I marabù, disse Tremal-Naik.
Infatti un centinaio di quei funebri uccelli del sacro fiume, calavano, starnazzando giocondamente le ali, posandosi sui cadaveri.
Avanti, Kammamuri, ripeté Tremal-Naik.
Il gonga spinto innanzi, e dopo una buona mezzora, attraversato il cimitero, trovossi in un bacino assai più ampio, completamente sgombro, che veniva diviso in due bracci da una aguzza punta di terra, sulla quale spiccava un grandissimo e singolare albero.
Il banian! disse Tremal-Naik.
Kammamuri a quel nome fremette.
Padrone! mormorò, coi denti stretti.
Non temere, maharatto. Deponi i remi e lascia che il gonga sareni da sé sullisola. Forse cè qualcuno nei dintorni.
Il maharatto ubbidì sdraiandosi sul fondo del canotto, mentre Tremal-Naik, armata per ogni precauzione la carabina, faceva altrettanto.
Il gonga, trasportato dalla corrente che facevasi lievemente sentire, si diresse, girando su se stesso, verso la punta settentrionale dellisola Raimangal, sede degli esseri misteriosi che avevano assassinato il povero Hurti.
Un silenzio profondo regnava in quel luogo. Non si udiva nemmeno lo stormire dei giganteschi bambù, essendo cessato il venticello notturno, né le note dei ramsingo. Il fiume stesso pareva che fosse diventato dolio.
Tremal-Naik di quando in quando, però, alzava con precauzione la testa e scrutava attentamente le rive, per nulla rassicurato da quel silenzio. Il gonga si arenò, con un lieve strofinìo, a un centinaio di passi appena dal banian, ma i due indiani non si mossero.
Passarono dieci minuti dangosciosa aspettativa, poi Tremal-Naik ardì alzarsi. Prima cosa che gli diede nellocchio, fu una forma nera, confusa, distesa fra le erbe, ad una ventina di metri dalla riva.
Kammamuri, mormorò. Alzati ed arma le tue pistole.
Il maharatto non se lo fece dire due volte.
Cosa vedi, padrone? chiese egli con un filo di voce.
Guarda laggiù.
Eh! fe il maharatto, sbarrando gli occhi. Un uomo!
Zitto!
Tremal-Naik alzò la carabina prendendo di mira quella massa nera che aveva lapparenza dun essere umano sdraiato, ma labbassò senza scaricarla.
Andiamo a vedere cosè, Kammamuri, dissegli. Quelluomo non è vivo.
E se fingesse dessere morto?
Peggio per lui.
I due indiani sbarcarono, dirigendosi quatti quatti verso quellindividuo che non dava segno di vita. Erano giunti ad una diecina di passi, quando un marabù si alzò rumorosamente volando verso il fiume.
È un uomo morto, mormorò Tremai-Naik. Se fosse
Non terminò la frase. In quattro salti raggiunse quel cadavere; una sorda esclamazione gli uscì dalle labbra contorte per lira. Hurti! esclamò.
Infatti quel cadavere era Hurti, il compagno dellindiano Aghur.
Linfelice era disteso sul dorso, colle gambe e le braccia raggrinzate, probabilmente per lo spasimo, la faccia spaventosamente scomposta e gli occhi aperti, schizzanti dalle orbite. Le ginocchia erano rotte e insanguinate ed egualmente i piedi, segno evidente che era stato trascinato per qualche tratto sul terreno, forse quando era ancora agonizzante, e dalla bocca sbarrata uscivagli dun buon palmo la lingua.
Tremal-Naik sollevò lo sventurato indiano per vedere in qual luogo era stato colpito, ma non trovò sul corpo di lui alcuna ferita. Esaminandolo però meglio, vide attorno al collo una lividura assai marcata e dietro il cranio una contusione, che pareva prodotta da una grossa palla o da un sasso arrotondato.
Lhanno stordito prima e poi strangolato, dissegli, con voce sorda.
Povero Hurti, mormorò il maharatto. Ma perché assassinarlo e in questo modo?
Lo sapremo, Kammamuri, e ti giuro che Tremal-Naik non lascierà impunito il delitto.
Ma temo, padrone, che gli assassini siano molto potenti.
Tremal-Naik sarà più potente di loro. Orsù, ritorna al canotto.
E Hurti? Lo lascieremo qui?
Lo getterò nelle sacre acque del Gange domani mattina.
Ma le tigri, questa notte lo divoreranno.
Sul cadavere di Hurti veglia il cacciatore di serpenti.
Ma come? Non ritorni tu?
No, Kammamuri, io rimango qui. Quando avrò sbrigato le mie faccende, abbandonerò questisola.
Ma tu vuoi farti assassinare.
Un sorriso sdegnoso sfiorò le labbra del fiero indiano.
Tremal-Naik è un figlio della jungla! Ritorna al canotto, Kammamuri.
Oh mai, padrone!
Perché?
Se ti accade una disgrazia, chi ti aiuterà? Lascia che taccompagni e ti giuro che ti seguirò dove tu andrai.
Anche se io mi recassi a trovare la visione?
Sì, padrone.
