Le attività produttive del polo industriale e la dinamica occupazionale tra gli anni Settanta e gli anni Novanta
A metà anni Settanta lâoccupazione stimata a Porto Marghera era attorno alle 35.000 unità , prevalentemente concentrata nellâindustria di base, ad elevato consumo energetico, con forte dipendenza extraregionale, come tutte le zone industriali costiere di prima generazione. Il cosiddetto modello Mida ( Maritime industrial development areas) è stato messo a punto nel delta del Reno (lâarea del Botlek nel porto di Rotterdam è il primo modello realizzato) e imitato poi sia nei Paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo. Lâattracco della nave alla banchina di uno stabilimento e il successivo sbarco della materia prima in âautonomia funzionaleâ costituiscono le prime fasi del processo produttivo. Date queste caratteristiche, Porto Marghera si è sempre proposta come ubicazione ottimale per lavorazioni di base (3. Coses e Comune di Venezia (a cura di), Porto Marghera. Proposte per un futuro possibile, Angeli, Milano 1990, pp. 16-17). Fino agli anni Novanta, dei grandi gruppi industriali presenti, uno solo era privato: la Montedison (la proprietà , poi, si alternerà dalla mano privata a quella pubblica di Eni e viceversa). Tre erano direttamente dipendenti dallo Stato: Iri, Eni ed Efim. Questi quattro colossi industriali nel 1987 occupano un insieme di aree pari a 1.079 ettari, vale a dire il 78,9% del totale del polo industriale e impiegano 14.531 addetti, pari al 73% del totale. I dati riportati in tab. 1 consentono di seguire la dinamica del numero di unità locali e addetti presenti a Porto Marghera dalla fine degli anni Settanta allo scadere del secolo. Agli oltre 26.600 addetti del 1978 si possono aggiungere 2.535 addetti nelle imprese di appalto nei 17 maggiori stabilimenti di Porto Marghera (stima primo trimestre del 1979). Gli addetti totali salgono, così, a quella data, a oltre 29.000. Circa lâ80% dei lavoratori risultava impiegato in 14 aziende collocate nella classe dimensionale superiore ai 500 addetti.
Tra gli addetti diretti il 47,1% era impiegato nel settore chimico (12.557), il 20,6% nella metallurgia (5.460), lâ11,2% nella cantieristica (2.972), il 6,3% nella lavorazione dei minerali non metalliferi (1.674), il 6,2% nei derivati del petrolio (1.654), il 5,8% nella meccanica (1.552). Allâinterno della chimica le produzioni risultavano concentrate nei comparti della chimica di base (addetti 8.133), fertilizzanti (2.228), fibre sintetiche (1.835); nel metalmeccanico le produzioni principali erano quelle dei settori dei non ferrosi (3.427 addetti), cantieri navali (2.972), siderurgia (1.870) (4. Rielaborazione su dati Coses).
Dieci anni dopo, nel 1988, lâoccupazione complessiva risulterà ridotta di oltre 9.000 unità con un calo pari al 35%. Le linee della trasformazione sono evidenti: le aziende di classe superiore ai 500 addetti si riducono di oltre la metà e i loro occupati calano del 52%; le aziende più piccole di classe 10-49 addetti triplicano, mentre gli occupati crescono solo dellâ87%; le aziende di classe 50-99 addetti calano del 20% ma gli occupati restano stabili; infine nella classe 100-499 addetti le aziende crescono del 33% e gli occupati aumentano del 30%.
