La perla sanguinosa - Emilio Salgari 3 стр.


«Pigliate quelluomo,» disse il capo, indicando il malabaro.

«Dove volete condurmi?» chiese Palicur, con voce tranquilla e guardando ironicamente i quattro guardiani.

«A farti assaggiare le delizie del gatto a nove code, rispose il capo. Venticinque colpi che ti accarezzeranno le spalle, e ti insegneranno a rispettare i tuoi compagni di lavoro.»

«E soprattutto, le spie, aggiunse il quartiermastro della Britannia, beffardamente. Sono persone sacre quelle!»

«Chiudi il becco, tu, gridò il capo, e sii contento di non provare anche tu le nove code.»

«E il Guercio mi terrà compagnia almeno?» chiese Palicur, il quale non dimostrava alcuna apprensione per la terribile condanna che gli era stata inflitta.

«Non occuparti del 304.»

«Già, perché è un protetto del direttore nella sua qualità di spia.»

«Basta! gridò il capo, alzando minacciosamente il pugno. Presto, legate questo pappagallo mal dipinto.»

Il malabaro, udendo quelle parole, si alzò a sedere, mandando un urlo di furore.

«Sappi, sergente, che luomo che tu hai chiamato pappagallo è un discendente dei rajah di Calicut, di quei rajah che diedero tante terribili lezioni ai tuoi compatrioti, prima di venire dispersi per lIndia.»

«Ma ora non sei che un forzato.»

«Condannato quasi innocente. Se ho ucciso era nel mio diritto.»

«Già, tutti dicono così; sempre innocenti, disse il capo ghignando. Lesti!»

I tre guardiani staccarono le catene fissate agli anelli del tavolato e liberarono le gambe del malabaro, il quale con un balzo fu subito in piedi.

«Eccomi, disse, ma giuro su Sivah che se quel maledetto cingalese non condividerà la mia pena, appena rimessomi in gambe lo ucciderò.»

«E noi ti impiccheremo, rispose il sergente, così avremo due bricconi di meno da sorvegliare e due bocche di meno da sfamare. Avanti, in cammino!»

«Ed io?» chiese il quartiermastro, mentre strizzava locchio al malabaro.

«Tu rimarrai qui per otto giorni, rispose il capo. È un riposo che non ti guasterà le ossa.»

«Io sono ammalato e non potrò resistere. Volevo anzi, fino da ieri, fare domanda di essere passato nellinfermeria. Temo di venire colto dallitterizia.»

«Te la sbrigherai col medico, se avrà tempo di venire a trovarti.»

«Vi prego di avvertirlo. Ho un tremito incessante che non mi lascia un momento. Sono un vostro compatriota, dopo tutto.»

Il sergente alzò le spalle e uscì borbottando: «Quando giungerà. Ora è a caccia.»

E chiuse la porta con fracasso, facendo scorrere i grossi catenacci.

«Canaglie, mormorò il quartiermastro, quando fu solo. Risparmiano la spia e torturano quel povero malabaro. Bisogna che ce ne andiamo, dovessimo pagare colla nostra vita la libertà, altrimenti una volta o laltra Palicur commetterà uno sproposito contro quel cane di un Guercio e si farà impiccare.

«No, quelluomo che possiede una forza straordinaria non deve morire. Egli mi è troppo necessario e lora è giunta per tentare la fuga. La scialuppa a vapore sarà a nostra disposizione. Se tardassimo ancora un mese, i tifoni ed il monsone ci impedirebbero di avventurarci sul mare con qualche probabilità di successo.

«Fra poco Palicur sarà nellinfermeria col dorso sanguinante: e ci sarà anche laltro. Raggiungiamoli.»

Si levò a sedere, per quanto glielo consentiva la lunghezza della catena, e si mise in ascolto. Non udendo il più lieve rumore, si aprì la camicia e da una cintura di pelle che gli stringeva il torso levò con precauzione una scatoletta di fibre di cocco, contenente otto sigarette ed alcuni zolfanelli.

