Falk si inginocchiò sulla slitta, una macchina piccola ed elegante, intarsiata con un arabesco tridimensionale di filo di platino. La decorazione non facilitava certo il controllo dei comandi, ma Falk aveva giù guidato una slitta nei pressi della Casa di Zove, e dopo aver studiato gli archi di comando per un minuto, toccò l'arco di sinistra e mosse le dita su quello finché la slitta si alzò silenziosamente a un'altezza di circa mezzo metro, poi con l'arco di destra la fece muovere, e portò la piccola macchina attraverso il cortile e la riva, finché venne a trovarsi sul ghiaccio schiumoso del fiume, sotto la capanna. Si voltò allora, per salutare, ma il vecchio era già tornato dentro e aveva chiuso la porta. Quando spinse senza rumore il veicolo giù per la grande strada d'acqua del fiume, l'enorme silenzio tornò a chiudersi intorno a lui.
Banchi di nebbia gelata erano ammassati sulle ampie curve dell'acqua, davanti a lui e dietro di lui. Terra, alberi e cielo erano tutti bigi, per il ghiaccio e la nebbia. Soltanto l'acqua, che gli scivolava accanto un poco più lenta della slitta, aveva un colore scuro. Quando, il giorno dopo, cominciò a cadere la neve, i fiocchi apparivano scuri guardando verso il cielo, e bianchi a contrasto dell'acqua, dove svanivano, cadevano senza fine e svanivano nella corrente senza fine.
Viaggiando in quel modo, la velocità era due volte maggiore che a piedi, ed era più sicuro e più facile — anche troppo facile, monotono, ipnotico. Falk era sempre felice quando scendeva a terra per cacciare o accamparsi. Gli uccelli acquatici erano numerosissimi, quasi gli volavano in mano, e gli animali che scendevano al fiume ad abbeverarsi gli davano solo un'occhiata, come se lui con la sua slitta fosse una gru o un airone che volava basso, e lasciavano fianchi e petti senza difesa davanti alla sua pistola di cacciatore. Gli restava solo da scuoiare, tagliare a pezzi, cuocere, mangiare, e costruirsi un piccolo riparo per la notte, contro la neve o la pioggia, fatto di rami e corteccia. La slitta, con la prua sollevata, faceva da tetto; dormiva, all'alba mangiava carne fredda avanzata dalla sera prima, beveva al fiume, e riprendeva ad andare avanti. E avanti ancora.
Per far passare quelle ore di viaggio, in cui non aveva nulla da fare, imparò alcuni giochi con la slitta. La faceva alzare a più di cinque metri di altezza, finché il vento e il variare degli strati riducevano quasi a zero la solidità del cuscino d'aria, la slitta oscillava e tendeva a rovesciarsi se non compensava rapidissimamente la oscillazione con i comandi e il peso del corpo. Oppure la faceva scendere fino a pelo d'acqua, creando un selvaggio movimento di schiuma e spruzzi, e la slitta picchiava e saltava e rimbalzava sul fiume, impennandosi come un puledro. Un paio di brutte cadute non fecero desistere Falk da quel divertimento. La slitta si rimetteva automaticamente all'altezza di un piede, quando non era sotto il controllo del guidatore, e quando cadeva fuori doveva soltanto tornare a bordo, andare a riva e accendere il fuoco, se aveva fatto un bagno gelato, altrimenti proseguiva, semplicemente. I suoi vestiti erano impermeabili, e dopo tutto nel fiume non si bagnava molto più che sotto la pioggia. I vestiti di stoffa invernale gli davano sempre un certo tepore, senza mai opprimerlo di caldo. I fuochi che accendeva alla sera gli servivano solo per cucinare. Non si sarebbe trovata abbastanza legna secca in tutta la Foresta Orientale, probabilmente, per fare un buon falò, dopo quei lunghi giorni di pioggia, nevischio, nebbia, e ancora pioggia.
Divenne abilissimo a far saltare la slitta giù per il fiume, in una serie di balzi lunghi e pesanti, e rimbalzi laterali, che si concludevano con un colpo secco e una grande ondata di schiuma. Il rumore che faceva con queste operazioni gli dava piacere, perché interrompeva il silenzio monotono della navigazione tra alberi e colline. Stava appunto procedendo a rimbalzi, guidando i cambiamenti di direzione con delicate oscillazioni degli archi di comando, quando passò una curva, e subito si fermò silenziosamente sospeso in aria. Più in giù, sulla grande distesa d'acqua dai riflessi di acciaio, c'era una barca che veniva verso di lui.
