

Esme si voltò di scatto. Come aveva fatto a saperlo? Era appena uscita dalla sua classe.

«La madre di Aubrey Thomas ha appena chiamato.»

Aubrey “Puzza sotto il Naso” Thomas. Quella ragazzina aveva un cellulare. Aveva scritto un messaggio alla madre? Beh, sapeva già leggere. La maggior parte dei bambini di cinque anni della sua classe erano a livello di quelli di seconda elementare, e si annoiavano durante le sue lezioni sull’alfabeto.

«I genitori ci affidano il compito di preparare i loro figli al mondo reale, signorina Pickett.»

Possibile che nessuno credesse all’esistenza del romanticismo, nel mondo reale? Che esistessero ancora uomini disposti a uccidere un drago per il loro vero amore? A quanto pareva, no. La maggior parte degli uomini della sua età sconfiggeva troll virtuali facendo scorrere un dito sulla tastiera e niente più.

«Credo che lei abbia un futuro brillante, qui con noi» disse il preside Clarke. «Ma se continuo a ricevere chiamate…»

«Stavo cercando di dare una lezione morale» rispose Esme. «Ma non sono riuscita ad arrivare alla fine della favola.»

«Provi con una storia differente, la prossima volta. Magari con una biografia.»

Esme respirò attraverso il naso per tenere la bocca chiusa. I fatti nudi e crudi, secondo lei, erano per i ragazzi più grandi.

«Oggi vengono a farci visita due persone molto importanti. Il principe e la principessa di Cordoba. Vogliamo fare una buona impressione.»

Ecco l’unica cosa a cui tutti, in quella scuola, erano interessati. Fare una bella figura. Non stimolare l’immaginazione.

«Vado a prendermi una fetta di torta» disse Esme. «Posso portarle qualcosa?»

«Torta? Carboidrati nel pomeriggio? Mio Dio, lei vive pericolosamente, signorina Pickett.»

Con un altro profondo respiro attraverso il naso, Esme tenne la bocca chiusa e uscì dall’edificio. Tirò fuori il cellulare dalla tasca, e, prima ancora di aver girato l’angolo, scrisse a Jan di scaldarle una fetta del suo dolce preferito.

Premette il tasto INVIA. Quando alzò lo sguardo, faticò a credere ai suoi occhi. C’era un drago in mezzo alla strada. E stava volando dritto verso di lei.

Capitolo Tre

Mentre guardava fuori dal finestrino della macchina, la città di New York scorreva davanti agli occhi di Leo in cemento grigio, denim blu e luci fluorescenti. Gli scorreva davanti era un modo di dire. Avrebbe potuto camminare più velocemente di quanto l’auto viaggiasse nel traffico. Quella strada trafficata era più simile a un parcheggio che a un percorso.

«Mi dispiace che ci si metta così tanto, signori» disse l’autista.

Si toccò il cappello mentre guardava Leo e Giles sul sedile posteriore. Il loro autista era originario di New York. Era sembrato deliziato quando aveva saputo che avrebbe portato in giro un re in carne e ossa. In effetti, aveva davvero ridacchiato come una scolaretta quando si era trovato faccia a faccia con Leo.

«Si figuri, tutto a posto» gli disse Leo.

«Ha detto che vuole andarsene da questo posto, Altezza?»

Leo aveva viaggiato molto prima di salire al trono. Ai tempi della scuola, aveva trascorso molto tempo in Germania, dove aveva imparato a esprimersi in modo chiaro e coinciso. Dopo la scuola, aveva lavorato a lungo nelle missioni nell’Africa francofona, dove l’accento era molto marcato.

Eccelleva nella comunicazione. Tranne che lì a New York, dove gli accenti, che sembravano degli scioglilingua, i doppi negativi e i significati capovolti di alcune parole spesso lo coglievano alla sprovvista. E viceversa, a quanto pareva.

«No» disse Leo. «Voglio dire che il traffico non è colpa sua.»

L’autista annuì. «Mi scusi. Il suo è un inglese da ricconi. Ho già abbastanza problemi a capire le persone del Jersey.»