Rimani con me, prode maharatto, e vedrai che noi due faremo per dieci. Seguimi!
Tremal-Naik si diresse verso la riva, afferrò il gonga a tribordo e con una violenta scossa lo rovesciò, calando a picco.
Cosa fai? chiese Kammamuri, sorpreso.
Nessuno deve sapere che noi siamo qui giunti. E ora, a noi lo svelare il mistero.
Cambiarono la polvere alle carabine ed alle pistole, onde essere sicuri di non mancare al colpo, e si diressero verso il banian, la cui imponente massa spiccava fieramente nella profonda tenebra.
III. Il vendicatore di Hurti
I banian, chiamati altresì al moral o fichi delle pagode, sono gli alberi più strani e più giganteschi che si possa immaginare.
Hanno laltezza ed il tronco delle nostre più grandi e più grosse quercie e dagli innumerevoli rami, tesi orizzontalmente, scendono delle finissime radici aeree, le quali, appena toccano terra, saffondano e singrossano rapidamente, infondendo nuovo nutrimento e più vigorosa vita alla pianta.
Avviene così, che i rami sallungano sempre più, generando nuove radici e quindi nuovi tronchi sempre più lontani, di maniera che un albero solo copre una estensione vastissima di terreno. Si può dire che forma una foresta sostenuta da centinaia e centinaia di bizzarri colonnati, sotto i quali i sacerdoti di Brahma collocano i loro idoli. Nella provincia di Guzerate esiste un banian chiamato Cobir bor assai venerato dagli indiani ed al quale non esitano a dare tremila anni detà; ha una circonferenza di duemila piedi e non meno di tremila colonne o radici che dir si voglia. Anticamente era assai più vasto, ma parte di esso fu distrutto dalle acque del Nerbudda, che rosero una parte dellisola su cui cresce.
Il banian sotto il quale i due indiani stavano per passare la notte, era uno dei più giganteschi, fornito di più di seicento colonne, sostenenti smisurati rami carichi di piccoli frutti vermigli e con un tronco grossissimo, ma che ad una certa altezza era tagliato.
Tremal-Naik e Kammamuri, dopo di avere esaminato scrupolosamente colonnato per colonnato per assicurarsi che dietro non celavasi alcuno, si sedettero vicino al tronco luno presso laltro, colla carabina montata, posata sulle ginocchia.
Qui qualcuno verrà, disse il cacciatore di serpenti, sottovoce.
Sfortuna al primo che giunge sotto il tiro della mia carabina.
Credi adunque che gli esseri misteriosi che assassinarono Hurti, vengano qui? chiese Kammamuri.
Sono certissimo. Vedrai, maharatto, che prima di domani, noi sapremo qualche cosa.
Ci impadroniremo del primo che viene e lo accopperemo.
Secondo le circostanze. Orsù, silenzio ora, ed occhi bene aperti.
Trasse da una tasca una foglia somigliante a quella delledera, conosciuta in India sotto il nome di betel dun sapore amarognolo e un poco pungente, vi unì un pezzetto di noce di arecche e un po di calce e si mise a masticar questo miscuglio che vuolsi conforti lo stomaco, fortifichi il cervello, preservi i denti e curi lalito. Passarono due ore lunghe come due secoli, durante le quali nessun rumore turbò il silenzio che regnava sotto la fitta ombra del gigantesco albero. Doveva essere la mezzanotte o poco meno, quando a Tremal-Naik, che tendeva per bene gli orecchi, sembrò di udire un rumore strano. Lo si avrebbe detto un rombo, simile a uno di quelli che precedono talvolta i terremoti, ma assai più sordo. Tremal-Naik si sentì invadere da una vaga inquietudine.
Kammamuri mormorò con un filo di voce. Sta in guardia.
Coshai veduto? chiese il maharatto, trasalendo.
Nulla, ma ho udito un rumore che mi è nuovo.
Dove?
Mi parve che venisse da sotto terra.
È impossibile, padrone!
Tremal-Naik ha gli orecchi troppo acuti per ingannarsi.
Cosa pensi che sia?
Lignoro, ma lo sapremo.
Padrone, qui cè qualche terribile mistero.
Hai paura?
No, sono maharatto.
Allora sveleremo ogni cosa.
In quellistante, sotto terra, sudì distintamente ripetersi il misterioso rombo. I due indiani si guardarono in volto con sorpresa.
Si direbbe che qui sotto suonano qualche enorme tamburo, lhauk per esempio, disse Tremal-Naik.
Non può essere altrimenti, rispose Kammamuri. Ma come mai viene da sotto terra? Che abbiano il loro asilo sotto la jungla, questi esseri misteriosi?
Così deve essere, Kammamuri.
Cosa facciamo, padrone?
Rimarremo qui: qualche persona uscirà da qualche parte.
Tykora! gridò una voce.
I due indiani balzarono simultaneamente in piedi. Cosa strana, incrediblle: quella voce era stata pronunciata così vicina a loro, da credere che la persona che laveva emessa fosse dietro le loro spalle.