Le due imbarcazioni erano in piena vista, l'una rispetto all'altra; non era possibile scivolar via inosservati, dietro un riparo di rami d'albero. Falk si distese sulla slitta, con la pistola spianata, e puntò verso la riva destra del fiume, alta circa tre metri, per assicurarsi il vantaggio tattico della posizione più elevata rispetto alla gente della barca.
Essi venivano avanti tranquilli, con una piccola vela triangolare. Quando furono più vicini il vento che soffiava contrario alla corrente del fiume gli portò il suono dei loro canti.
Si fecero ancora più vicini, senza nessun timore di lui, e sempre cantando.
Per quanto la sua breve memoria gli permetteva di ricordare, la musica l'aveva sempre trascinato, ma anche terrorizzato, gli dava una specie di delizia angosciosa, un piacere troppo vicino al tormento. Ascoltando il canto di una voce umana egli avvertiva più intensamente il fatto di non essere umano, che quel gioco di timbri, tempo e tono gli era estraneo, non una cosa dimenticata, ma una cosa nuova per lui, e al di là delle sue capacità. Ma quella cosa strana lo trascinava, e ora, senza volerlo, rallentò la slitta per ascoltare. Cantavano quattro o cinque voci insieme, alternandosi, separandosi, intessendosi una con l'altra, con una armonia più brillante di qualunque altra da lui mai udita. Le parole non le comprese. La foresta, quel miglio intorno di acqua grigia e cielo grigio, sembravano ascoltare come lui, in un silenzio intenso senza comprendere.
La canzone finì con uno scampanio di voci, e uno scoppio di risa e parole. La slitta e la barca erano molto vicine adesso, separate da cento metri o poco più. Un uomo alto e molto snello si alzò diritto a poppa e lanciò un richiamo verso Falk, con una voce chiara, che superava facilmente la distanza volando sull'acqua. Anche questa volta Falk non comprese nessuna parola. Nella luce azzurrina dell'inverno, i capelli dell'uomo, e quelli degli altri cinque o sei che erano sulla barca, brillavano di un color oro fulvo, tutti uguali, come fossero tutti parenti stretti, o fatti con un unico stampo. Le facce non si distinguevano con chiarezza, solo i capelli rosso-oro, e le figure snelle piegate in avanti, che ridevano e facevano gesti di saluto. Non riusciva nemmeno a capire bene quanti erano. Per un secondo, una faccia gli apparve con chiarezza, una faccia di donna, che lo guardava attraverso l'acqua corrente e il vento. Aveva rallentato la slitta fino a fermarsi in aria, e anche la barca sembrava immobile sul fiume.
— Vieni con noi — gridò un uomo, e questa volta, riconoscendo la lingua, Falk comprese. Era il linguaggio della vecchia Lega, il Galaktika. Come tutta la gente della foresta, Falk lo aveva imparato da nastri e libri, perché i documenti che ancora restavano della Grande Era usavano quella lingua ufficiale, comune a uomini di lingue differenti. Il dialetto della Foresta discendeva dal Galaktika, ma dopo più di mille anni era diventato decisamente differente, e del resto variava un poco da una Casa all'altra. Una volta alla Casa di Zove erano arrivati viaggiatori provenienti dalla costa del Mare Orientale, e parlavano un dialetto tanto diverso che furono costretti a rivolgersi ai padroni di casa in Galaktika, e quella era stata l'unica volta che Falk lo aveva sentito usare come lingua viva; altrimenti era solo una voce che usciva da un libro sonoro, o il mormorio del maestro — notturno, che gli restava nelle orecchie al risveglio, nell'oscurità di un'alba invernale. Assurdo e arcaico, ora quel linguaggio risuonava nella voce chiara del timoniere. — Vieni con noi, andiamo in città!
— Quale città?
— La nostra — gridò l'uomo, e rise.
— La città che accoglie a braccia aperte i viaggiatori — gridò un altro, con la voce tenorile che aveva brillato con toni dolcissimi nella canzone precedente; e aggiunse ancora: — Chi non viene con intenzione di far male non riceve alcun male tra noi. — E una donna gridò, come se sorridesse parlando: — Esci dalla foresta, viaggiatore, e ascolta la nostra musica per una notte.
Lo chiamavano con un nome che significava viaggiatore, ma anche messaggero.