Le osservò attentamente palpandole più volte, poi disse:

«Sono perfettamente asciutte e si lasceranno fumare. Io collitterizia, il macchinista colle guance gonfie, Palicur col groppone rovinato. Chi sospetterà che tre uomini ridotti in tale stato pensino a fuggire? Purché nel frattempo non scoprano il cilindro della macchina! In tal caso tutto sarebbe perduto.»

Accese una sigaretta e si mise a fumarla frettolosamente, poi ne accese unaltra e continuò finché le ebbe quasi tutte consumate.

Aveva appena finito lultima, quando fu preso da vomiti violentissimi.

«Ecco litterizia che giunge, disse, sforzandosi di sorridere. Fra pochi minuti il mio corpo diventerà giallo come quello di un vero malato e il gioco sarà fatto!»

3. Le astuzie dei forzati

Le furberie dei forzati per procurarsi delle malattie artificiali, che li esonerino per qualche tempo dai durissimi lavori dei cantieri, sono tali da far stupire ed essi riescono così bene nella finzione da ingannare i più abili medici. Le frodi tentate dai coscritti per essere dichiarati inabili al servizio militare, sono puerili in confronto a quelle escogitate dai forzati per avere qualche giorno di malattia e venire perciò trattati con un certo riguardo.

Nella loro impazienza di sottrarsi al lavoro che li accascia, i galeotti dei penitenziari hanno tutte le audacie, tutte le furberie. Davanti a quellidea fissa di riposo, che i guardiani e i medici chiamano poltroneria, forse ingiustamente, sparisce perfino la loro sensibilità, e si sono veduti taluni mutilarsi atrocemente, altri provocare e mantenere pazientemente delle malattie per lunghi e lunghi mesi, e anche rovinarsi per sempre.

Quei disgraziati hanno dei segreti che si trasmettono luno allaltro e che la sagacia dei medici difficilmente riesce a scoprire.

Una delle malattie preferite dai forzati, perché obbliga gli infermieri a trattenerli a letto parecchie settimane, è appunto litterizia. Per simulare o provocare quella malattia, vi sono due mezzi ai quali i galeotti ricorrono indifferentemente.

Il primo consiste nel mettere un po di tabacco a macerare in un po dolio di cocco per cinque o sei ore, poi seccarlo e fare delle sigarette aggiungendo al preparato un po di fosforo preso dai fiammiferi. Basta fumare sette od otto di quelle sigarette perché apparisca su tutto il corpo la tinta gialla caratteristica degli itterici. Il medico per di più rileva subito anche un certo imbarazzo gastrico con vomiti e febbri e si vede obbligato a mandare il volontario dellitterizia allospedale.

Il secondo mezzo è altrettanto semplice. Il forzato si mette sotto le ascelle un pacchetto di cotone imbevuto di aceto e spolverizzato con un po di zafferano, quindi si copre molto per provocare un copioso sudore e dopo due ore prova dapprima un senso di calore nel petto e quindi in tutte le membra; è questo il segno dellapparizione della tinta itterica che in pochissimo tempo invade tutti i tegumenti e le congiuntive. Luso quotidiano di quel cotone mantiene poi la pseudo-itterizia, permettendo così allastuto forzato di prolungare la sua permanenza nellospedale.

Ma le malattie artificiali non si limitano alla sola itterizia. Ben altre essi sanno provocarne con dei mezzi sorprendenti che farebbero stupire gli stessi medici se potessero conoscerli.

Alcuni, per esempio, preferiscono la congiuntivite. Per procurarsela spargono della cenere di tabacco nellinterno della palpebra inferiore, oppure fanno molte lavature con acqua saponata. Si sono veduti anzi taluni forzati diventare completamente ciechi facendo troppo uso della cenere di tabacco.

Altri preferiscono la dissenteria e per ottenerla, specialmente i forzati dei penitenziarii della Guiana francese, inghiottono dei semi duna pianta chiamata daglindigeni «panacoco» (hura crepitans) che esercitano una grande azione irritante, maggiore di quella che produce lolio di croton.

