La tigre della Malesia - Emilio Salgari 9 стр.


Ma a poco a poco quei deliri, quella collera insensata sparvero, sfumarono, e il formidabile pirata richiamato alla realtà ripigliò il faticoso esercizio, cercando la costa avvolta fra fitte tenebre che non permettevano ancora di scorgerla rimandando in cuor suo quella vendetta, che per lui era la vita.

Nuotò così parecchio tempo, soffermandosi tratto tratto per ripigliar fiato e per istrapparsi di dosso le vesti onde acquistare maggior libertà nelle mosse, poi cominciò sentirsi spossato. Rallentava le mosse, sentivasi irrigidire le estremità dei piedi e delle mani, e la ferita strappavagli lugubri gemiti. Pure non era uomo da cedere sì facilmente. Voleva vivere per potersi vendicare, per potere un giorno schiacciare alla sua volta il maledetto che lo aveva battuto. Con una mano raggrinzata sulla ferita, facendo sforzi sovrumani, continuò a tirar innanzi deciso a guadagnare le coste di Labuan.

 È duopo che viva! andava esclamando egli ferocemente fra una battuta e laltra dei piedi. Bisogna che io vendichi i miei prodi! Bisogna che ritorni io il padrone del mare. Dove sono queste maledette coste di Labuan? Ah! Perla, quanto mi sei costata! Eppur ti voglio vedere!

Egli così parlando si animava, mordeva la spume, tendeva i pugni battendoli quasi con furore su quei flutti che egli diceva suoi, quasi volesse far comprendere a loro che egli era il padrone. Si arrestò per la ventesima volta affranto da quegli sforzi erculei, ansante, collocchio stravolto, cercando lisola e collorecchio teso per accogliere il fragore della risacca che ne segnalasse la vicinanza.

Si aggomitolò su sé stesso, gettando rauchi gemiti lasciandosi portare dal flusso che lo spingeva verso la costa. Le membra si irrigidivano per la perdita del sangue e per la spossatezza, il respiro diventava affannoso, gli occhi si velavano sotto ombre sanguinose e mille rumori gli risuonavano nelle orecchie, mille urli disperati, mille chiamate a cui parevano unirsi ruggir di bronzi e detonazioni di moschetti, che la febbre mille volte raddoppiava.

Il pirata, che vedeva consumarsi quella energia sovrumana che lo sosteneva anche nei più terribili frangenti, rimase là immobile per cinque minuti semi-svenuto, delirante, porgendo orecchio a quelle credute grida che gli parevano dei compagni, poi rompendo quella immobilità che a poco a poco lo perdeva, stese le braccia irrigidite riprendendo, con quella potente volontà in lui abituale, il penoso cammino in mezzo a quei flutti sempre più neri e nella più profonda oscurità.

Percorse ancora venti passi, poi avvenne fra lui e un oggetto non ancora definibile un urto. Credette in sulla prima di aver da fare con qualche pescecane, e si tuffò cercando fra le vesti lacerate il suo kriss dalla lama serpeggiante ancora infisso nella larga cintola e lafferrò con moto convulso.

 Ancora un nemico adunque! pensò egli con collera concentrata. Ricomparve alla superficie; avvenne un nuovo urto, allungò le braccia e afferrò un rottame che galleggiava in balia dei flutti. Pareva fosse un pezzo di ponte, senza dubbio di uno dei due prahos, e che poteva offrire un valido aiuto alle esauste sue forze. Vi si aggrappò disperatamente uscendo a metà dalle acque e scoprendo la ferita dalla quale usciva ancora qualche goccia di sangue dalle labbra rigonfie.

Per due ore, quelluomo che non voleva morire, pericolosamente ferito, lottò contro il sonno e lo svenimento che lo assalivano, sempre a metà immerso, aggrappato al rottame che lo traeva insensibilmente alla costa. Furono due ore di patimento indescrivibile, due ore che parevano due secoli, poi cadde sfinito sul rottame lasciandosi trasportare dal flusso, credendo talvolta di udire il fragor della risacca o le grida di naviganti o lo sbatter di remi o i tuffi dei pesci-cani.

