«Oggi no» rispose il cane. «Ma lo farà.» La luce dorata era scomparsa cedendo al grigio del crepuscolo.
Shadow lasciò cadere nella tasca la moneta e la banconota ripiegata. «Va bene» disse. «Chi di voi due è Sciacallo?»
«Adopera gli occhi» rispose il cane nero con il muso lungo. E si incamminò per il marciapiede di fianco all’uomo con gli occhiali dalla montatura dorata e, dopo un attimo di esitazione, Shadow li seguì. Il gatto non c’era più. Arrivarono davanti a un antico palazzo in una strada dove tutti gli edifici sembravano disabitati. Sul cartello vicino alla porta c’era scritto IBIS JACQUEL. POMPE FUNEBRI. IMPRESA FAMILIARE FONDATA NEL 1863.
«Io sono il signor Ibis» disse l’uomo con gli occhiali dalla montatura dorata. «Credo di doverle offrire un boccone per cena. Temo che il mio amico qui abbia del lavoro da sbrigare.»
Chissà dove, sempre in America
Salim ha paura di New York, perciò stringe al petto la valigetta del campionario con tutte e due le mani, come per proteggerla. Ha paura dei neri, del modo in cui lo fissano, ha paura degli ebrei -quelli tutti vestiti di nero con i capelli e le barbe e i riccioli che riesce a riconoscere, e chissà quanti altri ebrei non riconosce — e ha paura dell’enorme quantità di gente, gente di tutte le forme e misure, che si riversa sui marciapiedi dagli altissimi palazzi sudici; ha paura del fracasso del traffico e ha paura anche dell’aria che odora insieme di sporcizia e di qualcosa di dolce, e non somiglia per niente all’aria dell’Oman.
Salim è a New York, in America, da una settimana. Ogni giorno visita due o qualche volta tre uffici diversi, apre la valigetta, mostra i ninnoli di rame, gli anelli, le bottigliette e le minuscole torce elettriche, i modellini dell’Empire State Building, della Statua della Libertà, della Torre Eiffel, con il rame scintillante all’interno; ogni sera scrive un fax a suo cognato Fuad, nella casa di Muscat, per dirgli che non ha ricevuto ordinazioni oppure, in una felice occasione, di aver fatto alcuni ordini (ma ancora insufficienti — Salim ne è dolorosamente consapevole — a coprire le spese del biglietto aereo e dell’albergo).
Per motivi che a Salim risultano oscuri i soci d’affari del cognato lo hanno sistemato all’Hotel Paramount, sulla Quarantaseiesima. Salim è disorientato in un posto così costoso ed estraneo, soffre di claustrofobia.
Fuad è il marito di sua sorella. Non è ricco, però è comproprietario di una piccola fabbrica di cianfrusaglie, oggetti prodotti per l’esportazione in altri paesi arabi, in Europa, in America. Salim lavora per il cognato da sei mesi. Fuad gli fa un po’ paura. Il tono dei suoi fax diventa ogni giorno più duro. La sera Salim se ne sta seduto nella stanza d’albergo a leggere il Corano, a dirsi che tutto passa, e anche il suo soggiorno in questo nuovo mondo è limitato nel tempo.
Suo cognato gli ha dato mille dollari per le spese di viaggio, e sembravano una somma enorme, in un primo momento, ma adesso si stanno volatilizzando sotto i suoi occhi increduli. Appena arrivato dava la mancia a chiunque, banconote da un dollaro a tutti quelli che incontrava, per timore di essere giudicato un arabo pezzente; poi si era reso conto che si approfittavano di lui, che forse gli ridevano addirittura dietro, e aveva smesso di dare mance del tutto.
La prima e unica volta che aveva preso la metropolitana si era perso ed era arrivato troppo tardi all’appuntamento; ora prende il taxi solo se è necessario, e per il resto del tempo si sposta a piedi. Incespica dentro uffici surriscaldati, le guance insensibili per il freddo, sudato sotto il cappotto, le scarpe inzuppate di pioggia fangosa, e quando il vento soffia lungo le avenue (che vanno da nord a sud, mentre le strade vanno da ovest a est, tutto molto semplice, così Salim sa sempre dov’è La Mecca) il freddo che lo colpisce sulle parti di pelle più esposta è così intenso da fargli credere che lo stiano picchiando.