Dieci anni dopo, nel 1998, lâoccupazione complessiva risulta ridotta ulteriormente di oltre 4.000 unità con un calo pari al 25%. Le aziende di classe superiore ai 500 addetti diminuiscono ancora e i loro occupati calano del 52%; le aziende di classe 10-49 addetti quasi quadruplicano, mentre i loro occupati crescono del 250%; anche le aziende di classe 50-99 crescono significativamente, mentre nella classe 100-499 addetti le aziende e gli addetti si riducono, grossomodo, della metà . Per quanto riguarda le variazioni dellâoccupazione per settori, si osserva una riduzione generalizzata: nella chimica gli addetti calano, tra il 1978 e il 1998, da 12.557 a 3.674 e il peso sul totale passa dal 47% al 28%; nel settore petrolifero si passa da 1.654 a 534 addetti; nella metallurgia e siderurgia da 7.330 a 1.221 addetti e, in termini di peso, dal 18% al 9%. Un andamento diverso è quello del cantiere navale ex Breda, del gruppo Fincantieri, dove al dimezzamento degli addetti diretti corrisponde la contemporanea e fortissima crescita dei dipendenti delle imprese esterne che operano in appalto, grazie alle grosse commesse acquisite nel settore crocieristico. A tale andamento dellâoccupazione nel polo industriale non corrisponde, però, una riduzione delle quantità prodotte. Infatti «nel decennio 1977-1987 (...) vi è stata una forte caduta dellâoccupazione soprattutto negli stabilimenti legati agli input dal mare, ma ciò nonostante vi è stato nellâinsieme un aumento della produzione» (5. Coses e Comune di Venezia (a cura di), Porto Marghera. Proposte per un futuro possibile, Angeli, Milano 1990, p. 28).
La tab. 2 fotografa lâassenza di una correlazione tra addetti e produzione. Nella storia recente di Porto Marghera si possono individuare tre fasi: negli anni Settanta lo sviluppo di Porto Marghera è lâaspetto prevalente; negli anni Ottanta si registrano una lunga fase di ristrutturazione e la dismissione di alcune produzioni, con una forte riduzione degli occupati; negli anni Novanta il mutamento del vecchio modello industriale diventa radicale.
Uno sviluppo produttivo e occupazionale sembra durare fino a metà anni Settanta, quando inizia a far sentire, in modo manifesto, i suoi effetti il cambio di fase dellâeconomia internazionale: un rallentamento della crescita, infatti, presente sin dal 1967, si materializza con forza a seguito dellâesplodere, nel 1973, della crisi petrolifera in conseguenza della sospensione di forniture di greggio da parte dei Paesi arabi, come ritorsione verso i Paesi considerati alleati di Israele. Si aggiungono poi, nel 1979, gli effetti della seconda crisi petrolifera, dettata questa volta dallâIran, che blocca le sue esportazioni di greggio. Il polo industriale, che faceva leva sulle trasformazioni di materie prime a elevato consumo energetico, vive di conseguenza ripetute crisi aziendali. Alla fine degli anni Settanta dunque si erano già manifestati numerosi segnali di una rilevante e imminente trasformazione (6. Coses e Comune di Venezia (a cura di), Porto Marghera. Proposte per un futuro possibile, Angeli, Milano 1990, pp. 95-97). Gli anni Ottanta finiranno per caratterizzarsi per la drammatica crisi produttiva, che i dati occupazionali riflettono solo in parte: nei rilevamenti sullâoccupazione risultano occupati centinaia di lavoratori che in realtà sono in cassa integrazione, sebbene vi sia la certezza che molti non saranno più rioccupati. Dâaltro canto nei calcoli sono esclusi, per la difficoltà a censirli, i lavoratori indiretti, come quelli che operano nelle manutenzioni o nella logistica della grande azienda. Chimica, cantieristica di costruzione e di riparazione, alluminio, rame, zinco, siderurgia, imprese di appalto, meccanica, carpenteria sono tutti settori che si misureranno con processi di ristrutturazione volti a razionalizzare le attività produttive, cioè produrre di più con meno addetti e, quindi, con un netto peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita per lâinsieme dei lavoratori. Si registra, anche, una forte tendenza al ridimensionamento delle attività , a volte limitato alla chiusura di alcune linee di produzione (come i forni per la produzione primaria dellâalluminio), altre volte, invece, si verificherà la chiusura totale di