Alle tre del mattino avvenne un cozzo che il fece tornare in sé. Tese le braccia, allungò le gambe raggrinzate ed irrigidite e gettò uno sguardo allintorno mentre un fragore insolito rimuggiva attorno. Era a poche braccia dalla costa dove il flusso ve laveva tratto. Abbandonò il rottame e traballando come un ubbriaco sui banchi di sabbia, dopo di aver lottato venti volte colla risacca che lo rispingeva, guadagnò con mille stenti una riva bassa, sabbiosa, coronata di fitte foreste dove cadde affranto in mezzo alle alghe.

CAPITOLO VI. Febbre e delirio

La ferita poteva essere se non mortale certamente pericolosissima, chiedeva una pronta cura se non fosse stato altro per arrestarne lemorragia che poteva compromettere la vita del pirata.

Sandokan non lo ignorava, e appena poté riaversi un po dalla spossatezza, pensò subito a medicarsi, con tutte le misere risorse che gli offrivano le piante medicinali della foresta.

Con sforzo supremo, aiutandosi colle mani e coi piedi, bestemmiando e gemendo egli si trascinò fino ai primi alberi e dopo di essersi appoggiato al tronco di un betel a poca distanza da un rivoletto dacqua, esaminò a lungo lorribile ferita.

Aveva ricevuto una moschettata quasi a bruciapelo a segno che la carne portava ancora le tracce del fuoco; la palla era penetrata nel fianco sinistro al di sotto della quarta costola e dopo di essere sdrucciolata fra le ossa, era andata a perdersi nellinterno senza aver toccato, a quanto pareva, le parti vitali.

A ogni modo se non era mortale, poteva diventarlo per mancanza di un pronto soccorso; Sandokan non lignorava, e ritrovando la sua potente energia anche in quei momenti supremi, dove le ore di vita potevano essere contate, si preparò a medicarsi con tutte le risorse che poteva disporre. Egli appressò le magre dita alla ferita le cui labbra erano gonfie pel continuo contatto dellacqua marina, e non badando alle orribili sofferenze, laprì, lesaminò con occhio pratico e la premè facendone uscire un rivoletto di sangue, dapprima leggermente tinto e poi di un bel rosso.

 Bene mormorò fra i denti. Si guarirà!

Vi era tanta energia in queste ultime parole, da credere che fosse lui il padrone della sua vita; vi era tanta fiducia in quellanima di ferro sostenuta dalla vendetta, che non dubitò più di guarire, ad onta delle scarse sue risorse, ad onta della mancanza daiuti, e della terra straniera su cui riposava.

Si trascinò senza emettere un sol gemito fino al rivoletto dacqua, la principale medicina che egli possedesse, e spruzzò ripetutamente la ferita, poi facendo a brani un lembo della sua camicia di fina battista, fece alcune filacce, e la fasciò con mano abile. Il più era fatto, si trattava ora di cercare qualche erba a lui solo nota e di godere un lungo riposo. Il mezzo di trarsi dimpiccio sarebbe venuto dopo.

Bevette qualche sorso dacqua per calmare la sete ardente che lo divorava cagionata da una violenta febbre, sostò ancora pallido e disfatto sostenendosi colle mani e colle gambe, credendosi sempre in procinto di venir meno, poi riprese le mosse, gemendo lugubremente. Bisognava cercar una di quelle erbe, ed egli era uomo da trovarla, e la trovò a poca distanza di un gruppo di bambù.

Era una pianticella alta al più sei pollici con ramoscelli pieghevoli, e foglie lunghe lunghe. Il pirata, facendo uno sforzo che gli costò una centesima imprecazione, strappò le radici e senza badare alla terra raggruppata attorno, si diede a masticarla finché lebbe ridotta a una specie di pasta gommosa, che applicò sulla ferita.

Aveva appena terminato che lenergia labbandonò per la seconda volta. Chiuse gli occhi che roteavano un cerchio di sangue, strinse i denti nuotanti fra la bava, cercò sostenersi brancolando come per trovare un appoggio alle mani e rotolò appié dei bambù bestemmiando Dio e Maometto. Dieci volte tentò rialzarsi digrignando i denti come una tigre, destando colle sue urla gli echi delle foreste, poi spossato cedette e cadde in una specie di svenimento che durò più di una mezzora.