Leo rise a quella battuta. Nonostante i problemi di comunicazione, gli piaceva parlare con l’autista sin da quando era andato a prenderli all’aeroporto. Avrebbero potuto utilizzare il loro autista di Cordoba, ma l’ambasciata aveva detto che sarebbe stato meglio averne uno nativo di New York, quella settimana, quando i diplomatici di tutto il mondo avrebbero intasato le strade.

Leo guardò quei nastri di asfalto. Cosa non avrebbe dato anche per un solo attimo di libertà! Un momento per scomparire tra la folla.

«Perché non usciamo e ce la facciamo a piedi?» propose Leo.

Giles sbuffò come se qualcosa di aspro e sgradevole si fosse fatto strada con gli artigli dal fondo della sua gola. «Siete un re. Un re non cammina. Soprattutto in una città straniera.»

«Nessuno sa chi sono, qui. Potrei essere un uomo qualunque che passeggia per strada.»

In quel momento Giles arricciò il naso come se avesse fiutato qualcosa di veramente disgustoso. «Appartenete a un lignaggio di grandi guerrieri e leader, i quali, secoli fa, avrebbero schiacciato ribelli come questi se avessero osato non essere d’accordo con il loro re. Siete tutt’altro che un uomo qualunque.»

Leo azzardò un’occhiata nello specchietto retrovisore. «Senza offesa» disse all’autista.

«Non mi offendo» rispose prontamente lui. «Non sono sicuro di aver capito bene tutto quello che ha detto.»

Leo ridacchiò di nuovo, e poi il suo stomaco entrò in azione. «Quello che io so per certo è che sono affamato.»

«Ha fatto colazione nella suite dell’hotel.» Giles non alzò nemmeno lo sguardo. Sfogliava le carte del suo dossier.

«Ho di nuovo fame» si lamentò Leo, suonando simile alla sua bambina di cinque anni prima di andare a letto.

«Naturalmente» disse Giles sottovoce ma abbastanza forte perché Leo potesse sentirlo. «Ci siamo quasi. Sono certo che ci sarà da mangiare in abbondanza.»

Sebbene Leo indossasse la corona e sedesse su un trono, sentiva che la sua vita non era mai stata sua. Prima che fosse Giles a gestire i suoi programmi, erano stati i suoi genitori a pianificare ogni sua mossa. A volte si chiedeva se il castello immerso tra le nuvole dove risiedeva non fosse in realtà una gabbia dorata.

Si rivolse di nuovo allo scenario di New York che aveva davanti. Quando la macchina svoltò in una strada laterale, ai suoi occhi apparve un castello. O qualcosa che si avvicinava a un castello. Invece delle torrette, la tenda parasole ricordava la crosta di una torta salata. L’insegna sopra la porta identificava il negozio come il Peppers’ Pies.

Fuori dalla vetrina c’era un cartello che accoglieva i dignitari dei molti paesi presenti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si teneva a pochi isolati di distanza. L’auto si mosse abbastanza lentamente da permettere a Leo di leggere le offerte speciali del giorno. Nel menu c’erano torte di carne australiane, bundevara serbe e... possibile?

«Accosta» disse Leo.

«Vostra Maestà, non abbiamo tempo.»

Leo rivolse uno sguardo al cruscotto. Avevano ancora un’ora intera prima del suo discorso. A Giles piaceva semplicemente essere estremamente in anticipo a tutti gli eventi per scongiurare ogni possibilità di catastrofe. Non ce n’era mai stata una.

«Puoi riservare al tuo re un momento per soddisfare i suoi bisogni più elementari.»

Giles sbuffò di nuovo ma cedette.

L’autista si fermò e parcheggiò proprio davanti al negozio di torte. Non era esattamente un parcheggio regolare, ma la targa diplomatica offriva loro un minimo margine di manovra.

Leo si allungò verso la maniglia della portiera, ma Giles lo batté sul tempo, saltò fuori dall’auto e si trovò dall’altra parte del veicolo prima che i piedi di Leo toccassero terra.

«Non c’è bisogno che entriate e provochiate un gran trambusto» disse Giles. «Posso ordinare io per voi ciò che volete. Così potremo ripartire quanto prima.»

