American Gods - Neil Gaiman 37 стр.


«Ti conosco» disse Shadow, «sei…» e stava per dire la ragazzina dell’Alka-Seltzer ma si fermò in tempo, «l’amica di Alison. Sul Greyhound. Spero che torni presto.»

La ragazza tirò su col naso e annuì. «Anch’io.» Soffiò forte il naso in un fazzoletto di carta che infilò nella manica.

Portava una patacca con la scritta: CIAO! MI CHIAMO SOPHIE! CHIEDIMI COME SI FA A PERDERE 10 CHILI IN UN MESE!

«Ho passato la giornata a cercarla. Ancora niente.»

Sophie annuì e trattenne una nuova ondata di lacrime. Passò il cartone del latte davanti allo scanner che ne lesse il prezzo con un cinguettio elettronico. Shadow le diede due dollari.

«Io me ne vado da questa città di merda» disse la ragazza all’improvviso, con voce soffocata. «Vado a vivere da mia mamma a Ashland. Adesso è scomparsa Alison. Sandy Olsen è sparito l’anno scorso. Jo Ming l’anno prima. E se l’anno prossimo toccasse a me?»

«Credevo che Sandy Olsen fosse stato rapito dal padre.»

«Sì» ribatté lei con amarezza. «Certo. E Jo Ming è andata in California e Sarah Lindquist si è persa durante un’escursione e non l’hanno mai ritrovata. Può darsi. Comunque io voglio andare a Ashland.»

Inspirò e trattenne un momento il fiato. Poi, inaspettatamente, gli sorrise. Non c’era niente di falso in quel sorriso. Le avevano detto che quando dava il resto doveva sorridere, e lei sorrideva. Gli augurò una buona serata. Poi si dedicò alla cliente con il carrello pieno, cominciò a svuotarlo e a passare i prodotti davanti allo scanner.

Shadow prese il latte e tornò al volante, superò la pompa di benzina e la bagnarola sul lago, oltre il ponte verso casa.

L’arrivo in America

1778

C’era una ragazza che fu venduta dallo zio, scrisse il signor Ibis nel suo bel corsivo regolare.

Questa è la sostanza, il resto sono dettagli.

Vi sono storie che se le si ascolta con il cuore aperto feriscono troppo profondamente. Sentite. Ecco un uomo, una brava persona secondo i suoi stessi canoni, e anche secondo i suoi amici: fedele e sincero con la moglie, adora i figli e li copre d’attenzioni, si preoccupa delle sorti del suo paese, svolge con puntiglio il lavoro, nel miglior modo possibile. Quindi, efficiente e ben disposto, stermina ebrei: apprezza la musica che viene diffusa nei campi per tenerli tranquilli; consiglia loro di non dimenticare i numeri di identificazione, quando entrano nelle docce… molti se li dimenticano, spiega, si dimenticano i numeri e all’uscita prendono i vestiti sbagliati. Questo discorso li calma. Allora ci sarà ancora vita dopo le docce, si dicono gli ebrei per confortarsi. Il nostro uomo supervisiona i dettagli dell’operazione di trasporto dei corpi ai forni crematori; se ha un rammarico è quello di non essere del tutto insensibile al fatto di mandare quella feccia nelle camere a gas. Sa che se fosse davvero un uomo probo non proverebbe che gioia all’idea di ripulire la terra dei suoi parassiti.

C’era una ragazza che fu venduta dallo zio. Messa così sembra molto semplice.

Nessun uomo, dichiarò Donne, è un’isola, e si sbagliava. Se non fossimo isole andremmo alla deriva, coleremmo a picco nelle altrui tragedie. Siamo isolati (non bisogna dimenticare che "isolare" viene da isola) dai drammi delle vite altrui grazie alla nostra natura insulare e alla ripetitività delle storie. La struttura non cambia mai: c’era un essere umano che nacque, visse e per un motivo o per l’altro morì. Ecco. Per i dettagli ciascuno di noi si può ispirare alla propria esperienza. Banale come ogni storia, come ogni esistenza unica. Le vite sono come i fiocchi di neve dalle forme sempre diverse, identici tra loro come piselli nel baccello (avete mai guardato in un baccello? Voglio dire avete mai guardato davvero i piselli? Dopo un’ispezione ravvicinata confonderli risulterebbe impossibile) ma pur sempre unici.