Aveva appena terminato che lenergia labbandonò per la seconda volta. Chiuse gli occhi che roteavano un cerchio di sangue, strinse i denti nuotanti fra la bava, cercò sostenersi brancolando come per trovare un appoggio alle mani e rotolò appié dei bambù bestemmiando Dio e Maometto. Dieci volte tentò rialzarsi digrignando i denti come una tigre, destando colle sue urla gli echi delle foreste, poi spossato cedette e cadde in una specie di svenimento che durò più di una mezzora.

Quando tornò in sé una sete ardente lo divorava e la febbre gli faceva provare interminabili tremiti a onta del sole che brillava. Si stropicciò gli occhi, poi si mise a strisciare cercando raggiungere il torrente, ma non vi riuscì.

Allora quelluomo si rizzò sulle ginocchia alzando le braccia verso il cielo come una minaccia, come una sfida insensata e dal suo sguardo sembrò scaturissero scintille. Si credette più forte che mai.

 A me, mie forze! È duopo vivere!

Si rizzò girando attorno lo sguardo torvo, sostenendosi per un miracolo di potente energia e camminò o meglio barcollò fino al rivoletto dove cadde sulle ginocchia. Non voleva di più; tuffò le avide labbra fra le gorgoglianti acque, bagnò una seconda volta la ferita. Tentò una seconda volta di rialzarsi ma non fu capace e andò ad appoggiarsi ai piedi di un arecche, le cui sei od otto foglie di una sproporzionata grandezza (non minore di quindici piedi su sette di larghezza) proiettavano una benefica ombra.

Egli rimase cinque, dieci e forse più minuti immobile, col capo appoggiato al tronco dellalbero e le braccia conserte, guardando il mare che si apriva a lui dinanzi, quasi volesse indovinare ciò che succedeva a Mompracem, poi si scosse.

La sua faccia sabbuiò terribilmente, i suoi occhi saccesero duno strano fuoco, le labbra si contrassero fremendo mostrando i denti. Un pazzo scoppio di risa gli uscì dalla gola.

 Ah! esclamò egli con rauca voce che pareva proprio il ruggito di una tigre. Chi avrebbe detto che un giorno Sandokan avrebbe morso la polvere sotto i colpi di un incrociatore? Chi avrebbe detto che la Tigre della Malesia avesse a cedere dinanzi a un leone? E chi avrebbe detto che la Tigre ferita si ricovererebbe nella tana del nemico? Oh! quando vi penso sento ardermi il sangue dalla vendetta!

Una spaventevole bestemmia echeggiò sotto le volte fronzute di grandi alberi facendo tacere le scimie verdi che dondolavano sulle cime dei più alti rami.

Il pirata tornò a guardare il mare sempre tranquillo e la terra su cui riposava.

 Che importa continuò egli con maggior ira battendo coi pugni chiusi la terra, che importa se oggi vinto e ferito mi trovo su questa odiata terra delle giacche rosse, quando domani questi luoghi che mi hanno visto approdare spossato e dissanguato non avranno più abitatore alcuno e non conserveranno più traccia di sé?

«Che importa se oggi il leone ha il ruggito più forte della Tigre malese, quando domani sarà lui che morderà la polvere e sopra di lui sibileranno mille lingue di fuoco che struggeranno i suoi discendenti? Non si conosce ancor bene la potenza del mio braccio, il mio nome, il mio odio tutto accumulato su questo palmo di terra che dovrebbe fremere al mio soffio! Bene, battuto oggi, vincitore senza pietà domani!

Il pirata, così parlando, si animava come assaporasse di già la vendetta, agitava le braccia come brandisse una scimitarra di fuoco pronta a frantumare lintera Labuan, fremeva e si dimenava bestemmiando.

Il dolore della ferita lo ricondusse alla realtà; egli divenne cupo e si morse le dita.

 Pazienza, Sandokan continuò egli poi su altro tono, la tigre della Malesia sa spiare la sua preda senza fretta e senza rumore, cerchiamo imitarla. Non sarei più il medesimo uomo se avessi a dimenticare lonta di una sconfitta. Mompracem è laggiù al ponente, la vendetta mi darà la forza di raggiungerla, dovessi farmi schiavo di queste giacche rosse. Sono ancora il terribile Sandokan; malgrado la mia ferita, saprò trarmi dimpaccio anche sulla terra di loro no, sulla terra del fuoco, sulla terra del Borneo!

