Genue. Die V Martii A. D. 1506.
Vostro parente et bon servidoreGioan Aloyse.Così la lettera delleccelso ed illustre capo della gente Fiesca. E Fior doro, comebbe finito di leggere, alzò la fronte a guardare il marito.
Andrai? dissella. Gian Aloise ti prega.
Andare è presto detto; rispose Bartolomeo Fiesco. Io non ci ho cuore, nè gambe. Scriverò; non sono oramai uno scrittore? Ma sì; rispose egli, cercando di ribattere una obiezione che già vedeva balenare dagli occhi di Fior doro; io sono famelico di oscurità, che è principio di pace, e quellaltro laggiù vuol tirarmi in luce di meriggio. Qui si sta bene: non per niente è Gioiosa Guardia. Anche nostra madre, che è vissuta tanti anni senza di me, ha bisogno di rifarsi della lunga solitudine. Di voi non parlo, Juana, che mi dareste un ceffone più forte di quelli con cui accarezzate le guance alle finte povere della vallata. Qui si sta bene, ripeto, e meglio non si starebbe in nessun altro luogo. Desideri la vita operosa, con tutte le sue ansie, con tutte le sue illusioni e le sue delusioni, chi non lha ancora vissuta. È giusto che ognuno sistruisca, e paghi i maestri del suo. Quanto a me, ho imparato abbastanza; onde dirò col poeta, di cui non ricordo più il nome:
Il porto è qui: speme e fortuna addio;
Già mingannaste, or fate ad altri il gioco.
Ciò detto, fece un cenno a Polidamante. Ed era un cenno complesso, perchè Polidamante non istette dubbioso un momento, ma saltando lesto e scavalcando i due corpi distesi di Ovando e Bovadilla, venne ad abbrancare il fiasco del vino delle Cinque Terre per ricolmargliene un calice. Messer Bartolomeo ringraziò il coppiere con gli occhi, e tracannò il vino dun fiato.
Giovanni Passano taceva; e si capiva che tacesse, essendo stato egli il portatore della lettera di Gian Aloise, e incaricato al bisogno di confortare con nuove ragioni a bocca linvito che recava per iscritto. Ma il capitano Fiesco aveva dalla sua frate Alessandro e don Garcìa, che gli davano ragione due volte, approvandolo, e bevendo da capo con lui. La contessa Juana, per contro, era rimasta pensosa; e ciò non gli andava, parendogli di non esser sicuro della vittoria, se non gliela confermava il giudizio di Fior doro.
Non vi piace la mia risoluzione? dissegli.
Non dico questo, nè lo penso; rispose la contessa. Ma riconosco che ci sono le occasioni, pur troppo, in cui non possiamo fare quel che ci torna meglio.
Oh, per questo, vedrai che lo potrò; ribattè egli animandosi. Non sono uno schiavo, io; e Gian Aloise non iscrive da padrone. Diciamo piuttosto chegli tratta da re. Quando un re scrive vi vedrò volentieri, il cortigiano accorre senzaltro. Io non sono un cortigiano, e non ho ambizione di uffici illustri o lucrosi. E li merito, poi? Penso di no, ed ho il diritto di esser modesto, mi pare. Infine, che cosè che si pretende da me? Sono un uomo di vaglia. Come lo sanno? da che lo argomentano? Sono stato navigatore e soldato per passatempo, come prima ero stato scolaro a Pavia, e laureato in medicina e filosofia. Quel che sono mi son fatto da me, e me lo spendo a mio modo. Vengo meno con ciò agli obblighi del mio sangue? No. Queste terre me le hanno lasciate i miei maggiori; le tengo e le difendo; difendendole, son utile ancora ai Fieschi confinanti con me. Questo è il mio scoglio, e ci fo il mestiere dellostrica. Quando mai si è preteso che lostrica lasciasse di far lostrica, per fare il pesce spada?
Gli pareva daver vinto, con questo ragionamento, e che nessuno gli potesse rispondere. Ma in quel punto Ovando e Bovadilla levarono il muso e rizzarono gli orecchi, brontolando verso luscio:
Che cè? disse il Fiesco. Hanno sentito qualche cosa dinsolito?
Rumore nel cortile; rispose Polidamante. Sembra uno scalpitìo di cavalli.
