Le novelle marinaresche di mastro Catrame - Emilio Salgari 3 стр.


 Il re, che era rappresentato dal mastro, si avanzava verso il capitano, seguito da tutto il suo stato maggiore, e dopo di aver ricevuto un lungo inchino da parte dellintera ufficialità, chiedeva al comandante: «Hai pagato il tuo tributo al re del mare?»

 «No», rispondeva il capitano.

 «Allora ti battezzo».

 Così dicendo, prendeva una tinozza piena dacqua e la rovesciava sul capo di lui inondandolo completamente.

 Quello era il segnale del battesimo generale. Le pompe, energicamente manovrate, inondavano passeggeri e ufficiali, e le tinozze si vuotavano sul capo di tutti. Torrenti dacqua correvano da prua a poppa, recando il dovuto tributo al re del mare, e la battaglia si prolungava fino al completo esaurimento delle forze di ambe le parti.

 La nave, così battezzata, poteva allora sfidare impunemente i furori degli oceani, poiché Nettuno la proteggeva; ma guai a non farlo! Il tributo dacqua si cambiava in una ecatombe umana, e papà Catrame, che è ancora qui, vivo per miracolo, lo sa!

Il vecchio marinaio per la terza volta sinterruppe, girando sullattento equipaggio un lungo sguardo, come per accertarsi che tutti lo ascoltavano religiosamente; ricaricò la pipa, laccese, indi continuò: Come vi dissi, la nostra corvetta era giunta nei pressi della linea: fra qualche ora doveva lasciare lemisfero settentrionale per entrare in quello meridionale.

 Il nostro mastro, rigido osservatore delle tradizioni marinaresche, si recò sul ponte di comando seguito da tutto lequipaggio, e disse al capitano: «La linea è vicina, signore; Nettuno esige il suo tributo».

 «Vada al diavolo Nettuno e tutti i suoi tritoni» rispose lo scettico.

 Il mastro impallidì.

 «Volete chiamare la sfortuna a bordo, signore», disse.

 «Me ne rido della collera di Nettuno, io».

 «Ma lequipaggio»

 «Basta così», rispose ruvidamente il capitano. «Sono padrone io a bordo: andatevene!»

 Salì sul ponte di comando, ordinò di sciogliere tutte le vele, perfino gli scopamari e i coltellacci, e, per colmo di spavalderia insensata, fece ammainare la bandiera, onde togliere al re del mare ogni idea che lo si volesse salutare.

 La corvetta, spinta da un buon vento, sinoltrò verso la linea; ma, cosa strana davvero, camminava più lenta del solito, e pareva che ad ogni istante fosse lì lì per arrestarsi. I marinai sussurravano che erano i tritoni del re del mare che si aggrappavano alla carena per non lasciarla passare; ma il capitano crollava il capo e faceva aggiungere sempre nuove vele a quelle già sciolte.

 A mezzogiorno preciso la corvetta passava la linea. Quasi nel medesimo istante un fremito agitò la tranquilla distesa delloceano, e dalla profondità degli abissi uscì un cupo rimbombo. Poco dopo unonda immensa sorse agli estremi confini dellorizzonte, si distese e venne a rompersi con cupi muggiti sulla prua della nave.

 Ci guardammo lun laltro, stupiti e spaventati, e, parola di papà Catrame, vi era di che spaventarsi. Interrogammo ansiosamente gli ufficiali: ci dissero che, per un caso strano, un fenomeno, non so se maremoto o cosaltro, era avvenuto nel momento preciso in cui passavamo la linea. Ci credete voi? Io no, e scommetterei che non ci credevano neanche gli ufficiali, perché erano pallidi come tutti noi.

 Anche il capitano era diventato serio serio, e la sua fronte si era aggrottata; ma egli era testardo come un guascone, e non voleva credere a Nettuno, né alla potenza di questo re.

 Ed ecco ad un tratto sorgere allorizzonte una nube, nera come il bitume. Voi non lo crederete forse; ma io, con questi occhi ho veduto che quella nube aveva tre punte acute, rassomiglianti a un gigantesco tridente. Eravamo tutti muti per lo spavento: ufficiali, marinai e mozzi erano diventati pallidissimi allo scorgere quella sinistra nube, nel cui seno guizzavano lampi sanguigni.