— Chi siete voi? — chiese Falk.
Il vento soffiava e il grande fiume scorreva. La barca e la navicella volante erano sospese immobili nella corrente dell'aria e dell'acqua, unite e separate, come in un incantesimo.
— Siamo uomini.
Con questa risposta il fascino svanì, soffiato via come un suono dolce o un profumo nel vento dell'est. Falk risentì l'impressione di un uccello ferito che si dibatteva nelle sue mani gridando paròle umane con una penetrante voce inumana: ora, come allora, fu attraversato da un senso di gelo, e senza esitazione, senza nemmeno pensare, toccò l'arco d'argento e spinse avanti la slitta a tutta velocità.
Dalla barca non gli arrivò nessun suono, sebbene ora il vento soffiasse favorevole; dopo pochi attimi l'esitazione si impadronì nuovamente di lui, rallentò la slitta e guardò indietro. La barca era sparita. Non c'era nulla sull'ampia superficie dell'acqua, e la prima curva era molto lontana.
Dopo questo episodio, Falk smise di giocare a far salti sull'acqua, ma viaggiò con la massima accortezza e in silenzio; quella notte non accese nemmeno il fuoco, e stentò a prender sonno. Tuttavia, qualcosa di quel fascino gli restò. Le voci dolci avevano parlato di una città, elonaae nella vecchia lingua, e mentre puntava a sud, stando a mezz'aria, e in mezzo alla foresta, Falk pronunciò sospirando quella parola. Elonaae, il Luogo dell'Uomo: miriadi di uomini riuniti insieme, non un'unica casa, ma migliaia di case, grandi costruzioni per abitare, torri, mura, finestre, strade e i luoghi aperti dove le strade si incontrano, i magazzini commerciali di cui parlavano i libri, dove tutte le creazioni ingegnose delle mani degli uomini venivano costruite e vendute, i palazzi del governo dove i potenti si riunivano per discutere insieme delle grandi opere che stavano realizzando, le rampe di lancio, da cui navi schizzavano via attraverso gli anni, dirette verso soli alieni: la Terra aveva davvero partorito posti tanto meravigliosi come i Luoghi dell'Uomo?
Adesso era tutto finito. Restava soltanto Es Toch, il Luogo della Menzogna. Non esistevano città nella Foresta Orientale. Nessuna torre di pietra e acciaio e cristallo, affollata di anime, si innalzava tra gli acquitrini e i boschi di ontani, le tane dei conigli, le piste dei cervi, le autostrade perdute, le pietre rotte e sepolte.
Tuttavia la visione di una città rimase nella memoria di Falk, molto simile a un ricordo di qualcosa che egli un tempo conosceva. Da questo fatto comprese la potenza del richiamo, dell'inganno a cui era riuscito a sottrarsi indenne, e si domandò se avrebbe trovato molti altri di questi inganni e di queste esche, mentre marciava diritto a ovest, verso la loro fonte.
I giorni e l'acqua del fiume continuavano a scorrere, e lui insieme a loro, finché, in un pomeriggio ancora grigio, il mondo si aprì, lentamente, divenne sempre più vasto, un'ampiezza terribile, un'immensa pianura di acque fangose sotto un cielo enorme: la confluenza del Fiume della Foresta con il Fiume Interno. Non c'era da stupirsi che avessero sentito parlare del Fiume Interno anche nella profonda ignoranza del loro isolamento nelle Case, centinaia di miglia più a est; era una cosa tanto enorme che neppure gli Shing potevano nasconderla. Una vasta e brillante distesa di acqua giallo-grigia scorreva sopra le ultime cime e isolotti della Foresta, allagata dalla piena mentre molto lontano verso ovest appariva una sponda collinosa. Falk volò come uno degli aironi blu del fiume, a pelo d'acqua, sopra il punto dove le due correnti si riunivano. Atterrò sulla sponda occidentale e fu, per la prima volta in tutta la sua memoria, completamente fuori dalla Foresta.
A nord, ovest e sud si stendeva una pianura ondulata, con gruppi isolati di alberi, sterpaglia e boschetti nelle zone più basse, ma era un paese dove la vista spaziava aperta, un paese aperto, molto aperto. Con una certa delusione Falk guardò verso ovest, sforzando gli occhi per vedere le montagne. Quella terra aperta, la Prateria, si diceva che fosse larga mille miglia, forse; ma come stessero realmente le cose, nessuno sapeva dirlo, nella Casa di Zove.
