I pescatori di balene - Emilio Salgari 3 стр.


Il «Danebrog», spinto da un forte vento di sud-sud-ovest, si slanciò verso lampia baia di Bristol, dove si scorgevano sui flutti le sostanze oleose che davano allacqua una tinta più verdastra, ma lintera notte passò senza che quel dannato capodolio si facesse vedere.

Lindomani, 26 agosto, ancora nulla. Il capitano Weimar cominciò a diventare inquieto e di assai cattivo umore. Gli pareva impossibile che il mostro, con un rampone nei fianchi, avesse potuto percorrere tanta via quantunque si continuassero a scorgere le macchie oleose sui flutti.

Anche il secondo, di solito così flemmatico, era diventato un po nervoso. Passeggiava per la coperta fumando la sua eterna pipa con maggior furia e di tratto in tratto lo si udiva brontolare.

Koninson poi, che da ventiquattro ore aveva piantato domicilio nella rete della delfiniera per non perdere di vista le macchie oleose, dormendo colà e facendosi servire pure colà i pasti, era proprio furibondo. Lo si vedeva in continua agitazione, a rischio di sfondare la rete e di quando in quando lo si udiva mandare al diavolo tutti i capodolii degli oceani e. qualchevolta il rampone di Harwey.

Il 27 nulla ancora. Il mattino del 28, a trenta miglia a sud dal capo Rumjenzow, un gabbiere segnalò una nave che si dirigeva verso il sud correndo bordate.

Il capitano Weimar ordinò subito al timoniere di dirigere il «Danebrog» a quella volta per interrogare lequipaggio.

Mezzora dopo si trovava a un solo miglio dalla nave segnalata. Era un bel «brick» di duecentocinquanta o trecento tonnellate, di forme eleganti e quasi carico. A poppa si alzava un fumo nerissimo segno evidente che lequipaggio procedeva alla fusione di materie grasse.

 Deve essere un baleniere disse il tenente.

 Weimar fece spiegare la bandiera danese e con una serie di segnali pregò il «brick» di mettersi in panna: il che subito fece. Il «Danebrog» in pochi minuti lo raggiunse mettendosi pure in panna a tre gomene di distanza.

 In che cosa posso esservi utile? chiese il capitano del «brick», imboccando il portavoce, mentre il suo equipaggio spiegava la bandiera stellata degli Stati Uniti dAmerica.

 Venite dallo stretto? chiese Weimar.

 Lavete detto.

 Avete incontrato un capodolio con un rampone al fianco?

 Sì, capitano. Lho scorto ieri sera dinanzi la baia di Norton.

 Vivo?

 Vivo sì, ma mi parve agli estremi.

 Come va la pesca?

 Ho carico completo. Se volete un buon consiglio uscite dallo stretto e costellate la Giorgia. Troverete balene in gran numero.

 Grazie, capitano.

 Buona fortuna, signore.

Il «brick» spiegò le vele e riprese la corsa verso il sud, mentre il «Danebrog» si dirigeva verso il capo Rumjänzow che doveva apparire fra breve.

La speranza di ritrovare ben presto il capodolio era rinata in tutti i cuori. Koninson per primo aveva abbandonato il suo domicilio per arrampicarsi sulla gran gabbia e parecchi altri marinai lavevano seguito, anzi alcuni si erano spinti più in alto, fino alle crocette. Persino il flemmatico tenente si era arrampicato sul trinchetto e dalla coffa esplorava il mare con un forte cannocchiale.

Alle 10 del mattino il «Danebrog» girava il capo Rumjänzow ed entrava nella baia di Chactoole, assai aperta e poco sicura, a nord-est della quale, fra il 64° e il 65° di latitudine nord e il 163° e il 164° di longitudine ovest, si apre la baia di Norton, scoperta dal celebre capitano Cook nel 1778.

Le coste apparivano dirupate e altissime, frastagliate, minate, sventrate dalleterna azione del mare e con piccolissimi «fiords» entro i quali si ingolfavano le onde con grande fragore. Qua e là si vedeva qualche abete, qualche betulla nana, qualche cespuglio e delle cascate dacqua che balzavano di roccia in roccia con bellissimo effetto.