 Pareva che Nettuno avesse rizzato dinanzi a noi il suo immane tridente per impedirci il passo; e così doveva essere, poiché poco dopo il vento girava bruscamente al sud, soffiando di fronte a noi. Cresceva la sua violenza di minuto in minuto, poi era caldo come se uscisse dalle voragini dellinferno, e sollevava con forza irresistibile loceano, alzando la gran nube, che si estendeva minacciosamente sopra il nostro capo, e conservando sempre la sua bizzarra forma.

 Dagli abissi del mare uscivano muggiti e boati profondi, il vento urlava su tutti i toni attraverso il sartiame dellalberatura, nellaria rombava incessantemente il tuono e lampeggiava. Talvolta tra le raffiche furiose, ci pareva di udire una voce possente che ci gridasse: «Non passa la linea chi non mi saluta!»

 Invano il nostro capitano, che non voleva arrendersi al re del mare, comandava manovre, girava di bordo per prendere vento largo, e tentava di avanzare bordeggiando: la nave veniva respinta dalle onde e dal vento. Tre volte ripassammo la linea, e tre volte fummo ricacciati nellemisfero settentrionale.

 Scoppiavano le vele, cedevano le manovre correnti, si piegavano come stuzzicadenti gli alberi e i pennoni, si sfondavano le murate, cresceva la paura in tutti; ma il testardo non voleva capitolare, e tornava sempre più irato alla carica, deciso di mandarci tutti a bere nella grande tazza salata, piuttosto che retrocedere.

 Parve che la fortuna sorridesse allaudace, poiché a mezzanotte, dopo dodici ore di lotta disperata, la corvetta ripassava la linea, entrando nellemisfero australe. Ma Nettuno aveva decretato la fine del testardo comandante.

 Unora dopo, una montagna dacqua rovesciava la corvetta sul tribordo. Cosa sia poi accaduto, non ho mai potuto saperlo con precisione. Mi ricordo confusamente daver veduto non so quante onde precipitarsi con orribile frastuono sul povero legno, di aver udito urla, invocazioni disperate, gemiti, scricchiolii, uno spezzarsi di legni, poi più nulla.

 Quando rinvenni, mi trovai nel fondo di una scialuppa, solo sul burrascoso oceano. Come ero là? Non lo seppi mai.

 La tempesta mi portò lontano lontano dal luogo del naufragio. Rimasi in mare dieci giorni, mangiando una delle mie scarpe e aprendomi due volte una vena per dissetarmi.

 Quando una nave mi raccolse, ero ridotto in uno stato da far compassione: giallo come un melone, asciutto come unaringa, tutto pelle ed ossa. Dei miei compagni non ebbi più notizia; si sono salvati, o riposano in fondo agli abissi marini? Io lo ignoro ancora; ma se qualcuno fosse sopravvissuto a quellorribile catastrofe, lavrei incontrato in qualche angolo del mondo e invece nessuno mai mi apparve. Sono tutti morti: il cuore me lo dice.

Papà Catrame col dorso della mano spazzò via due lagrime che gli solcavano le incartapecorite gote, si mise la pipa in tasca e scosse malinconicamente il capo, brontolando: Non si creda più ora al re del mare!

 A quale re? chiese il capitano. A quello creato dalla vostra balzana fantasia? Non è così, mastro Catrame? Un tempo si poteva credere allesistenza di Nettuno forse, come si è creduto allesistenza delle sirene e a cento altre corbellerie; ma oggi no, vecchio mio. Simili storie si lasciano ai marinai vecchi e barbogi

 Ma la corvetta

 Una tempesta qualunque lha affondata, Catrame.

 Ma quellonda immensa

 Un maremoto, mastro mio.

 Ma quella nube

 Una nube pur che sia. Forse che non ne hai mai vedute di quelle che hanno tre, cinque, dieci, venti punte? Va a dormire, papà Catrame, e lascia là Nettuno che non è mai esistito e il battesimo della linea che non è un omaggio reso al re degli abissi, ma una carnevalata inventata da allegri marinai. Va, va e bevi il resto della mia bottiglia.