Non mangia mai in albergo (perché la camera è pagata dai soci di Fuad, ma al cibo deve provvedere da sé) e compera qualcosa nei negozi di falafel o in qualche piccola rosticceria, e per giorni lo porta su in camera nascondendolo sotto il cappotto, prima di capire che non gliene importa niente a nessuno. Eppure continua a fargli uno strano effetto entrare negli ascensori fiocamente illuminati con il sacchetto della spesa (deve sempre chinarsi e socchiudere gli occhi per trovare il pulsante del suo piano) e percorrere il corridoio fino alla stanzetta bianca dove è alloggiato.
Salìm è scombussolato. Il fax che lo ha accolto al suo risveglio era conciso e a toni alterni: sarcastico, severo, ferito. Salim li sta deludendo: sua sorella, Fuad, i soci di Fuad, il Sultanato dell’Oman, l’intero mondo arabo. Se non riesce a ottenere ordinazioni di merce Fuad non si sentirà più obbligato a tenerlo al proprio servizio. Era tutto nelle sue mani. L’albergo è troppo caro. Che cosa sta facendo Salim con i loro soldi, vive in America come un nababbo? Salim legge il fax in camera (in genere troppo calda e soffocante, ma siccome la sera prima aveva aperto la finestra, adesso è gelida), rimane seduto a lungo, sul volto un’espressione di infelicità totale.
Poi Salim va a piedi downtown con il campionario stretto al petto come se si trattasse di rubini e diamanti, si trascina nel freddo per un isolato dopo l’altro fino a quando, tra Broadway e la Diciannovesima, non raggiunge un tozzo edificio sopra un deli. Sale i quattro piani a piedi fino alla Panglobal Imports.
Gli uffici sono squallidi, però Salim sa che la Panglobal tratta la metà dei souvenir che entrano negli Stati Uniti dall’Estremo Oriente. Un vero ordine, un ordine significativo da parte della Panglobal, potrebbe riscattarlo, basterebbe a trasformare un fallimento in successo, e per questo lui prende posto su una scomoda sedia di legno nella saletta d’attesa con la valigetta del campionario in equilibrio sulle ginocchia, di fronte a una donna di mezza età con i capelli tinti di un rosso troppo forte che siede a sua volta dietro una scrivania e si soffia continuamente il naso nei kleenex. Dopo essersi soffiata il naso lo tampona, poi lascia cadere il fazzolettino di carta nel cestino.
Salim è arrivato alle dieci e mezzo del mattino, mezz’ora prima dell’appuntamento. Se ne sta seduto, tutto paonazzo e tremante, chiedendosi se non gli sia venuta la febbre. Il tempo passa molto lentamente.
Salim guarda l’ora. Poi si schiarisce la gola.
La donna dietro la scrivania gli lancia un’occhiataccia. «Sì?» dice. Però suona "Di".
«Sono le undici e trentacinque» annuncia Salim.
La donna guarda l’orologio a parete e ripete «Dì. È dodì.»
«Avevo un appuntamento per le undici» dice Salim con un sorriso conciliatorio.
«Il signor Blanding sa che lei è qui» gli risponde la donna in tono di riprovazione. ("Il didor Bladding da che lei è qui.")
Salim prende dal tavolino una vecchia copia del "New York Post". Parla l’inglese meglio di quanto lo legga, e arranca da un articolo all’altro come se facesse le parole crociate. Aspetta, giovanotto paffuto con lo sguardo da cucciolo abbandonato, e studia l’orologio, il giornale e l’orologio a muro.
Alle dodici e mezzo alcuni uomini escono da un ufficio. Parlano a voce alta, farfugliano tra loro in americano. Un uomo grande e grosso con la pancia tiene in bocca un sigaro spento. Uscendo getta un’occhiata a Salim. Raccomanda alla donna dietro la scrivania di provare con succo di limone e zinco, perché sua sorella dice che la combinazione di zinco e vitamina C fa miracoli. Lei promette che lo farà e gli consegna alcune buste. L’uomo se le infila in tasca ed esce insieme agli altri. L’eco delle loro risate si dissolve lungo le scale.
È l’una. La donna dietro la scrivania apre un cassetto e ne estrae un sacchetto di carta marrone da cui sfila alcuni panini imbottiti, una mela e una merendina Milky Way. Tira fuori anche una bottiglietta di plastica che contiene spremuta d’arancia.