Il «Danebrog» per qualche tratto navigò in prossimità delle coste, indi mise la prua verso la baia di Norton che raggiunse verso le 4 del pomeriggio dopo aver girato un capo dirupatissimo che cadeva quasi a piombo sul mare.

Quasi subito si udì Koninson dallalto della gran gabbia gridare:

 Il capodolio a prua!

Tutti gli occhi si volsero verso la direzione accennata. A cinque sole gomene dal «Danebrog», vicinissimo alla costa, galleggiava coi ventre in aria il cetaceo circondato da migliaia e migliaia di uccelli marini che formavano, colle loro discordi grida, un baccano indiavolato.

IV. LURAGANO

Era proprio il cetaceo che Harwey aveva ramponato dinanzi allarcipelago delle isole Aleutine e che dopo due, tre, quattro giorni di continua fuga era colà andato a spirare.

Il mostro portava ancora nel fianco larma che laveva ucciso alla quale era attaccata la lenza colla «droga» portante le cifre del «Danebrog».

Sul suo ventre e sulla enorme testa che era un po affondata si vedevano le procellarie, i gabbiani, le urie e le strolaghe cibarsi delle sue grasse carni. Ve nerano delle migliaia ed altre ancora accorrevano da tutte le parti dellorizzonte per prendere parte al lauto banchetto.

Il «Danebrog», abilmente diretto da mastro Widdeak, venne a collocarsi a fianco del cetaceo, attorno al quale nuotavano già, ma senza arrischiarsi ad addentarlo, tanta è la paura che destano in tutti gli abitanti del mare siffatti giganti, numerosissime torme di smisurati pescicani.

 È un bel mostro disse Koninson gettando gli occhi su quellenorme massa. Scommetterei che misura diciannove metri

 E forse di più disse il tenente. Ci darà almeno novanta tonnellate dolio.

 Ci vorrebbe una bestiaccia così ogni settimana. Si diventerebbe ricchi in una sola stagione.

 Al lavoro, giovanotti! gridò il capitano. Bisogna far presto se si vuole uscire dallo stretto di Behring prima della comparsa dei ghiacci.

Mastro Widdeak fece calare in mare una baleniera e vi saltò dentro con sei uomini armati di palette taglienti, abbordando il cetaceo alla testa. Con parecchi vigorosi colpi aprirono il labbro inferiore, entrarono nella enorme bocca e intaccarono la lingua, enorme massa oleosa del peso di parecchie tonnellate e che, ben cucinata, è un cibo non disprezzabile.

Mentre il mastro operava da quel lato, Koninson, seguito da parecchi marinai, tagliava un fitto strato di grasso in prossimità della testa, facendolo passare, senza però spezzarlo, a bordo.

Quando la lingua fu ritirata in coperta, i marinai cominciarono a far girare lentamente lenorme cetaceo, il quale presentò presto il dorso irto di strane protuberanze.

Il tenente Hostrup e quattro uomini armati di scuri, con mille precauzioni, per non cadere in mare raggiunsero il cranio che tosto sfondarono per raccogliere quel prezioso olio che è conosciuto in commercio sotto il nome di «bianco di balena» e viene specialmente adoperato nella fabbricazione delle candele e dei saponi di lusso.

Questolio, o meglio questo spermaceto, è bianco, brillante, perlaceo e si trova in un canale allungato che forma, riunendosi, le ossa del cranio con quelle della faccia. Nellanimale vivo è fluido, ma nellanimale morto lo si trova coagulato e talvolta il canale, ne contiene più di quattro tonnellate. Ordinariamente però non sono che tre, e tante appunto ne conteneva il capodolio abbordato dal «Danebrog».

Raccolto lo spermaceto che si vende ad un prezzo piuttosto elevato, i marinai continuarono a far girare il cetaceo strappandogli la cotenna che appena a bordo veniva tagliata a pezzi e ammucchiata grossa a poppa, dove erano già state apparecchiate sul fornello delle caldaie della capacità di quattrocento cinquanta litri, per la fusione.