La campana dellinglese

Anche durante la terza giornata papà Catrame non comparve in coperta. Voleva essere solo per frugare nei vecchi ricordi, onde prepararci una delle sue funebri leggende, o letà gli pesava troppo sul groppone? Chi può dirlo?

Quando però alla sera lasciò la cala e salì sul ponte, mi parve che fosse di cattivo umore. Non salutò nessuno, non guardò né il mare, né lalberatura, e non chiese se fosse accaduto alcunché di straordinario. Andò a sedersi sul suo barile, si prese il capo fra le mani e parve assopito.

Dovevamo aspettarci qualche paurosa storia, poiché il narratore non era dun umore da farci ridere. Cosa mai ruminava nel suo vecchio cervello imbevuto di pregiudizi?

Niente dallegro di certo, tanto più chegli era un vecchio triste come le leggende che ci raccontava, e fantastico come le popolazioni che vivono sotto i nebbiosi orizzonti dei mari del nord.

 Papà Catrame, disse il capitano, cosa ti frulla pel capo questa sera, che hai un viso da funerale?

 Sono triste, rispose il vecchio, scuotendosi.

 Forse che il mio Cipro ti mette indosso la malinconia? Se è cosi, andrò a torcere il collo a quel birbone di musulmano che me lo ha venduto.

 Il vostro Cipro è eccellente.

 Forse che sei ammalato?

Papà Catrame scosse il capo, come per dire di no; poi alzò lentamente gli occhi e, fissandoli su di noi, disse, con voce che faceva un certo senso: Credete voi alla campana dei morti?

Ci guardammo in viso lun laltro con stupore, misto a una certa paura. Di quale campana intendeva parlare il vecchio mastro?

Non rispondendo nessuno, chiese: Avete mai udito suonare la campana sotto il mare, durante le tempeste, prima o dopo una disgrazia?

 Papà Catrame, disse il capitano, vaneggi, o sogni?

 No, rispose il vecchio con energia, non sogno e non vaneggio; e qualcuno di voi deve averla udita qualche volta.

 Le antiche storie narrano, dissegli, dopo alcuni istanti di silenzio, che durante le tempeste, le vittime del mare salgono alla superficie e suonano la campana, per chiedere ai naviganti una prece. Voi sorridete ora, perché non credete alle vecchie narrazioni marinaresche; ma aspettate un po! Più tardi, voi tutti che mi ascoltate, crederete alla campana dei morti, perché papa Catrame lha udita suonare in mezzo allampio oceano.

 Che storia funebre devesser quella che ci racconterai! disse il capitano. Se continui di questo passo, spaventerai tanto questi miei lupicini, che al primo approdo scapperanno tutti, per non ritornare più mai sul mare.

Papà Catrame alzò le spalle, accese il suo pezzo di sigaro per umettarsi la lingua, poi cominciò la sua terza novella, fra lattenzione generale.

 Avevo stretta amicizia con un marinaio inglese, imbarcato sullo stesso legno che io montavo. Non saprei proprio dirvi che tipo fosse: era stravagante, eccentrico come tutti i suoi compatrioti, superstizioso come una femminuccia e di umore sempre tetro.

 Parlava poco, beveva invece molto, e quando traballava, non faceva che parlare dei morti, poiché aveva sempre una lugubre idea nel cervello, quella di morire molto presto.

 Ogni volta che la nave lasciava un porto, egli veniva a bordo colle tasche completamente vuote, convinto che quello doveva essere lultimo viaggio. Del resto, era un eccellente camerata, con un cuore grande assai, e pagava sovente da bere ai compagni più poveri, faceva piaceri a tutti, e, soprattutto, era un bravo marinaio, rispettoso verso gli ufficiali, audace nelle tempeste e buon cristiano; poiché quantunque inglese di nascita, era irlandese di origine, e voi sapete che glirlandesi sono cattolici come noi.

Mastro Catrame si grattò la testa, come per fare scaturire dal cervello qualche cosa, poi disse: Si chiamava Aspettate un po la memoria si è fatta debole, e non ha mai ritenuto i nomi Sì, è così, quelloriginale si chiamava Morthon, un nome non allegro, come ben vedete; e forse per questo parlava sempre di morti.