Non vide montagne, ma quella sera vide il limite del mondo, là dove esso si incontra con le stelle. Non aveva mai visto un orizzonte. Tutta la sua memoria era circondata da confini di foglie e rami. Invece lì fuori non c'era nessun ostacolo tra lui e le stelle, che brillavano a partire dal limite della Terra, e poi su, in un grande arco, una cattedrale fatta di nero e modellata con il fuoco. E giù, sotto i suoi piedi, la volta proseguiva, si chiudeva in un cerchio; ora dopo ora, il movimento dell'orizzonte rivelava le nuove forme di fuoco che prima si trovavano nascoste a est, dietro il limite della Terra. Passò metà di quella lunga notte di inverno, restando sveglio a guardare, ed era sveglio di nuovo quando il mobile limite orientale del mondo passò attraverso il sole, e la luce del giorno irruppe dagli spazi extraterrestri alle pianure.
Quel giorno viaggiò esattamente nella direzione dell'ovest segnata dalla bussola e così fece anche il giorno dopo, e il giorno dopo ancora. Non più legato alle serpentine del fiume, procedeva diritto e rapido. Guidare la slitta non era più una occupazione tanto banale come lo era stato sull'acqua; il terreno non era completamente piano, e ogni volta che incontrava una contropendenza la slitta si impennava e andava a sbattere contro terra, se non si restava sempre all'erta ai comandi. Gli piacevano gli spazi aperti del cielo e della prateria, e la solitudine lo rendeva signore incontrastato di un dominio immenso. Il tempo era favorevole, un sole mite annunciava la fine dell'inverno. Ripensando alla foresta, sentiva di essere uscito da un'oscurità soffocante e segreta, e arrivato alla luce, alla libertà, come se le praterie fossero una enorme Radura. Vacche selvatiche dal pelo rosso, in mandrie di decine di migliaia di capi, passavano nelle pianure, oscurandole come ombre di nuvole. Il terreno era sempre di colore scuro, ma in qualche luogo velato appena di verde, nei punti in cui i primi, minuscoli bocci delle erbe più resistenti (quelle a doppia foglia) si stavano aprendo; e sopra e sotto il livello del terreno c'era un costante rincorrersi e scavare tane di piccoli animali: conigli, tassi, leprotti, topi, gatti selvatici, talpe, arcturies dagli occhi striati, antilopi, yappers gialli: flagelli e beniamini di civiltà passate. Il cielo enorme vibrava per il battere di diecimila ali. Al crepuscolo, nelle vicinanze dei fiumi, sì posavano stormi di gru bianche, tra le canne e le piante spoglie del cotone, specchiando nelle acque le lunghe gambe e le lunghe ali tese.
Perché non c'erano più uomini che viaggiavano per conoscere il loro mondo? Falk se lo chiese, seduto accanto al fuoco, che brillava come un minuscolo opale sotto la grande volta blu di un tramonto nella prateria. Perché uomini come Zove e Metock se ne stavano nascosti nei boschi, e nemmeno una volta nella vita venivano a vedere il selvaggio splendore della Terra? Ora lui conosceva qualcosa che loro, che gli avevano insegnato tutto, non conoscevano: che un uomo può vedere il suo pianeta girare insieme alle stelle…
Il giorno dopo proseguì, sotto un cielo basso e un freddo vento del nord, guidando la slitta con una abilità che ormai era divenuta abitudine. Una mandria di vacche selvatiche occupava metà della pianura, a sud della sua rotta, e ognuna di quelle migliaia e migliaia era rivolta contro vento, col muso abbassato davanti alle spalle irsute, di pelo rosso. Tra Falk e le prime file della mandria c'era un miglio di erba grigiastra, che si curvava sotto i colpi del vento, e un uccello grigio volò verso di lui, veleggiando senza un colpo d'ali. Lo guardò, meravigliato da quel volo diritto, ma non perfettamente diritto, perché descrisse una curva, senza batter ali, per andare a intercettare la linea del suo cammino. Stava arrivando velocissimo, esattamente verso di lui. All'improvviso egli si allarmò, e agitò l'arma per scacciare la creatura, poi si buttò giù disteso, e tentò una virata con la slitta, ma troppo tardi. L'istante prima dello scontro egli vide la cieca testa senza fisionomia, un brillare di acciaio. Poi l'impatto, un rumore lacerante di metallo che esplodeva, un vertiginoso cadere all'indietro. E la caduta non aveva fine.