Fu la morte di uno di quei disgraziati a svelare il segreto di quelle dissenterie che colpivano troppo di frequente i galeotti della Guiana e delle isole della Salute, il che diede luogo a provvedimenti proibitivi e severi da parte dei direttori dei penitenziarii, con grande ira dei galeotti che venivano in tal modo privati duno dei mezzi migliori e più semplici per darsi ammalati.

Di fianco alle ricette classiche si trovano pure invenzioni straordinarie di certi intellettuali del bagno che hanno trovato nuovi mezzi da aggiungere a quelli già conosciuti dai vecchi forzati.

Un galeotto, per esempio, che era stato studente in medicina, ha utilizzato le sue conoscenze chimiche per insegnare ai suoi compagni di pena il modo di procurarsi con poca spesa un rigonfiamento pronunciatissimo dello stomaco. Per ottenere quella malattia raccoglieva tutte le cannucce delle vecchie pipe che poteva trovare, specialmente di quelle di gesso, le riduceva in polvere e faceva trangugiare al «paziente» un po di quella miscela di terracotta e di gesso insieme ad un bicchierino daceto. Quegli elementi producevano nello stomaco una grande quantità di acido carbonico che lo dilatava enormemente, simulando così la classica dilatazione di stomaco.

I forzati conoscono anche larte di produrre e di mantenere le piaghe, e di dare ad esse unapparenza orribile. Per giungere a quel risultato sollevano una piega della pelle e lattraversano con un filo di lana inzuppato di tartaro dentario, avendo però cura di non farlo uscire dallaltra parte. Ciò fatto aspettano la mortificazione del tessuto ed ottengono così una piaga piena di suppurazione.

Perfino il flemmone sono capaci di procurarsi e lottengono introducendo profondamente sotto la pelle una sfilacciatura di uno straccio qualunque, un pezzetto dosso, una mosca o qualche altro insetto. Il forzato sceglie di preferenza la cavità della parte posteriore del ginocchio, dove si trova un grosso strato di tessuto epiteliale, anche perché la guarigione è lunga e difficile e gli promette un riposo di parecchi mesi e anche perché lo esenta talvolta dal lavoro per tutta la vita, manifestandosi non rare volte una anchilosi completa del ginocchio.

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Will, il quartiermastro della Britannia, aveva fumato le sigarette da una mezzora, quando il capo sorvegliante rientrò, accompagnato da un uomo vestito di tela bianca, con un elmo pure di tela in testa e alte uose a doppia bottoniera.

Era daspetto simpatico, con occhi azzurri, barba e capelli biondi, la pelle assai abbronzata, dovuta probabilmente al lungo soggiorno in quellisola, così esposta alle furiose raffiche dei monsoni indiani ed ai cocentissimi raggi equatoriali.

«Cè quel forzato che si lagna di essere ammalato, dottore, disse il capo. Io già vi prevengo che non gli credo e penso che finga di esserlo per andare a riposare qualche giorno allinfermeria.»

Il quartiermastro si era alzato da sedere; fingendo uno sforzo supremo e mostrando le larghe macchie che imbrattavano il suolo e lorlo del tavolo, prodotte dal vomito che lo aveva assalito dopo lultima sigaretta, disse:

«Ecco le prove se io sono ammalato o no. Vi ho già detto che temevo mi cogliesse litterizia. Guardatemi il viso, dottore.»

«Sei giallo come un melone, rispose il medico. Non occorre che ti visiti. Passatelo allinfermeria.»

«Andrà a tenere compagnia al malabaro,» disse il capo ridendo, mentre il dottore se ne andava, senza curarsi di dare uno sguardo di più al quartiermastro.

«Lavete battuto quel disgraziato?» chiese Will a denti stretti.

«Perbacco! Labbiamo fatto cantare meglio dun pappagallo ammaestrato! Tu, che sei stato marinaio, sai già come accarezza bene le spalle il gatto a nove code e come sa anche adoperarlo quel caro Fok. Ha il polso solido quelluomo e nessuno può resistere ai suoi colpi.»