Tykora! mormorò Tremal-Naik. Chi pronunciò questo nome? Guardò attorno, ma non vide alcuno; guardò in alto, ma non scorse che i rami del banian, confusi fra le tenebre.
Che ci sia qualcuno nascosto fra i rami?
Ma no, disse Kammamuri, tremando. La voce si udì dietro di noi.
È strano.
Tykora! esclamò la medesima voce misteriosa.
I due indiani tornarono a guardarsi intorno. Non era più possibile ingannarsi; qualcuno stava a loro vicino, ma con loro sorpresa e diciamolo pure, terrore, non era visibile.
Padrone, mormorò Kammamuri, abbiamo da fare con qualche spirito.
Non credo agli spiriti, io, rispose Tremal-Naik. Questessere che si diverte a spaventarci lo scopriremo.
Oh! esclamò il maharatto, facendo tre o quattro passi indietro, come un ubriaco.
Cosa vedi Kammamuri?
Guarda lassù padrone! Guarda!
Tremal-Naik alzò gli occhi sul banian e scorse un fascio di luce uscire dal tronco mozzato. Malgrado il suo straordinario coraggio, si sentì agghiacciare il sangue nelle vene.
Della luce! balbettò, sgomentato.
Scappiamo, padrone! supplicò Kammamuri.
Sotto terra si udì per la terza volta il misterioso boato e dal tronco del banian uscì la squillante nota del ramsinga. In lontananza echeggiarono altre note simili.
Fuggiamo, padrone! ripeté Kammamuri, pazzo di terrore.
Mai! esclamò Tremal-Naik, risolutamente.
Aveva messo il pugnale fra i denti e afferrato la carabina per la canna per servirsene come duna mazza. Dun tratto cambiò idea.
Vieni, Kammamuri, dissegli. Prima dincominciare la pugna, sarà meglio vedere con chi dobbiamo lottare.
Egli trascinò il maharatto ad un duecento passi dal tronco del banian e si nascosero dietro a tre o quattro colonne riunite che permettevano ai due indiani di vedere senza essere scoperti.
Non una parola, ora, disse. Al momento opportuno agiremo.
Dal colossale tronco del banian uscì unultima nota acutissima che svegliò tutti gli echi delle Sunderbunds. Il fascio di luce che usciva dalla sommità dellalbero si spense e in sua vece apparve una testa umana, coperta da una specie di turbante giallo.
Essa girò allintorno qualche istante, come per assicurarsi che alcuna persona trovavasi al disotto del gigantesco albero, poi si alzò, ed un uomo, un indiano a giudicarlo dalla tinta, uscì, aggrappandosi ad uno dei rami. Dietro di lui uscirono quaranta altri indiani, i quali si lasciarono scivolare giù pei colonnati, fino a terra.
Erano tutti quasi nudi. Un solo dubgah, specie di sottanino, dun giallo sporco, copriva i loro fianchi e sui loro petti scorgevansi dei tatuaggi strani che volevano essere lettere del sanscrito e proprio nel mezzo vedevasi un serpente colla testa di donna.
Un sottile cordone di seta, che pareva un laccio ma che aveva una palla di piombo allestremità, girava più volte attorno al dubgah ed un pugnale era passato in quella strana cintura.
Quegli esseri misteriosi, si assisero silenziosamente per terra, formando un circolo attorno ad un vecchio indiano dalle braccia smisurate, e lo sguardo brillante come quello dun gatto.
Figli miei, disse questi con voce grave. La nostra possente mano ha colpito lo sciagurato che ardì calcare questo suolo consacrato ai thugs ed inviolabile a qualsiasi straniero. È una vittima di più da aggiungere alle altre cadute sotto il nostro pugnale, ma la dea non è ancora soddisfatta.
Lo sappiamo, risposero in coro glindiani.
Sì, figli liberi dellIndia, la nostra dea domanda altri sacrifici.
Che il nostro grande capo comandi e noi tutti partiremo.
Lo so, che voi siete bravi figli, disse il vecchio indiano. Ma il tempo non è ancora venuto.
Cosa saspetta adunque?
Un gran pericolo ci minaccia, figli. Un uomo ha gettato gli occhi sulla Vergine, che veglia la pagoda della dea.
Orrore! esclamarono glindiani.
Sì, figli miei, un uomo audace osò guardare in volto la vaga Vergine, ma quelluomo se non cadrà sotto la folgore della dea, perirà sotto il nostro infallibile laccio.
Chi è questuomo?
A suo tempo lo saprete. Portatemi la vittima.
Due indiani si alzarono e si diressero verso il luogo dove giaceva il cadavere del povero Hurti. Tremal-Naik, che aveva assistito senza batter ciglio a quella strana scena, alla vista di quei due uomini che afferravano il morto per le braccia trascinandolo verso il tronco del banian, si era alzato di scatto colla carabina in mano.
Ah! maledetti! esclamò egli con voce sorda togliendoli di mira.
Cosa fai, padrone? bisbigliò Kammamuri, prendendogli larma ed abbassandola.
Lascia che li accoppi, Kammamuri, disse il cacciatore di serpenti. Essi hanno ucciso Hurti, è giusto che io lo vendichi.