La presenza di Leo per strada avrebbe potuto causare un po’ di confusione a Cordoba, dove la gente sapeva chi e cosa fosse. Ma lì, per le strade di New York, nessuno gli avrebbe rivolto nemmeno mezza occhiata. Tuttavia, Giles lo guardò male quando Leo scese dall’auto.

«Sono sicuro che andrà tutto bene» disse Leo.

«Mi permetta un po’ di scetticismo, Maestà» gli rispose Giles. «Cosa ne dice di aspettare vicino alla macchina?»

«Va bene» disse Leo, e sbuffò a sua volta. Sarebbe stato fuori a respirare l’aria fresca e vagamente puzzolente per qualche istante.

Con un altro sbuffo, Giles si voltò ed entrò.

Leo volse lo sguardo e osservò la terra degli Uomini Liberi. Sollevò la testa verso il cielo. Con gli occhi alzati tra gli enormi edifici, si sentiva piccolo. Guardando in mezzo al mare di gente, si sentiva insignificante.

Una persona lo sfiorò, urtandogli la spalla. «Attento!» gli urlò dietro quell’uomo.

Leo non reagì a quell’affronto. Non aveva mai sperimentato la maleducazione in prima persona. Fu un’esperienza nuova, e scelse di riderci sopra. Il che non rese più felice la persona che si stava allontanando, che si accigliò e continuò a camminare.

Alcune donne superarono Leo. Lo scrutarono dall’alto in basso. Gli sguardi che gli lanciarono da sopra le spalle andarono a segno. Avrebbe potuto approfittarne. Ma, ovviamente, non lo fece.

A parte essere il padre di una bambina, Leo non era mai stato un tipo da una botta e via. A differenza di suo fratello. Per tutta la vita, Leo era stato un tipo da una donna sola. E poiché era stato fidanzato dalla nascita, era rimasto fedele all’unica donna a cui aveva fatto le sue promesse.

L’unica donna che avesse mai baciato era stata la sua defunta moglie. La prossima donna che avrebbe baciato avrebbe avuto lo stesso titolo e la stessa responsabilità. Era il suo destino. Uno che accettava.

Leo si voltò e guardò la strada. Il traffico era diminuito nei pochi minuti da quando avevano parcheggiato. I veicoli ancora una volta si muovevano prossimi al limite di velocità. Tranne che ai semafori e agli attraversamenti pedonali.

All’incrocio davanti a lui, una donna abbassò gli occhi verso il suo telefono. I pedoni si erano allontanati dal centro della strada ed erano al sicuro sul marciapiede. Ma quella donna non prestava attenzione alla mano rossa che, nel semaforo, le faceva segno di fermarsi. Era troppo concentrata sul cellulare.

Un furgone svoltò l’angolo, procedendo a forte velocità. La donna continuava a guardare in basso. Dall’angolo in cui lei si trovava, Leo capì che era nel punto cieco dell’autista. Nessuno dei due vedeva l’altro sulla sua strada.

Forse fu il sangue guerriero dei suoi antenati moreschi. O lo spirito avventuroso dei suoi antenati Conquistadores. Oppure fu l’arroganza degli aristocratici francesi nel suo albero genealogico a prendere il sopravvento. Qualunque cosa lo mise in moto, Leo non pensò. Si limitò ad agire.

Si precipitò intorno alla macchina e in strada. Con nemmeno un secondo da perdere, mise le braccia intorno alla donna e la tirò a sé. Una frazione di secondo più tardi, il paraurti del furgone occupò lo spazio in cui lei si era trovata. La forza dello strattone di Leo e l’impatto del corpo di lei che si schiantava contro il suo li fece finire entrambi a terra.

La donna gridò di sorpresa. I freni del furgone stridettero in segno di protesta. Leo grugnì mentre cadeva sulla schiena con la donna sopra di lui.

«Oh, mio Dio» sussurrò lei. «Oh, mio Dio. Oh, mio Dio.»

Alzò lo sguardo verso il furgone che era a meno di mezzo metro da loro. Abbassò lo sguardo su Leo che era disteso sotto di lei. Magari era stata l’esperienza di premorte, ma Leo avrebbe potuto giurare di aver visto delle stelline che le scintillavano sopra la testa.

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