Visite a questora? ripigliò messer Bartolomeo. Vedrete che sarà Filippino.
Ma che! disse allora Madonna Bianchinetta. Sono appena tre giorni che labbiamo veduto.
E tre giorni sono qualche volta un secolo; ribattè egli ostinato. Del resto, chiunque sia, non istarà molto a farsi vedere.
Comparve indi a poco sullingresso della cantinata un famiglio, che tirandosi da un lato della soglia, solennemente parlò:
Magnifico signore, è qui messer Filippino.
Ah, Filippino!.. Ma se lo dicevo io!.. Questo qua veramente mi ha preso a proteggere.
Fior doro si mosse verso il marito, cercando di chetarlo collo sguardo.
Già ecco balbettò egli allora. Volevo dire che mha preso a voler bene. E chi ci vuol bene, quando ne sia il bisogno, ci protegge. Andiamogli incontro; sarà il miglior modo di mostrargli gratitudine per tanta bontà.
Prima che il capitano Fiesco fosse in fondo alla sala, compariva messer Filippino sulluscio; Filippino il bello; Filippino il biondo, come lo diceva spesso e volentieri il padrone di casa. Un bel giovane infatti, e dun bel biondo di stoppa, come la natura benigna ne dispensa qualche volta alla umanità bisognosa.
Frate Alessandro e don Garcìa, fatta riverenza alle dame, erano spulezzati al primo annunzio della visita illustre. Li avrebbe seguiti volentieri Giovanni Passano, ma non nebbe il tempo. Del resto, arrivato quel giorno come un messaggero di Gian Aloise, egli era anche in quella casa un parente. Non appariva dunque un intruso; non doveva riuscire importuno, se anche i due Fieschi avessero a parlare di cose per le quali era venuto alla Gioiosa Guardia egli stesso.
Siete dunque voi, Filippino? gridò il capitano Fiesco, dischiudendogli quasi le braccia, ma fermandosi a mezzaria per istendergli le mani. A questora ci capitate? Di passaggio, mimmagino, e vorrete pernottare da noi?
No, non di passaggio, vengo appunto per voi; rispose Filippino, arrossendo un poco. Del resto, è sempre piacevole capitare a Gioiosa Guardia, che è tanto ospitale e benevola. Sapete bene che quante volte ho da passare di qua, non mi lascio sfuggir loccasione di riverir le dame e di stringer la mano a Voi. Questa volta sono ambasciatore, o messaggero, o cavallante, come vorrete chiamarmi. Ecco una lettera di Gian Aloise.
Delleccelso Gian Aloise? esclamò il capitano Fiesco. La seconda in un giorno!
Infatti, sì; rispose Filippino. Egli mi ha detto della commissione che aveva data al nostro Giovanni Passano. Ma nella lettera a lui consegnata aveva dimenticato un punto di capitale importanza. Allora egli ha chiesto a me se mi sarei sentito
Di montare a cavallo, non è vero? interruppe messer Bartolomeo. E di galoppare a Gioiosa Guardia, dove gli amici son sempre così lieti di vedervi? Ma galoppando così, Voi avrete anche dimenticato di cenare; e se permettete, simbandirà subito per Voi. Polidamante!..
No, vi prego, non fate nulla di nulla. Sapevo di non giungere in tempo per la cena, ed ho mangiato un boccone dalloste del Rupinaro. Piuttosto, soggiunse Filippino con grazia, lho ancora qua nella gola, e gradirò che mi diate da bere.
Allora, faccia Polidamante lufficio suo, e Voi siate contento a modo vostro. Allospite non bisogna dar noia, per desiderio di mettergli la casa sulle spalle; conchiuse saviamente messer Bartolomeo. Ma intanto, seguitò, volgendosi al Passano, eccoti qui un oste del Rupinaro, che tu hai saltato nella tua rassegna stradale.
Non lho saltato; rispose il Passano. Ho solamente risposto di sì a tutti i nomi che Voi dicevate.
E perchè non ho detto quello, tu lhai taciuto, manigoldo? Ma leggiamo questa lettera, che dovrebbessere la seconda ai Corinzii.