 Avevamo lasciato i porti dellAmerica del Sud, diretti alle isole Mascarene, non ricordo più se a quella di Borbone, o a quella dellUnione. Morthon, fedele alle sue abitudini, aveva dissipato nelle taverne del Brasile e della Repubblica Argentina tutti i suoi risparmi, ed era tornato a bordo unora prima della partenza, colle tasche penzolanti.

 Avevo notato però che si era imbarcato di assai cattivo umore, e che il suo viso, butterato dal vaiolo, aveva unaria da funerale, come dovevo averla io poco fa, quando lo disse il capitano. Presentiva forse la sua imminente fine? Io lo credo, poiché quel povero marinaio non doveva più rivedere né le nebbiose spiagge della sua Inghilterra, né le verdeggianti sponde della Erinni (Irlanda).

 Un giorno, o meglio, una sera, che eravamo di quarto sul ponte, egli mi si avvicinò col viso disfatto, gli occhi strabuzzati, e mi chiese: «Lodi tu?»

 «Che cosa?» domandai io sorpreso.

 «Non odi proprio nulla?»

 «Nulla, fuorché il vento che geme fra il sartiame e le vele«.

 «È strano!» disse.

 «Compare Morthon, hai sonno stasera: va nella tua cuccia», gli dissi.

 Egli mi guardò con due occhi pieni di terrore, e si allontanò più tetro che mai.

 La sera seguente eccolo avvicinarsi ancora a me, col viso ancora stravolto e bagnato di un freddo sudore, e farmi le stesse domande. Io cominciavo a credere che il cervello di quel povero inglese si fosse guastato, e non vi feci più caso.

 Cinque sere dopo, trovandoci noi quasi in mezzo allAtlantico australe, Morthon, che di giorno in giorno diventava più cupo e più taciturno, mi afferrò bruscamente per un braccio serrandomelo come una morsa, e trascinatomi violentemente verso poppa, mi chiese con voce affannosa:

 «Ma non lodi tu?»

 «Tu sei pazzo, Morthon», gli risposi. «Quale strana idea tormenta il tuo cervello?»

 Egli mi guardò fisso, quasi non credesse alle mie parole, poi emise un profondo sospiro, come se gli si fosse levato di dosso un gran peso che gli opprimeva il cuore, e si terse il sudore che glinondava il pallido viso.

 «Non minganni tu?» chiese dopo pochi istanti. «Non odi proprio nulla? Ascolta bene, Catrame, ascolta attentamente».

 Mi curvai sul bordo, tesi per bene gli orecchi e ascoltai a lungo, ma nessun suono strano giunse fino a me allinfuori del rompersi delle onde. Guardai Morthon; egli mi fissava con due occhi da far paura, con unansietà estrema, come se dalla mia risposta dipendesse la sua vita.

 «Non odo nulla che possa spaventarti tanto», gli dissi. «Parla: cosa odi tu?»

 «Ho udito suonare poco fa una campana, e sono cinque sere che quei funebri rintocchi giungono ai miei orecchi», mi rispose con voce rotta.

 Lo guardai con spavento. Unantica leggenda marinaresca dice che, quando un marinaio ode la campana, è segno che sta per morire, poiché è la campana dei camerati che riposano nel fondo degli abissi oceanici che lo chiama. Se Morthon la udiva, evidentemente stava per morire, poiché i compagni lo aspettavano nellumida tomba, nel regno dei coralli.

 Non volli spaventarlo, e gli dissi che era una pazzia il credere alle antiche leggende, che la sua era unidea fissa nel cervello, e che non sinquietasse. Non mi rispose: sallontanò pensieroso, tetro, borbottando fra sé non so quali parole.

 Non lo rividi più per parecchi giorni. Seppi poi che si era ammalato, e che di quando in quando veniva colto da accessi furiosi. Due settimane dopo ricomparve in coperta, e appena mi vide, mi disse: «Catrame, so che sono condannato, perché la campana la odo sempre. Se morrò, ricordati di me; e quando mi getteranno in mare, recita una prece pel tuo vecchio camerata. Ma bada, Catrame! Se tu ti dimenticassi, verrei anchio a suonarti la campana»

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