«Mi scusi» dice Salim, «potrebbe dire al signor Blanding che sto ancora aspettando?»
La donna lo guarda come se fosse sorpresa di vederlo ancora lì, come se non fossero stati seduti per due ore e mezzo a poco più di un metro di distanza. «È andato a mangiare» dice. ("E addato a maddare.")
Salim lo sa, sa per istinto che Blanding era l’uomo con il sigaro spento in bocca. «Quando torna?»
La donna scrolla le spalle, addenta il panino. «Sa, ha da fare per il resto della giornata» dice. ("Addare ber il reddo della domata.")
«Mi riceverà, quando torna?» domanda Salim.
Lei scrolla le spalle, si soffia il naso.
Salim ha fame, è sempre più affamato, frustrato e impotente.
Alle tre la donna lo guarda e dice: «Dod doderà.»
«Prego?»
«Il didor Bladdig. Oddi dod dodderà.»
«Posso prendere un appuntamento per domani?»
La donna si asciuga il naso. «Debe dedefonade. Li abbundamendi di prendono doldando per dedefono.»
«Capisco» risponde Salim. E poi sorride: un rappresentante, gli ha ripetuto Fuad prima che partisse da Muscat, in America è nudo, senza il suo sorriso. «Telefonerò domani» dice. Prende la valigetta del campionario e percorre tutte le rampe di scale fino alla strada, dove la pioggia gelata si sta trasformando in nevischio. Salim medita sulla lunga camminata fino all’albergo sulla Quarantaseiesima, sul peso del campionario, e scende dal marciapiede per chiamare con un cenno tutti i taxi gialli che passano, indipendentemente dal fatto che abbiano la luce accesa o spenta, ma nessuno si ferma.
Un taxi addirittura accelera, passandogli davanti, schizzandolo di fangosa acqua gelata sui pantaloni e sul cappotto. Per un attimo Salim prende in considerazione l’idea di gettarsi sotto le ruote di una di quelle vetture che avanzano goffe, però si rende conto che il cognato si preoccuperebbe più della sorte del campionario che della sua, e sa che nessuno, a parte l’amata sorella, soffrirebbe per la sua perdita (Salim ha sempre costituito ragione di lieve imbarazzo per i genitori, e i suoi incontri romantici sono sempre stati necessariamente brevi e piuttosto clandestini); inoltre dubita del fatto che quelle macchine vadano abbastanza veloci per mettere fine alla sua vita.
Un malconcio taxi giallo si avvicina e si ferma, Salim sale, lieto di poter abbandonare quel corso di pensieri.
Il rivestimento del sedile posteriore è stato rattoppato con nastro adesivo grigio; la barriera di plexiglas, semiaperta, è coperta di cartelli "Vietato fumare", e di altri che indicano i costi delle corse per i diversi aeroporti. La voce registrata di qualcuno famoso che Salim non ha mai sentito nominare gli ricorda che deve mettersi la cintura di sicurezza.
«All’Hotel Paramount, per favore» dice.
Il tassista si lancia nel traffico con un grugnito. Ha la barba lunga e porta un maglione pesante, color polvere, e un paio di occhiali neri di plastica. È una giornata grigia, e sta scendendo la sera: Salim si domanda se l’uomo abbia qualche problema agli occhi. I tergicristallo trasformano la strada in una macchia confusa di grigio e colpi di luce.
Proprio davanti a loro spunta dal nulla un camion e il tassista impreca per la barba del Profeta.
Salim cerca di leggere il nome sul cruscotto, ma non riesce a decifrarlo. «Da quanto tempo fai questo lavoro, amico?» gli chiede nella sua lingua.
«Dieci anni» risponde l’altro nello stesso idioma. «Da dove vieni?»
«Da Muscat» dice Salim. «Nell’Oman.»
«Oman. Ci sono stato, nell’Oman. Tanto tempo fa. Hai sentito parlare della città di Ubar?»
«Certamente» risponde Salim. «La Città Perduta delle Torri. Ne hanno trovato i resti nel deserto cinque o dieci anni fa, non ricordo. Eri nella spedizione che ha fatto gli scavi?»
«Diciamo di sì. Era una bella città» dice il tassista. «Certe notti c’erano fino a tre o quattromila persone accampate: tutti i viaggiatori si fermavano a Ubar, e si faceva musica e il vino scorreva come acqua e anche l’acqua scorreva abbondante dando alla città la possibilità di esistere.»