«E il Guercio?»

«Non si puniscono gli innocenti.»

«Cioè le spie,» corresse ironicamente il quartiermastro.

«È unidea tua quella.»

«Tutti sanno che quel cingalese è la spia del bagno.»

Il capo sorvegliante alzò le spalle con fare annoiato, poi disse:

«Su, vieni, se è vero che sei ammalato. Gran buon uomo quel dottore! Io, se fossi al suo posto, ti avrei mandato invece nella foresta a tagliare alberi.»

Will credette opportuno non rispondere.

Il capo gli staccò la catena, poi lo spinse ruvidamente giù dal tavolato, dicendogli:

«Non avrai la pretesa che io ti porti. Avanti!»

Il quartiermastro ebbe un lampo di rivolta dinanzi a tanta brutalità. Lo fissò in faccia, incrociando nello stesso tempo le braccia, poi gli disse con voce sibilante:

«Mi prendi per un indiano tu, Foster? Tu sei un bruto che non sa rispettare la sventura.»

«Non prenderti tanta confidenza, Will, rispose il capo. Non ti è permesso darmi del tu.»

«Sono un tuo compatriota.»

«Per me non sei altro che un numero. Basta, cammina o ti farò assaggiare il gatto appena sarai guarito.»

Il quartiermastro con uno sforzo supremo si frenò e uscì lentamente dalla cella, seguito dal capo che teneva in mano lestremità della catena.

Percorsero un lungo corridoio, dove regnava un calore infernale e salirono una gradinata, sul cui pianerottolo vegliava un guardiano armato di carabina colla baionetta inastata.

«È entrato nessun altro nellinfermeria?» chiese il capo alla sentinella.

«Sì, un altro,» rispose il guardiano.

«Chi?»

«Jody, il macchinista.»

«Anche quello ammalato?»

«È entrato poco fa colle guance così gonfie che mi parevano due zucche.»

«Mi rincresce, perché quello è un buon diavolo.»

Fece aprire la porta e introdusse Will in una vasta stanza, illuminata da una mezza dozzina di finestre munite di doppie inferriate, ed ingombra di lettucci assai bassi, disposti su due linee.

Due teste si alzarono da due letti, guardarono il nuovo arrivato, poi si abbassarono subito scomparendo sotto le lenzuola.

«Va a coricarti, disse il capo, spingendo innanzi Will. Il medico ripasserà appena avrà terminato il pranzo e la partita di whist col governatore.»

Il quartiermastro si diresse verso un letto, si spogliò e si cacciò sotto le coperte fingendosi completamente esausto, mentre il capo rinchiudeva la porta, ripetendo:

«Sarà qui dopo il whist

Era appena uscito che si udì una voce dire con accento un po beffardo:

«Eccoci finalmente in compagnia. Cerchiamo ora di guarire presto e tutto andrà a meraviglia. Il cilindro è finito?»

Da un letto si era alzata una testa tutta avvolta in pannilini, che mostrava due gote mostruosamente gonfie, colla pelle assai abbronzata e due occhietti nerissimi, vivaci, intelligenti.

«Non sono bello è vero, signor Will!» disse il malato con una risata.

«No, davvero, mio bravo Jody,» rispose il quartiermastro.

«Ah, signor Will, disse in quellistante unaltra voce. Come mi hanno conciato quei cani idrofobi! Mi pare che mi abbiano fracassato perfino le costole.»

Unaltra testa si era alzata da un letto vicino: quella del malabaro. Il disgraziato indiano era completamente trasfigurato ed il suo viso aveva perduto la sua tinta bronzea per assumere un colore grigiastro, il pallore delle razze colorate.

Dovevano averlo orribilmente conciato e certo il suo dorso doveva essere tutta una piaga, poiché il gatto a nove code, usato ancora nel secolo scorso sui vascelli da guerra della marina inglese e nei penitenziari, non è meno terribile dello knut russo.

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