In assenza degli individui vediamo soltanto numeri: un migliaio di morti, centomila morti, "le perdite potrebbero salire a un milione". Grazie alle storie individuali le statistiche diventano persone, ma anche questa è menzogna, perché il numero di persone che continua a soffrire è già in sé assurdo, privo di significato. Guarda, la vedi la pancina gonfia del bambino, e le mosche che gli zampettano negli angoli degli occhi, le membra scheletriche?: ti renderà le cose più facili sapere il suo nome, l’età, conoscerne i sogni, le paure? Vederlo da "dentro"? E se così fosse, non faremmo forse un torto a sua sorella, sdraiata vicino a lui nell’arida polvere, caricatura gonfia e deforme di un cucciolo nato da donna? E se per loro proviamo un sentimento, diventano forse, questi due, più importanti delle migliaia d’altri bambini affamati dalla stessa carestia, delle migliaia di giovani vite condannate a diventare ben presto nutrimento per la miriade di larve figlie di quelle mosche?

Isoliamo momenti di dolore come questi e rimaniamo sulla nostra isola dove non possono farci male più di tanto. Li chiudiamo nella loro conchiglia di madrcperla e li lasciamo scivolare via dall’anima senza soffrire veramente.

La narrativa ci permette di entrare in altre menti, in altri luoghi, di guardare con altri occhi. E poi nel racconto ci fermiamo, prima di morire, oppure un sostituto muore per noi, che restiamo in buona salute, e nel mondo di là della storia voltiamo pagina o chiudiamo il libro, tornando alla nostra esistenza.

Una vita che come ogni vita è uguale e diversa da qualsiasi altra.

E la verità nuda e cruda è questa: C’era una ragazza che fu venduta dallo zio.

Così dicevano, nel posto da cui veniva: nessuno può sapere con certezza chi è il padre, ma della madre, ah, di lei non si può dubitare. Lignaggio e proprietà erano matrilineari, però il potere restava in mani maschili: un uomo poteva disporre completamente dei figli di sua sorella.

In quel luogo c’era la guerra, una guerra piccola, poco più di una scaramuccia tra gli uomini di due villaggi rivali. Quasi una lite di vicinato. Un villaggio aveva la meglio, l’altro aveva la peggio.

La vita come merce, le persone come oggetti. Da migliaia di anni la schiavitù apparteneva alla cultura di quelle zone del mondo. I mercanti di schiavi arabi avevano distrutto l’ultimo dei grandi regni dell’Africa Orientale, mentre in quella occidentale ci avevano pensato gli stati ad annientarsi a vicenda.

Non c’era niente di deplorevole o insolito nel fatto che lo zio vendesse i gemelli, anche se i gemelli erano considerati creature magiche, e lo zio ne aveva paura, abbastanza da non avvisarli che sarebbero stati venduti, nel caso attaccassero la sua ombra e lo uccidessero. Avevano dodici anni. Lei si chiamava Wututu, l’uccello messaggero, lui Agasu, dal nome di un re. Erano due bei bambini sani e siccome erano gemelli, un maschio e una femmina, erano state insegnate loro molte cose sugli dèi, e siccome erano gemelli ascoltavano gli insegnamenti e li ricordavano.

Lo zio era un uomo grasso e pigro. Se avesse avuto una mandria numerosa forse avrebbe rinunciato a un capo, invece di vendere i bambini, ma non l’aveva. Così vendette i gemelli. Basta parlare di lui: non comparirà più in questo racconto. Seguiamo i gemelli.

Vennero fatti marciare per una decina di chilometri insieme ad altre persone ridotte in schiavitù o comperate in guerra fino a un piccolo avamposto. Qui, durante la compravendita, i gemelli furono ceduti insieme ad altri tredici schiavi a sei uomini armati di lance e coltelli che li condussero a occidente, verso il mare, e poi per molti chilometri di marcia lungo la costa. Quindici schiavi con le mani legate, incatenati tutti insieme per il collo.

Wututu chiese al fratello Agasu che cosa ne sarebbe stato di loro.

«Non lo so» disse lui. Agasu sorrideva spesso: aveva i denti bianchi e perfetti e quando sorrideva brillavano, e il suo sorriso felice faceva felice anche Wututu. Ma adesso restava serio. Cercava di mostrarsi coraggioso per la sorella, la testa alta e le spalle diritte, fiero, minaccioso e buffo come un cucciolo che arruffava il pelo.