Mentre il capitano Fiesco parlava così, disponendosi ad aprire la lettera, messer Filippino faceva riverenza alle dame. Fior doro, contro lusanza delle nuore, stava molto ai panni della suocera; e messer Filippino, che aveva una voglia spasimata di bisbigliare qualche cosa molto sottile e molto profonda a madonna Juana, dovette contentarsi di dirne molte assai comuni e leggiere a madonna Bianchinetta, parlando della salute, del tempo, della strada percorsa, e di simili altre bazzecole. Ma anche a ragionare dinezie cè il modo di andar nel sublime, o almeno di rasentarlo, con un buon lavoro docchiate compassionevoli, tremiti di voce e soavi inflessioni daccento. Ora in questarte Filippino era passato maestro.
Gli occhi di Fior doro, badando poco agli atti di Filippino, andavano spesso al marito, spiandone i moti e ricercandone lanimo; cosa facilissima, perchè egli non usava nascondersi mai. Così lo vide batter le labbra, leggendo, tentennare il capo, e finalmente richiuder la lettera con un atto di grande impazienza.
Ebbene, ve lo dicevo io, che non si può far sempre quel che si vuole? gli bisbigliò ella, che già si era staccata dal fianco della suocera, per accostarsi a lui.
Ma sì! Fior doro ha sempre ragione; rispose egli avvilito. Questo è più forte dellaltra. Leggila a nostra madre.
Fior doro prese il foglio dalle mani di lui, e come aveva letto il primo sotto gli occhi di madonna Bianchinetta, così lesse il secondo. Qui Giovanni Passano si mosse per andarsene. Messer Bartolomeo voleva trattenerlo, non vedendoci ragione; ma il suo luogotenente ottenne licenza con una argomentazione invincibile.
Se quello che scrive Gian Aloise è tale da poterlo sapere ancor io, me lo potrete dire domani, prima chio parta; se non è tale, potrete tacerlo, ed io sarò felice di non averlo ascoltato. Voi anche mi avete insegnato a non esser curioso; e i fatti del prossimo sono spesso così poco interessanti! Aggiungete che in ogni cosa io sono vostro, ed altro non mi piace che di obbedirvi. Ora, se permettete, vo a prendere il fresco e a fare un po di chiacchiere con quei due, che sicuramente maspettano.
Giovanni Passano aveva fatto un altro ragionamento tra sè, in forma di dilemma. Una delle due, diceva; o messer Filippino sè fatto aggiungere un poscritto per averne occasione a capitare anche lui, e non bisogna essergli testimoni duna puerile alzata dingegno; o Gian Aloise ha pensato di mandare per un secondo messaggero le cose più importanti o più gelose che non aveva confidate al primo, e non è bene che il primo resti a sentire ciò che porta il secondo. I grandi vanno serviti con discrezione, non mostrando troppa curiosità di capirli. Queste massime il Passano non le avrebbe pensate al Mondo nuovo; ma le doveva pensare e praticare nel vecchio, dove infine voleva far la sua strada, da onestuomo, sì, ma senza dar nello sciocco.
