Il re del mare - Emilio Salgari 8 стр.


Quando raggiunsero il luogo ove avevano lasciati i loro uomini, savvidero che anche la scorta era in preda ad una viva agitazione, udendosi anche là quel fragore. Solo Padada pareva tranquillo.

 Da che cosa proviene questo baccano? gli chiese Yanez.

 È una colonna di elefanti che fugge dinanzi a qualche pericolo, signore, rispose il pilota. Saranno certamente moltissimi.

 Degli elefanti! E chi può aver spaventato quei colossi?

 Degli uomini, io credo.

 Che i dayaki si avanzino da ponente? È di là che il fragore viene.

 È quello che pensavo anchio.

 Che cosa mi consigli di fare?

 Di allontanarci al più presto.

 Non incontreremo gli elefanti sulla nostra via?

 È probabile, ma basterà una scarica per farli deviare. Hanno una paura incredibile quei colossi degli spari, non essendovi abituati.

 Avanti dunque, comandò il portoghese, con voce risoluta. Dobbiamo giungere al kampong prima che vi arrivino i dayaki.

Si rimisero frettolosamente in cammino sciabolando i rotangs ed i calamus, mentre il fragore aumentava rapidamente dintensità.

Il pilota doveva aver indovinato giusto. Fra il fracasso assordante prodotto dallincessante crollare delle piante, abbattute dai poderosi ed irresistibili urti di quelle enormi masse lanciate a galoppo sfrenato, si cominciavano a udire dei barriti. Quei pachidermi dovevano essere spaventati da qualche grossa truppa duomini, non fuggendo ordinariamente dinanzi ad un drappello di cacciatori.

Dovevano essere state le bande dei dayaki a metterli in rotta.

Yanez e i suoi uomini affrettavano il passo, temendo di venire travolti nella pazza corsa di quei pachidermi.

Avendo trovato degli spazi liberi, si erano messi a correre, guardandosi con spavento alle spalle, credendo di vedersi rovinare addosso quei mostruosi animali. Anche Yanez appariva preoccupato.

Avevano raggiunta una macchia formata quasi esclusivamente di enormi alberi della canfora, che nessuna forza avrebbe potuto atterrare, avendo quelle piante dei tronchi grossissimi, quando il pilota per la seconda volta si arrestò, dicendo precipitosamente:

 Gettatevi sotto queste piante che sono sufficienti a proteggerci. Ecco che giungono!

Si erano appena lasciati cadere dietro a quei tronchi colossali quando si videro apparire i primi elefanti.

Sbucavano a corsa sfrenata da una macchia di sunda-matune, gli alberi della notte, così chiamati perchè i loro fiori non si schiudono che dopo il tramonto del sole e dei quali dovevano aver fatta una vera strage nella carica furibonda.

Quei colossi, che parevano pazzi di terrore, piombarono di colpo su un ammasso di giovani palme che sbarrava loro la via e le abbatterono come se una falce immensa, manovrata da qualche titano, fosse scesa su quelle piante.

Non era che lavanguardia quella, poichè pochi istanti dopo si rovesciò su quello spazio il grosso, con clamori spaventevoli.

Erano quaranta o cinquanta elefanti, fra maschi e femmine, che si urtavano fra loro confusamente, cercando di sorpassarsi. Le loro formidabili trombe percuotevano con impeto irresistibile alberi e cespugli, tutto abbattendo.

Vedendone alcuni che pareva volessero scagliarsi verso gli alberi della canfora, Yanez stava per far eseguire una scarica, quando vide dei punti luminosi apparire dietro ai pachidermi che descrivevano delle fulminee parabole.

 Silenzio! Che nessuno si muova! I dayaki! aveva esclamato Padada.

Parecchi uomini, quasi interamente nudi, correvano dietro agli elefanti, scagliando sui loro dorsi dei rami resinosi accesi, che subito raccoglievano appena caduti, tornando a lanciarli.

Non erano che una ventina, tuttavia i pachidermi, atterriti da quella pioggia di fuoco che cadeva loro addosso senza posa, non osavano rivoltarsi, mentre con una sola carica avrebbero potuto spazzare e stritolare quel piccolo gruppo di nemici.