aziende (come lâAlluminio Italia di Porto Marghera o la Preo, azienda siderurgica privata). Molto dipende dallâandamento del mercato in cui le aziende operano; in alcuni casi decisivo per continuare lâattività è lâIntervento degli enti locali, della Regione o dello Stato, spesso teso a tamponare i negativi effetti sociali delle crisi aziendali. Dopo la crescita degli anni Settanta e il declino degli anni Ottanta, gli anni Novanta si caratterizzano per il rallentamento delle espulsioni di manodopera dalle fabbriche e, ancor più, per la diffusa consapevolezza della necessità di riequilibrare il modello industriale basato sulle grandi aziende soprattutto pubbliche e concentrato sulle produzioni di base. Così nel settore petrolchimico si intensifica il processo di automazione, mentre in Montedipe, Agrimont, Ausimont si portano avanti soluzioni organizzative nuove. Nel settore alluminio, invece, si cerca di riconvertire le attività passano dalla produzione primaria ai prodotti finiti, utilizzando la nuova società Alutekna. Nella cantieristica si passa dalla costruzione delle tradizionali navi commerciali alle sofisticate navi passeggeri, sempre più imponenti, e lo stabilimento della Fincantieri di Porto Marghera si colloca tra i protagonisti a livello mondiale in questo nuovo mercato. à da ricordare anche lâimpatto delle decisioni prese in sede europea che pongono ai singoli Stati precise condizioni volte a riorganizzare su scala europea le industrie nazionali. Numerose leggi di settore intervengono a disciplinare le attività produttive, in termini di quantità di produzione, aiuti pubblici, impatto ambientale, ecc. Il caso Fincantieri (7. Aiello A., La Fincantieri e la crisi della cantieristica italiana, in «Economia e società regionale», 2, 2004) è paradigmatico della ristrutturazione industriale avvenuta su scala europea. E lo stesso è accaduto anche in altri settori industriali come la siderurgia, la metallurgia non ferrosa, la chimica. Gli interventi europei volti a eliminare gli aiuti di Stato alle imprese, cioè a eliminare la concorrenza sleale nel mercato comunitario, hanno mirato a determinare una gestione più oculata delle risorse. Da qui profonde ed estese ristrutturazioni e riorganizzazioni produttive, con interventi sugli impianti, sullâorganizzazione aziendale, sullâoccupazione.
La âVertenza Veneziaâ. Una gestione unitaria del polo industriale?
Il 5 febbraio 1981, al cantiere navale Breda di Porto Marghera è convocata dalla Federazione Cgil, Cisl e Uil di Venezia una riunione delle segreterie dei sindacati di categoria e dei Consigli di fabbrica per discutere «sulla preoccupante situazione di Porto Marghera, e soprattutto per le prospettive del Polo, che si lega organicamente con la crisi del sistema delle Partecipazioni Statali e con gli inaccettabili ritardi nella costruzione di una strategia di riorganizzazione dellâindustria di base a seguito della crisi energetica...» (8. Ghisini G., Sintesi della relazione tenuta a nome della segreteria Cgil, Cisl e Uil, Porto Marghera, febbraio 1981, dattiloscritto). Nella relazione dei sindacati si chiede «un contributo più efficace» dei partiti politici e delle istituzioni locali, in vista di un progetto del sindacato su «Marghera e sullâarea veneziana». Nasce così la Vertenza Venezia, un « progetto di sviluppo economico, produttivo e occupazionale dellâarea veneziana» (9. Di Renzo T., Eravamo bonzi. Ricordi senza remore delle lotte sindacali del 1980. Il petrolchimico di Porto Marghera, Marsilio, Venezia 1988, pp. 145-148). Si mira, con essa, a unificare le lotte dei lavoratori sui problemi occupazionali, evitando di rincorrere le singole situazioni di crisi. Vengono individuate con precisione anche le controparti cui le rivendicazioni sono state indirizzate: Associazione Industriali, Costruttori edili, Confcommercio, Associazione piccole aziende, Intersind e Asap (associazioni di aziende industriali pubbliche poi confluite in Confindustria), come pure Governo, Regione, Comune e Comprensorio. Il primo sciopero a sostegno delle richieste sindacali, il 17 febbraio 1981 in piazza San Marco a Venezia, con lâintervento conclusivo di Luciano Lama, segretario generale della Cgil nazionale, vede la partecipazione di oltre 30.000 persone.