L’uomo subito dietro Wututu nella fila che aveva le guance coperte di cicatrici disse: «Ci venderanno ai diavoli bianchi che ci porteranno nella loro terra dall’altra parte dell’acqua».

«E che cosa ci faranno là?» domandò lei.

L’uomo non rispose.

«Dunque?» ripeté Wututu. Agasu si guardò alle spalle. Mentre camminavano non potevano parlare né cantare.

«È possibile che ci mangino» disse l’uomo. «Così mi è stato detto. Per questo hanno bisogno di tanti schiavi. Perché hanno sempre fame.»

Wututu cominciò a piangere. Agasu disse: «Non piangere, sorella. Non ti mangeranno. Io ti proteggerò. I nostri dèi ti proteggeranno».

Però Wututu continuava a piangere e a camminare con il cuore pesante, in preda a dolore, rabbia e paura come solo un bambino può sentirli: sentimenti crudi e travolgenti. Non riusciva a dire a suo fratello che non era preoccupata d’essere mangiata dai diavoli bianchi. Lei sarebbe sopravvissuta, ne era certa. Piangeva perché temeva che mangiassero lui e non era sicura di poterlo proteggere.

Arrivarono a una base commerciale dove vennero trattenuti per dieci giorni. La mattina del decimo giorno furono fatti uscire dalla capanna dov’erano stati imprigionati (molto affollata verso la fine, man mano che si riempiva di schiavi). Quando arrivarono al porto Wututu vide la nave che li avrebbe portati lontano.

Il suo primo pensiero fu di stupore per la grandezza della nave, il secondo che era troppo piccola per accoglierli tutti. Ondeggiava leggera sull’acqua. La scialuppa fece molti viaggi per imbarcare i prigionieri sulla nave dove vennero ammanettati e infilati sotto coperta dai marinai, alcuni dei quali avevano la pelle rossa come l’argilla o bruciata dal sole, strani nasi appuntiti e barbe che li facevano sembrare bestie feroci. Alcuni marinai avevano l’aspetto della sua gente, come gli uomini che li avevano portati fin lì. Uomini, donne e bambini furono separati, costretti in zone diverse. Siccome erano troppi, una dozzina di loro vennero incatenati all’aperto, sotto il posto dove i marinai legavano le amache.

Wututu finì con i bambini, non con le donne, e invece di essere incatenata fu soltanto rinchiusa. Agasu venne costretto in catene con gli uomini, stretti come sardine. Sotto coperta la puzza era terribile, benché dopo l’ultimo carico l’equipaggio avesse lavorato di ramazza. Era un odore che aveva impregnato il legno: odore di paura e bile, diarrea e morte, febbre, follia, odio. Wututu sedeva con gli altri bambini, tutti incollati uno all’altro. Un’onda le fece ruzzolare addosso un bambino che si scusò in una lingua a lei sconosciuta. Nella semioscurità cercò di sorridergli.

La nave levò l’ancora e prese il largo.

Wututu si chiedeva da dove venissero quegli uomini bianchi (sebbene nessuno fosse bianco davvero: bruciati dal sole e dal mare, avevano la pelle scura). Erano così sprovvisti di cibo da dover mandare a prendere gente fin nella sua terra? Oppure lei era una prelibatezza, un bocconcino per uomini che avevano assaggiato di tutto e solo la carne nera nella pentola faceva venir loro l’acquolina in bocca?

Durante il secondo giorno di navigazione la nave incontrò una tempesta, non di quelle brutte, ma il ponte rollava e beccheggiava e l’odore del vomito si mescolò a quello dell’urina, delle feci liquide e della paura. Dalle grate di aerazione sulla coperta, dov’erano stivati gli schiavi, la pioggia cadeva su di loro a secchiate.

Dopo una settimana di viaggio, ormai molto lontani da terra, gli schiavi furono liberati dai ferri. Ogni disobbedienza, spiegarono, ogni guaio sarebbe stato punito con una severità che non immaginavano nemmeno.

Al mattino venivano nutriti con fagioli e gallette, più un cucchiaio ciascuno di succo di lime e aceto, talmente aspro da provocare smorfie e accessi di tosse; alcuni sputacchiavano e piangevano quando gli veniva ficcato in bocca. Però non potevano sputarlo: se li sorprendevano a sputarlo o a lasciarlo colare fuori venivano frustati o bastonati.