 Non muovetevi e non fate fuoco! aveva ripetuto precipitosamente Padada.

Gli elefanti erano già passati, urtando i primi tronchi della macchia, senza che quelle colossali piante avessero fortunatamente ceduto ed erano scomparsi nel più folto della foresta, sempre perseguitati dai dayaki.

 Che siano cacciatori? chiese Yanez quando il fragore si perdette in lontananza.

 Che cacciavano noi, rispose il malese. La nostra discesa a terra è stata notata da qualcuno che sorvegliava limbarcadero e non essendo probabilmente in numero sufficiente i dayaki che si trovavano nei dintorni, ci scagliano addosso gli elefanti. Vedrete che faranno percorrere a quei colossi tutta la foresta, colla speranza che cincontrino sulla loro corsa e ci travolgano.

 Possiamo quindi rivederli ancora?

 È probabile, signore, se non ci affrettiamo a lasciare questa boscaglia ed a rifugiarci nel kampong di Pangutaran.

 Siamo lontani molto ancora?

 Non ve lo saprei dire, essendo questa parte della foresta così intricata, da non poterci nè orientare, nè correre troppo. Tuttavia suppongo che giungeremo prima dellalba.

 Prima che gli elefanti ritornino, andiamocene. Non si trovano sempre degli alberi della canfora per proteggerci. Mi stupisce però una cosa.

 Quale, signore?

 Come quei selvaggi abbiano potuto radunare tanti animali.

 Li avranno incontrati per caso non essendo domatori come i mahut siamesi o i cornac indiani, disse Tangusa, che assisteva al colloquio.

 Non è raro, in queste foreste, trovare delle truppe di cinquanta e anche di cento capi.

 E si presteranno a quel giuoco?

 Continueranno a scappare finchè i dayaki avranno fiato e non cesseranno di perseguitarli coi tizzoni accesi.

 Non credevo che quei bricconi fossero così furbi. Amici, al trotto!

Lasciarono la macchia che li aveva così opportunamente protetti da quella carica spaventevole e si cacciarono entro altri macchioni formati per la maggior parte di alberi gommiferi, di dammeri e di sandracchi, cercando alla meglio di orientarsi, non potendo scorgere le stelle, tanto era folta la cupola di verzura che copriva la foresta.

Fortunatamente le piante non crescevano così luna presso allaltra ed i cespugli e i rotangs erano rari, sicchè potevano marciare più celermente e correre anche meno rischi di cadere in qualche agguato.

In lontananza il fragore prodotto dagli elefanti lanciati in piena corsa si udiva ancora, ora intenso ed ora più debole.

I poveri animali ora cacciati da una parte, ora respinti verso laltra, facevano il giuoco dei dayaki, i quali sapevano abilmente guidarli dove desideravano, colla speranza che sorprendessero il drappello in qualche luogo dellimmensa foresta.

Padada e il meticcio, sapendo ormai di che si trattava, si regolavano a tempo per tenersi sempre lontani da quel pericolo, conducendo il drappello in direzione opposta a quella seguìta dai pachidermi.

Dopo una buona mezzora parve finalmente che i dayaki, convinti che le tigri di Mompracem non si trovassero in quella parte della selva, spingessero gli elefanti verso il fiume, poichè il fragore prodotto da quella carica furibonda si allontanò verso il sud, finchè cessò completamente.

 Ci credono ancora lontani dal kampong, disse il pilota, dopo daver ascoltato per qualche po. Vanno a cercarci verso il Kabatuan.

 Quanta ostinazione in quei furfanti, disse Yanez. È proprio una guerra a morte che ci hanno dichiarata.

 Eh, signor mio, rispose Padada, sanno bene che se noi riusciamo a unirci a Tremal-Naik, lespugnazione del kampong diverrà estremamente difficile.

 Io glielo lascio il kampong; non ho alcuna intenzione di stabilirmi qui. Ho lordine di condurre a Mompracem Tremal-Naik e sua figlia e non già di fare la guerra al pellegrino, almeno per ora. Più tardi vedremo.