La lettera di Gian Aloise diceva così:
A messer Bartolomeo Flisco nostro caro cugino et strenuo cavalliereIl nostro Giovan Passano vi avrà data a questora una lettera mia et significata la nicissità grande in che vivemo del vostro consiglio di valente huomo qual siete in così giovine età et forte non manco di braccio. Del quale come del consiglio poderia esser uopo, se Vi parerà esser da ciò, come noi Vi stimiamo. Sappiate ora che non solo è turbamento in città et gran confusione, per li popolari che sempre vorriano mettersi in loco di nobili, con dire che essi son nati in casa soa, di gente municipali romane et noi di fuori et stirpe di barbari: del che non so come possino haver certezza, non leggendosi in carta veruna se non questo, che i loro ascendenti furono gente della plebe arricchiti in vender grasce et navigar trafficando. Nè questo solo; ma ancora vorriano che saiutassi Pisa contro larmi di Firenze, mettendo il Comune in tale impegno che non sia poi sicuro di sopportare. Etiam non possiamo noi dimenticare che per muover con oste a Pisa bisognerà passare per le terre del nostro capitanato; dove ogni grosso esercito che passasse facilmente sarìa tratto da desiderio a mutare quello che ivi è stato stabilito per lonore de la nostra casata; et contrariamente un piccolo soccorso non bastando per salvezza di Pisa, trarrebbe le vendette di Fiorenza, non già contro il comune di Genoa lontano, ma contro li feudi nostri in val Magra, quali assai ne dee premere di tener fortemente. Ondio meglio stimo che un potente signore abbia Pisa, il quale ne assicuri et conservi la libertà contra Firenze, potendo misurare gli aiuti al bisogno et non lasciarsi cogliere alla sprovveduta, come senza fallo userebbe il Comune nostro, sempre in tumulti et trambusti et confusione babelica. Il carico di tener Pisa par dunque a noi destinato dal cielo, non ad altro signore che già briga per ottenerlo, mettendosi in vista. Uomo nostro, intendente et valoroso per andar colà, sentir le opinioni et provvedere con pronte risolutioni io non vedo altri che Voi, nostro cugino amatissimo; che se gli animi dei Pisani, come io credo, fussino a noi inclinati, Voi subito di studioso ambasciatore e consigliero potresti mutarvi in capitano di armati, avendone noi già in Lunigiana ammassati quanti basteriano per il primo bisogno, e gli altri sarian pronti a seguire. Meglio di tutto ciò parleremo in Violato, ove è sempre gran desiderio de la vostra persona. Venite dunque; e se non basta a muovervi la nostra amicizia, Vi muova il consiglio di madonna Bianchinetta, orgoglio del nostro parentado, a la quale bacio divotamente le mani, come alla eccelsa sposa vostra incomparabil Fiordoro.
Genoa, li V martio del 1506.
Sempre al vostro servitio et bon cuginoGio: Aloixe.E indirizzo e firma apparivano un po diversi dalluna lettera allaltra. Ma così erano gli uomini di quel tempo, che allortografia badavano poco, anche per il fatto di non averla troppo sicura. Per altro, come si riconoscerà dal contesto di questultimo messaggio, vedevano chiaro in quel che volevano, e non si lasciavano tirare nè di qua nè di là da pericolose incertezze.
Madonna Bianchinetta e la sua bellissima nuora erano rimaste sopra pensiero. Proponeva gran cose, leccelso Gian Aloise, e per accettare, come per ricusare il partito, bisognava meditarci su. Messer Filippino frattanto aggiungeva di suo, commentando lepistola:
Siamo in famiglia, e si può dire ogni cosa. I Pisani non vogliono essere oppressi da Fiorenza; e tanta è la ripugnanza loro a quel giogo, che vogliono piuttosto quello di Genova, dimenticando il colpo mortale della Meloria. Potrebbe Genova accettare linvito, e noi di casa Fiesca goderne, se Genova fosse nostra più che non sia. La teniamo in parte, preponderandovi con laiuto del re Cristianissimo, a cui siamo daiuto pur noi, tenendogli in fede la Repubblica. Ma più teniamo e con maggior sicurezza la Riviera di Levante, quanta nè dallAppennino al mare tra la Scrivia e la Magra, non senza forti scolte nelle valli del Taro e della Baganza. A noi, non a Genova, si spetta di andare in soccorso di Pisa. Ma cè qualcun altro che vorrebbe mettersi avanti in nostro luogo. Questaltro non ve lo dice la lettera di Gian Aloise, perchè non tutto si confida allo scritto; ma egli è Gian Giacopo Trivulzio, il quale, se non forse quanto Gian Aloise Fiesco, è pur molto in grazia del re Cristianissimo. Non pare a Voi che in questo caso avrà ragione il primo che metta innanzi le mani? A questo occorre un uomo assai destro, che vada ad offrire gli aiuti, a concertarne il modo; e tutto ciò non in nome del Comune, che non sarebbe prudente consiglio aggravar dellimpresa, ma di quelluomo che in Genova è più potente e a Pisa più prossimo per lampio dominio. Accettano? Sì, perchè nella estremità a cui sono ridotti non hanno altro partito. E Voi allora vi potete scoprir meglio, come capitano della gente che aspetterà un cenno vostro per accostarsi alla città, fronteggiare i Fiorentini e lasciare a terra il Trivulzio con le sue ambizioni. Questo in digrosso il pensiero del nostro eccelso parente; le cose minute vi dirà egli in Violata.