Raccolto lo spermaceto che si vende ad un prezzo piuttosto elevato, i marinai continuarono a far girare il cetaceo strappandogli la cotenna che appena a bordo veniva tagliata a pezzi e ammucchiata grossa a poppa, dove erano già state apparecchiate sul fornello delle caldaie della capacità di quattrocento cinquanta litri, per la fusione.

Ben presto la coperta della nave baleniera offrì una scena selvaggia. Quelle nubi di fumo nere, puzzolenti, che salzavano dai fornelli alimentati dai frammenti di tessuto cellulare del cetaceo; quelle caldaie che bollivano spandendo allintorno un odore ancora più nauseante; quelle masse grasse che venivano gettate da tutte le parti spandendo veri rivi dolio; quel sangue che salendo dalla cotenna arrossava la tolda e le murate quei marinai scalzi imbrattati di sudiciume e armati di coltelli di ogni dimensione, quel carcame enorme che mostrava le carni rossastre e le costole gigantesche, e quelle migliaia e migliaia di uccelli che sincrociavano in tutti i versi, mescendo le loro rauche grida ai comandi degli uomini, ai brontolii delle caldaie e ai tuffi dei mostruosi pescicani, formavano uno strano quadro.

Le tenebre però, in breve, posero fine allo smembramento del carcame. Il capitano Weimar, che aveva lavorato anche lui come lultimo dei suoi marinai, fece distribuire, dopo la cena, una larga razione di «gin» e, fatta assicurare la nave con due solide àncore, affinchè non venisse gettata verso la costa che non era molto lontana, ordinò il riposo.

Allindomani il lavoro fu ripreso per tempissimo e con maggiore alacrità. La cotenna fu interamente tirata a bordo, poi vennero strappati i denti che quantunque composti di un avorio non troppo bello hanno pure qualche valore, parte dei muscoli che danno una colla eccellente, i tendini, grande quantità di ossa dalle quali si ricava il nero animale e finalmente il canale ove nascondesi spesso l«ambra grigia», materia preziosissima che tramanda un profumo delicatissimo molto ricercato dalle eleganti americane ed europee, tanto poco densa che galleggiava sullacqua e che altro non è se non un escremento alterato, una parte dalimento infine, incompiutamente digerito.

Koninson ne trovò sei pezzi, nel canale del capodolio, dei peso di cinque o seicento grammi ciascuno e di forma irregolare.

Alle 6 del pomeriggio più nulla vi era da trarre dalla carcassa.

Il capitano, che aveva molta fretta di raggiungere lo stretto di Behring per arrivare alle coste della Giorgia prima della comparsa dei ghiacci fece spiegare le vele, e alle 7, dopo due lunghe bordate, il «Danebrog» lasciava la baia di Norton colla prua nord-nord-est, portando con sè oltre novanta tonnellate di materie grasse una parte delle quali erano state già fuse, ottenendo un olio giallastro, dun sapore di pesce rancido, della densità di 0,927 e che non doveva gelare che a 0°.

Fuori dalla baia il mare era un po agitato a causa di un forte vento di nord-ovest, freddo assai e che tendeva a crescere. Per di più, per il cielo correvano dei nuvoloni di una tinta biancastra, saturi di elettricità e che non presagivano nulla di buono.

 Temo che si scateni un uragano disse il capitano abbordando il tenente che passeggiava, in coperta colle mani in tasca e la pipa in bocca.

 Danzeremo! si accontentò di dire il flemmatico uomo.

 Ma molto forte, signor Hostrup. Ho notato che il barometro si abbassa rapidamente e che lo «storm-glass» si decompone assai. Vorrei già essere lontano dai pericolosi paraggi dello stretto.

 Bah! Il «Danebrog» è un eccellente veliero che se ne infischia degli uragani, capitano.

 Non dico di no. Spero che se la caverà bene anche questa volta.

 Verso le 10 di sera, la massa delle nubi diventò più densa e il mare cominciò ad alzarsi. Numerose procellarie correvano sopra le spumeggianti creste dei flutti, gettando rauche strida. Si sarebbe detto che quei funesti uccelli invocassero la tempesta che stava per scoppiare.