 Rinunziate a sapere chi è quelluomo misterioso che ha giurato un odio implacabile contro tutti voi?

 Non ho ancora pronunciato lultima parola, rispose Yanez, con un sorriso. Un giorno faremo i conti con quel messere. Per ora mettiamo in salvo lindiano e la sua graziosa fanciulla. Dove siamo ora? Mi pare che la foresta cominci a diradarsi.

 Buon segno, signore. Il kampong di Pangutaran non deve essere molto lontano.

 Fra poco troveremo le prime piantagioni, disse il meticcio che da qualche minuto osservava attentamente la foresta. Se non minganno siamo presso il Marapohe.

 Che cosè? chiese Yanez.

 Un affluente del Kabatuan, che segna il confine della fattoria. Alt, signori!

 Che cosa cè?

 Vedo dei fuochi brillare laggiù! esclamò Tangusa.

Yanez aguzzò gli sguardi e attraverso uno squarcio delle piante, ad una distanza considerevole, vide brillare nelle tenebre un grosso punto luminoso che non doveva essere un semplice fanale.

 Il kampong! chiese.

 O un fuoco degli assedianti? disse invece Tangusa.

 Dovremo dare battaglia prima di entrare nella fattoria?

 Prenderemo il nemico alle spalle, signore.

 Tacete, disse in quel momento il pilota, che si era avanzato di alcuni passi.

 Che cosa cè ancora? chiese Yanez, dopo qualche minuto.

 Odo il fiume rompersi contro le rive. Il kampong si trova dinanzi a noi, signore.

 Attraversiamolo, rispose Yanez risolutamente, e piombiamo sugli assedianti a passo di carica. Tremal-Naik ci aiuterà dal canto suo come meglio potrà.

7. Il kampong di Pangutaran

Cinque minuti dopo il drappello guardava silenziosamente il fiumicello che era scarsissimo dacqua e si radunava sulla riva opposta che era priva dalberi.

Una vasta pianura, interrotta solo da qualche gruppetto di palme e di pombo, si estendeva al di là, spingendosi verso una grossa costruzione sopra la quale si scorgeva una specie di torricella che pareva un osservatorio.

Cominciando appena appena allora a diradarsi le tenebre, non era ancora permesso discernere che cosa veramente fosse, ma il pilota e il meticcio non avevano bisogno della luce per sapere dove si trovavano.

 Il kampong di Pangutaran! avevano esclamato ad una voce.

 E coi dayaki intorno, aveva aggiunto Yanez, aggrottando la fronte. Che il grosso delle loro forze sia giunto prima di noi?

Infatti numerosi fuochi, disposti in forma di semi-cerchio, ardevano dinanzi alla fattoria, come se i terribili tagliatori di teste avessero stabilito un grande campo.

Tutti si erano arrestati, guardando con ansietà quei falò e cercando di rendersi conto delle forze degli assedianti.

 Eccoci in un bellimpiccio, mormorava Yanez. Sarebbe unimprudenza avventarsi alla cieca contro forze che potrebbero essere venti volte superiori e daltronde sarebbe una follia aspettare lalba. Mancherebbe la sorpresa e potremmo venire ricacciati.

 Signore, disse il pilota in quel momento. Che cosa decidete?

 Credi che siano molti gli assedianti?

 A giudicarlo dal numero dei fuochi si potrebbe crederlo. Volete che vada ad accertarmi delle loro forze?

 Yanez lo guardò con diffidenza.

 Sospettate di me, è vero? disse il malese, sorridendo. Avete ragione: fino a ieri io ero un vostro nemico. Eppure avete torto: ormai ho rotto tutto con quegli uomini e preferisco essere contato fra i vostri uomini che sono malesi al pari di me, anzichè con quei selvaggi.

 Potrai essere di ritorno prima che il sole sorga?

 Non comparirà prima di mezzora ed io vi prometto di essere di ritorno fra dieci minuti.

 Dammi dunque una prova della tua fedeltà, disse Yanez.

 Lavrete, signore.