«L’ho sentito anch’io» dice Salim. «Quando è caduta? Mille o duemila anni fa?»
Il tassista non risponde. Sono fermi a un semaforo. Quando la luce diventa verde però il tassista non riparte malgrado l’immediato coro discordante di clacson alle loro spalle. Esitante, Salim fa passare un braccio attraverso il buco nel plexiglas e gli tocca una spalla. L’uomo alza di scatto la testa e preme l’acceleratore per attraversare lentamente l’incrocio.
«Cazzocazzomerda» esclama in inglese.
«Devi essere molto stanco, amico.»
«Guido questo taxi-dimenticato-da-Allah da trenta ore» dice il tassista. «È troppo. E prima avevo dormito cinque ore, e prima ancora avevo guidato per quattordici ore. Siamo a corto di personale, sotto Natale.»
«Spero che tu stia guadagnando un sacco di soldi» dice Salim.
L’uomo sospira. «Non molti. Stamattina ho portato un cliente dalla Cinquantunesima fino all’aeroporto di Newark. Appena arrivati è saltato giù e si è messo a correre e non sono riuscito a trovarlo. Una corsa da cinquanta dollari persa e rientrando in città ho dovuto pagare il pedaggio del tunnel di tasca mia.»
Salim annuisce. «Io ho passato la giornata aspettando di essere ricevuto da un uomo che non aveva nessuna intenzione di ricevermi. Mio cognato mi odia. Sono in America da una settimana e non ho fatto altro che spendere soldi. Non riesco a vendere niente.»
«Che cosa vendi?»
«Porcherie» dice Salim. «Inutili gingilli e brutti souvenir. Porcherie ignobili, brutte, cretine.»
Il tassista sterza sulla destra, aggira un ostacolo e prosegue. Salim si chiede come faccia a guidare con la pioggia, al buio e con gli occhiali neri.
«Cerchi di vendere porcherie?»
«Sì» dice Salim, eccitato e insieme orripilato all’idea di aver finalmente dichiarato ciò che pensa del campionario del cognato.
«E non te le comprano?»
«No.»
«Strano. Se guardi le vetrine dei negozi, sembra che non si venda altro.»
Salim sorride nervosamente.
Un camion sta bloccando la strada: un poliziotto con la faccia rossa in piedi davanti al mezzo gesticola, grida e fa segno di imboccare un’altra strada.
«Andiamo fino all’Ottava e risaliamo verso uptown da quella parte» dice il tassista. Svoltano e scoprono che il traffico è completamente bloccato. Risuonano cacofonici i clacson, ma le automobili rimangono ferme.
Il tassista ciondola sul sedile e il mento gli si piega contro il petto, una, due, tre volte. Poi, gentilmente, comincia a russare. Salim si protende per toccarlo, per svegliarlo, augurandosi di fare la cosa giusta. Mentre lo scuote per una spalla l’uomo si sposta e la mano di Salim gli sfiora la faccia, facendogli inavvertitamente cadere gli occhiali in grembo.
Il tassista apre gli occhi, riprende gli occhiali e se li rimette, ma è troppo tardi. Salim ha visto i suoi occhi. La macchina avanza di pochi metri sotto la pioggia. I numeri scattano sul tassametro.
«Mi ucciderai?» chiede Salim.
L’uomo tiene le labbra strette e Salim lo osserva attraverso lo specchietto retrovisore.
«No» gli dice a voce bassissima.
Sono di nuovo fermi. La pioggia picchietta sul tetto.
Salim comincia a parlare. «Una sera tardi mia nonna è tornata a casa raccontando di aver visto un ifrit, o forse un marid, nel deserto. Noi le abbiamo detto che doveva essersi trattato di una tempesta di sabbia, o del vento, ma lei giurava, diceva di no, diceva di averlo visto in faccia e che nei suoi occhi bruciavano fiamme, come nei tuoi.»
Il tassista sorride, ma siccome gli occhiali scuri gli nascondono gli occhi Salim non sa dire se in quel sorriso ci sia davvero un po’ di buon umore. «Anche le nonne vengono qui» dice.
«Ci sono molti jinn a New York?» chiede Salim.
«No. Non siamo in molti.»
«Ci sono gli angeli, e ci sono gli uomini, che Allah ha creato dal fango, poi c’è il popolo del fuoco, i jinn» dice Salim.