Stette unora nella medesima posizione, appoggiato al tronco darecche, collocchio scintillante, fisso sul mare le cui onde venivano a morire gorgogliando a pochi passi lontano, quasi volesse invocare da esse, che egli chiamava sorelle, un aiuto e porgendo orecchio al sibilo del sangue impoverito, al battito precipitoso del cuore e ai tremiti della febbre che lo divorava. Si sentiva stordito, spossato, ammalato; il sangue gli affluiva in testa e i denti battevano come galoppo formidabile; andò ancora a spegnere la sete al ruscello tuffandovi avidamente le labbra, le mani, la testa.

I dolori ricominciarono accompagnati da una spossatezza indefinibile. La ferita gli strappava gemiti, le forze lo abbandonavano a onta di tutta la sua energia. Lottò ancora dieci volte trascinandosi alla riva del ruscello per tuffar la fronte ardente e spegnere la sete che lo divorava, confondendo Dio e gli uomini, invocando il Portoghese, i suoi pirati, la sua Mompracem, poi ricadde sfinito appié dellarecche nel mentre che il sole dopo di aver compiuto il suo giro si tuffava nel mare dopo un breve quanto magnifico crepuscolo.

 La notte! La notte! esclamò il ferito sollevando la terra a lui dintorno colle unghie. Oh! io non voglio dormire, voglio esser forte, ancora forte. Il nemico è là mi potrebbe spiare no, non voglio dormire io non voglio!

Si portò ambe le mani sulla ferita dolorosa e si rizzò in piedi. Girò lo sguardo verso la foresta che diventava rapidamente oscura e al mare che diventava color dinchiostro, parve indeciso sulla via da prendere, poi si gettò sotto gli alberi, movendo diritto, senza saper il dove, né il perché. Camminava per non dormire, per non essere sorpreso dal nemico che forse vegliava; camminava per non cadere nelle sue mani.

Nel suo delirio credeva che gli Inglesi fossero là ad aspettarlo, pronti a precipitarsi su di lui appena addormentato. Credeva sempre di udire le grida degli inseguitori, i loro colpi di fucile, labbaiar dei loro feroci cani e fuggiva, ad onta della ferita, cadendo, rialzandosi, lasciando lembi del suo vestito ridotto a brani fra i cespugli, incespicando nelle radici, scalando alberi atterrati, precipitandosi nei ruscelli, bestemmiava, malediceva, ruggiva come la tigre agitando il suo kriss la cui impugnatura tempestata di diamanti scintillava come una face quando un raggio di luna vi batteva sopra.

Continuò la forsennata corsa per dieci minuti, internandosi sempre più nelle foreste, destando tutta la selvaggina dei dintorni, poi si arrestò anelante, smarrito. Alzò le braccia come un pazzo invocando la vendetta celeste su quella terra, che pareva ardesse sotto i suoi piedi, lasciò sfuggire un urlo da disperato e battendo laria colle mani, ruinò al suolo come un albero schiantato dal vento.

Allora alla febbre si aggiunse il delirio. La testa pareva fosse lì per iscoppiargli, pareva che dieci uomini la martellassero simultaneamente facendogli saltare il cervello. La ferita malgrado le filacce incominciò a sanguinare, ma pareva fuoco che uscisse dal petto e che ardesse le carni, la terra, le foreste e lisola intera. Le forze lo abbandonarono ancora nel momento che tentava riprendere la sfrenata corsa e ricadde sui cespugli.

 Via di qua via di qua! urlava egli in preda al delirio e alla febbre. Che volete voi, giacche rosse su questa terra? Via da questi mari sono miei! Largo alla Tigre largo ai pirati di Mompracem largo ai padroni di questo mare essi berranno il vostro sangue essi succieranno le midolle delle vostre ossa berranno nei vostri teschi arderanno le vostre navi le terre, le città, i villaggi! Che volete voi? Non avete terre in vostra patria? ladri, avvelenatori di popoli via di qua! via di qua!

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