Il malese si fece dare un parang, fece un gesto daddio e si allontanò, gettandosi in mezzo ad una piantagione di zenzero che gli assedianti non avevano ancora distrutta.

Yanez, collorologio alla mano contava i minuti. Temeva vivamente che il pilota tardasse, e che la luce si diffondesse prima del suo ritorno, rendendo impossibile una sorpresa.

Ne aveva contati sei, quando Padada comparve, correndo a corsa sfrenata.

 Ebbene? chiese Yanez, muovendogli incontro.

 Il grosso che ha operato contro di noi alla foce del fiume non è ancora giunto. Gli assedianti non sono più dun centinaio e le loro file sono così deboli da non poter resistere ad un urto improvviso.

 Hanno armi da fuoco?

 Sì, signore.

 Bah! Sappiamo come se ne servono.

Si volse verso i suoi uomini che lo avevano raggiunto e aspettavano il comando di dare addosso ai nemici.

 Date dentro a corpo perduto, disse loro. Le tigri di Mompracem mostrino in quale conto tengono questi tagliatori di teste.

 Quando ce lordinerete, noi sfonderemo tutto, signor Yanez, rispose il più vecchio. Voi sapete che noi non abbiamo mai avuto paura.

 Accostiamoci in silenzio e prendiamoli alle spalle. Non farete fuoco se non quando lo comanderò io. Formiamo la colonna dassalto.

Si disposero su una doppia fila, mettendo dinanzi i più valorosi, poi il drappello si cacciò silenziosamente in mezzo ai zenzeri che erano abbastanza alti per coprirli.

Yanez si era gettata la carabina a tracolla, ed aveva sfoderata la scimitarra e levata dalla fascia una ricca pistola indiana a due colpi, dalle canne lunghissime.

La traversata della piantagione fu compiuta così celermente che quattro minuti dopo giungevano a ottanta passi dagli assedianti.

I dayaki, sicuri di non venire assaliti, bivaccavano in gruppetti di quattro o cinque persone, attorno al falò.

Trecento metri più oltre salzava il kampong. Era una specie di kotta, ossia di fortezza bornese, costituita da un corpo di fabbricati, circondato da larghi panconi di durissimo legno di tek, capaci di opporre una solida resistenza anche ai piccoli lilà se non ai mirim e da un folto boschetto di piante spinose che non permetteva di prenderla dassalto ad uomini quasi nudi e privi soprattutto di scarpe.

Sul fabbricato principale, una casa di bella apparenza, che ricordava i bengalow indiani, salzava una sottile torretta di legno, una specie di minareto arabo, sulla cui cima brillava una grossa lanterna.

 Tangusa, disse Yanez, che aveva fatto coricare i suoi uomini, volendo prima rendersi un conto esatto della situazione in cui trovavasi la fattoria, dove si trova il passaggio?

 Di fronte a noi, signore.

 Non cadremo in mezzo alle spine?

 Vi guido io.

 Siete pronti? chiese Yanez rivolgendosi ai pirati.

 Pronti tutti, capitano.

 Caricate al grido «Viva Mompracem!» onde non corriamo il pericolo di farci fucilare dai difensori del kampong. Avanti!

I diciotto uomini si erano slanciati a corsa sfrenata, piombando sul gruppo più vicino. Nessuno poteva ormai più trattenere le terribile tigri della Malesia: nè artiglierie, nè fucili, nè armi bianche.

Con una scarica fulminarono i cinque o sei dayaki che avevano abbandonato precipitosamente il falò attorno a cui bivaccavano, poi attraversarono come un lampo la debole linea dassedio, continuando a sparare e urlando a squarciagola:

 Viva Mompracem!

I tagliatori di teste, sorpresi da quellimprovviso assalto, che erano ben lungi dallaspettarsi, non avevano nemmeno tentato di opporre resistenza, sicchè lanimoso drappello potè gettarsi dentro il boschetto spinoso che copriva la cinta.

Degli uomini erano comparsi sulle difese interne armati di fucili. Pareva che si preparassero a far fuoco, quando una voce imperiosa gridò:

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