Il capitano, temendo che luragano si scatenasse da un momento allaltro, rimase in coperta fino ad ora tardissima, ma vedendo che il vento, quantunque soffiasse irregolarmente, non mutava direzione si ritirò nella sua cabina dopo aver fatto chiudere i pappafichi e i contra e terzarolare le vele basse.

La notte infatti passò abbastanza tranquillamente. Non vi furono raffiche violente nè cavalloni molto alti.

Il 31 però la massa delle nubi divenne più densa e più nera, abbassandosi tanto da credere che volesse tuffare i suoi lembi nel mare. Il vento crebbe di violenza girando da sud a sud-est, fischiando in mille guise attraverso gli attrezzi e sollevando gigantesche ondate che andavano coprendosi di bianchissima spuma.

Ben presto si udì in lontananza il tuono e alcuni lividi lampi illuminarono i neri vapori che allora correvano disordinatamente come cavalli sbrigliati.

Il capitano fece chiudere buona parte delle vele e salire in coperta tutto lequipaggio. Il lupo di mare prevedeva un uragano violentissimo e voleva essere pronto a sostenerne gli attacchi.

Verso le 11 del mattino il mare diventò burrascosissimo e il vento ancora più impetuoso. Non erano onde, ma vere montagne dacqua quelle che correvano urtandosi furiosamente. Non si udivano che i mille muggiti del vento, lo sbattere delle vele e dei cordami, il gemito degli alberi, le grida dei marinai e le strida delle procellarie.

Il «Danebrog», guidato dallabile mano di mastro Widdeak, si comportava valorosamente, fendendo le onde col suo acuto e solido sperone, ma dopo qualche ora si trovò in una situazione così scabrosa che fece illividire il viso a più di un marinaio e aggrottare la fronte persino al flemmatico tenente.

Il vento aveva allora raggiunto la straordinaria velocità di 27 metri al minuto secondo, velocità che solo raggiunge nelle grandi tempeste, e alle quali ben poche navi resistono. Infatti il «Danebrog» si sentiva trascinare via con velocità incalcolabile, andando attraverso le onde che si rimescolavano orribilmente empiendo laria di mille muggiti, tuffando spesso il tribordo nellacqua. Gran parte delle sue vele, in meno che non si dica, furono lacerate e strappate dai pennoni, compromettendo così molto seriamente la sua stabilità.

Il povero legno, che non obbediva quasi più al timone, traballava disordinatamente, ora salendo i cavalloni, ora precipitando negli avvallamenti dove minacciava di venire per sempre inghiottito: gemeva, perdeva ora un pezzo di murata, ora un attrezzo della coperta. Cerano certi momenti che tanta era la massa dellacqua che si slanciava sopra i suoi bordi, da non sapere se galleggiasse ancora o fosse per andare a picco.

Il capitano Weimar, aggrappato alla ribolla del timone con a fianco mastro Widdeak, malgrado la gravità della situazione, conservava un ammirabile sangue freddo e comandava con voce tonante la manovra.

Il tenente aggrappato ad una catena di prua faceva eseguire gli ordini con voce tranquilla, come se si trovasse in una solida casa, anzichè su una nave che da un momento allaltro poteva sfasciarsi.

I marinai, scalzi, seminudi, senza berretti, inzuppati dacqua, i volti lividi per il terrore, si tenevano stretti stretti alle murate o alle sartie, o ai bracci delle vele inferiori, cogli occhi fissi sui comandanti, pronti a eseguire le manovre. Di quando in quando qualcuno di loro, investito da un colpo di mare, veniva trascinato per la coperta o gettato contro gli alberi, riportando talvolta delle contusioni di qualche gravità. E uno fu persino sbattuto fuori dalla murata e si salvò solamente aggrappandosi prontamente ad una gru.

Alle 9 pomeridiane, cioè dopo tredici ore di ostinatissima lotta, il «Danebrog» che aveva sempre camminato con una celerità superiore ai dodici, e qualche volta ai tredici nodi, si trovava a breve distanza dallo stretto di Behring. Già la costa americana, al chiarore di un lampo era stata scorta a sette od otto miglia sopravvento.

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