Il limite di queste iniziative è che ci sono stati risultati politici importanti ma non pratici. E senza risultati pratici i problemi di Marghera non si risolvono. Dobbiamo interrogarci più a fondo sul perché Governo, Regione, Comune, padronato, partiti, si sono trovati dâaccordo sugli interventi proposti dal sindacato e alla fine... sono venute a mancare le cose pratiche. Come pure dobbiamo interrogarci su un altro limite, che perdura e che rischia di diventare un vero pericolo: questa piattaforma Venezia è nata per lâinsieme dei lavoratori veneziani, non può essere solo la piattaforma dellâindustria o di una parte di essa. (10. Aiello A., Articoli, interviste, interventi, 1975-2004, Relazione introduttiva Comitato Direttivo Fiom-Cgil, Venezia 30 marzo 1983, dattiloscritto)
Per il sindacato era lâintero polo industriale a essere posto in discussione. Da qui, lâesigenza di avere â innanzitutto dal Governo â risposte che coniugassero le politiche industriali ed economiche nazionali con il riassetto del territorio. Non una vertenza di âcampanileâ, corporativa, ma al contrario aperta al contributo delle forze politiche e istituzionali e dello stesso sindacato nazionale. I bisogni e le aspirazioni dei sindacati veneziani dovevano però scontrarsi con i bisogni e le aspirazioni di altri soggetti presenti nellâarena politica.
Quale politica industriale: territoriale o nazionale di settore?
Facendo leva sulla competitività dei siti industriali, si mirava a non subire una politica industriale calata dallâalto, frutto di decisioni tutte nazionali, allâinterno delle quali non poco peso finivano per avere le questioni sociali. Comunque non sempre il primato dellâefficienza avrebbe privilegiato Porto Marghera â e in generale il Nord â a discapito del Sud Italia, considerato spesso come unâarea assistita. Valga per tutti il caso Italsider: il centro siderurgico di Taranto avrebbe potuto, da solo, far fronte allâintero fabbisogno di produzione di acciaio del Paese. Una valutazione prettamente economica avrebbe dato ragione alla scelta di puntare tutto su Taranto, ma poi chi avrebbe gestito le negative e pesanti ricadute e cioè lo stop alle attività a Napoli, Genova, Trieste, Venezia? Sarebbe stata una scelta comprensibile se basata su una politica di settore e basta: ma diventava subito dopo una scelta inaccettabile se vista nellâottica dei territori. Lâiniziativa veneziana poteva, perciò, essere considerata come una sorta di fuga in avanti, un pensare a sé a discapito degli altri. à significativa, a tale proposito, unâintervista rilasciata a Toni Jop del quotidiano LâUnità , il 27 maggio 1981, dallâallora ministro delle Partecipazioni Statali, Gianni De Michelis: (11. Jop T., De Michelis: âTagliare per rilanciareâ.Pellicani: âChi è mancato è il governoâ, «LâUnità », 27 maggio 1981).
âLâAlumetal di Fusina raddoppierà ?
Rinviamo di tre anni il raddoppio e intanto facciamo funzionare Bolzano. Non chiudiamo lâAlumina ma non la lasciamo così comâè. Facciamo funzionare lâElemes.
Quindici giorni fa, lâEfim ha chiesto al governo 300 miliardi per finanziare un programma che prevede anche e soprattutto il raddoppio di Fusina; ora lei afferma cose molte diverse da quelle dette dallâEfim...
Ma è una cosa allâitaliana; per lâalluminio seguiremo la stessa strada battuta per la siderurgia.
Breda: si âtagliaâ o no?
Non si taglia in modo drastico se ci si muove subito.
E la progettazione resta al cantiere o no?
Lo sanno anche loro: parte resta e parte va a Monfalcone.
Petrolchimico: si passerà dalle attuali 350.000 tonnellate del cracking alle previste 500.000?
No: il previsto âsbottigliamentoâ non ci sarà per ora; prima pensiamo al Sudâ.
Al ministro risponde Gianni Pellicani allora vicesindaco di Venezia:
âIl ministro è caduto in contraddizione... alludo in particolare allâannuncio dellâabbandono del raddoppio del cracking e dellâimpianto Alumetal di Fusina... non câè tanto tempo a disposizione... ma proprio per questo è necessario che il governo, a cui competono direttamente o indirettamente tante decisioni per Porto Marghera, intervenga tempestivamente in termini precisi e non con programmi e impegni genericiâ.
Il tentativo di procedere con un progetto territoriale non riuscì appieno ma fu utile per orientare le lotte dei lavoratori veneziani ed evitare di marciare su una logica volta alla difesa dellâesistente. Il progetto servì da bussola non solo per i sindacati veneziani, nelle discussioni e nella formulazione di proposte che, dopo la metà degli anni Ottanta, si realizzarono a livello nazionale.