La sera mangiavano carne salata. Aveva un sapore sgradevole, e sulla superficie grigia c’era una patina con i colori dell’arcobaleno. Questo all’inizio. Nel corso del viaggio peggiorò.

Ogni volta che era possibile Wututu e Agasu si stringevano vicini, parlavano della mamma, della casa e dei compagni di gioco. A volte lei raccontava al fratello storie che la loro madre le aveva raccontato, come la storia di Elegba, il più scaltro degli dèi, che prestava occhi e orecchi al Grande Mawu, che gli portava messaggi dal mondo e riportava al mondo le sue risposte.

La sera, per ammazzare il tempo, i marinai permettevano agli schiavi di cantare ed esibirsi nelle danze.

Wututu era stata fortunata a finire con i bambini. Venivano ammassati insieme e ignorati; le donne non erano altrettanto fortunate. Su certe navi negriere le schiave venivano violentate in continuazione dall’equipaggio, un tacito privilegio stabilito in partenza. La loro non era quel genere di nave, il che tuttavia non significa che episodi di violenza non si verificassero.

Morirono in un centinaio tra uomini, donne e bambini, e vennero buttati in mare; in alcuni casi vennero buttati in mare anche schiavi ancora vivi, e ci pensò l’abbraccio verde e freddo dell’oceano a spegnere la loro ultima febbre mandandoli a picco mentre annaspavano impotenti.

La nave su cui viaggiavano Wututu e Agasu era olandese, ma loro non lo sapevano, avrebbe anche potuto essere britannica, portoghese o spagnola, o francese, per loro.

Erano gli uomini dell’equipaggio che avevano la pelle nera, perfino più nera di Wututu, a ordinare ai prigionieri dove andare, cosa fare, quando danzare. Un mattino Wututu vide che uno di loro la stava fissando. Mentre mangiava lui le si avvicinò e rimase a fissarla senza parlare.

«Perché lo fai?» gli chiese lei. «Perché servi i diavoli bianchi?»

Lui rispose con una smorfia, come se quella fosse la domanda più buffa mai sentita. Poi si piegò su di lei fin quasi a sfiorarle l’orecchio, fino a nausearla con il suo alito. «Se tu fossi più grande» le disse «ti farei gridare di piacere. Magari stanotte lo faccio. Ho visto come balli.»

Lei lo guardò con i suoi occhi color nocciola e imperturbabile, quasi sorridendo, gli disse: «Se ci provi io te lo stacco con i denti che ho lì dentro. Sono una strega, e i miei denti sono affilati». Si gustò il piacere di vedergli cambiare espressione. L’uomo si allontanò senza dire niente.

Le parole le erano uscite di bocca ma non erano farina del suo sacco: non le aveva pensate né formulate. No, erano dello scaltro Elegba. Mawu aveva creato il mondo e poi, grazie agli imbrogli di Elegba, aveva smesso di interessarsene. Era stato Elegba l’astuto con l’erezione dura come il ferro che aveva parlato attraverso di lei, che le era entrato dentro per un momento, e prima di addormentarsi, quella sera, lei gli rese grazie.

Molti prigionieri rifiutavano il cibo. Venivano frustati fino a quando non si decidevano a ingoiare quello che gli veniva cacciato in bocca a forza, anche se le frustate erano talmente tante che due di loro ne morirono. Nessun altro cercò di conquistare la libertà lasciandosi morire di fame. Un uomo e una donna provarono a uccidersi buttandosi in acqua. La donna ci riuscì. L’uomo venne tratto in salvo, legato a un albero e frustato per ore e ore fino a quando la sua schiena non fu un’unica piaga. Lo lasciarono legato all’albero giorno e notte, senza cibo e senz’acqua, solo il suo piscio se aveva sete. Entro tre giorni delirava, la testa gli era diventata gonfia e molle come un melone troppo maturo. Quando smise di vaneggiare lo gettarono in mare. Dopo quel tentativo di fuga, ai prigionieri vennero rimessi ceppi e catene per cinque giorni.

Fu un viaggio lungo, tremendo per i prigionieri e spiacevole per i membri dell’equipaggio che pure si erano fatti il cuore duro e fingevano d’essere allevatori che portavano il bestiame al mercato.

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