Venezia. Ciminiere Ammainate - Alfredo Aiello 3 стр.


“L’Alumetal di Fusina raddoppierà?

Rinviamo di tre anni il raddoppio e intanto facciamo funzionare Bolzano. Non chiudiamo l’Alumina ma non la lasciamo così com’è. Facciamo funzionare l’Elemes.

Quindici giorni fa, l’Efim ha chiesto al governo 300 miliardi per finanziare un programma che prevede anche e soprattutto il raddoppio di Fusina; ora lei afferma cose molte diverse da quelle dette dall’Efim...

Ma è una cosa all’italiana; per l’alluminio seguiremo la stessa strada battuta per la siderurgia.

Breda: si “taglia” o no?

Non si taglia in modo drastico se ci si muove subito.

E la progettazione resta al cantiere o no?

Lo sanno anche loro: parte resta e parte va a Monfalcone.

Petrolchimico: si passerà dalle attuali 350.000 tonnellate del cracking alle previste 500.000?

No: il previsto “sbottigliamento” non ci sarà per ora; prima pensiamo al Sud”.

Al ministro risponde Gianni Pellicani allora vicesindaco di Venezia:

“Il ministro è caduto in contraddizione... alludo in particolare all’annuncio dell’abbandono del raddoppio del cracking e dell’impianto Alumetal di Fusina... non c’è tanto tempo a disposizione... ma proprio per questo è necessario che il governo, a cui competono direttamente o indirettamente tante decisioni per Porto Marghera, intervenga tempestivamente in termini precisi e non con programmi e impegni generici”.

Il tentativo di procedere con un progetto territoriale non riuscì appieno ma fu utile per orientare le lotte dei lavoratori veneziani ed evitare di marciare su una logica volta alla difesa dell’esistente. Il progetto servì da bussola non solo per i sindacati veneziani, nelle discussioni e nella formulazione di proposte che, dopo la metà degli anni Ottanta, si realizzarono a livello nazionale.

Fu proprio De Michelis, nella veste di vicepresidente del Consigli dei Ministri, alla fine degli anni Ottanta, a ricordare le motivazioni che impedirono la costruzione di un tavolo negoziale nazionale incentrato su Porto Marghera:

“Le cose avvenute sono state realizzate conseguentemente a un disegno unitario, sia per le trasformazioni dei singoli settori, sia per Porto Marghera nel suo complesso. Un disegno unitario che però ha avuto, per ragioni inevitabili, il suo cuore a Roma. Non per espropriare Venezia delle sue competenze, ma perché gli interventi da realizzare erano collegati a più generali processi di ristrutturazione – della chimica, dell’alluminio, della cantieristica, della siderurgia e quant’altro – che non potevano che essere governati a scala nazionale. Era evidente che necessitava un approccio di tipo verticale, a monte; altrimenti sarebbe stato impossibile sapere cosa fare qui, a Venezia, nelle singole attività presenti nella zona industriale a fine anni Settanta. Ma bisogna ricordare che il piano di trasformazione ha avuto anche un suo collante e un suo coordinamento di tipo orizzontale, in sede locale. E il merito è stato della classe dirigente di questa città”. (12. Coses e Comune di Venezia (a cura di), Porto Marghera. Proposte per un futuro possibile, cit., p. 438).

Porto Marghera e centro storico: industria e salvaguardia

Uno dei principali aspetti della complessità di Porto Marghera è l’essere adiacente a una città storica come Venezia. Due mondi distinti e lontanissimi su più piani. Dal punto di vista economico il centro storico è sempre più concentrato nelle attività legate a un turismo in forte espansione, mentre la terraferma vive in buona parte sul reddito creato dalle attività industriali e commerciali. Dal punto di vista “ecologista” addirittura due mondi contrapposti: un’area industriale con possibili rischi ambientali a poche centinaia di metri da un museo a cielo aperto, di storia millenaria, unico e irripetibile. Entrambi i luoghi vivono processi di trasformazione non sempre positivi. In un convegno della Fiom veneziana dell’aprile del 1991 ci si chiedeva, guardando l’esodo dal centro storico di Venezia, se il calo continuo e costante dei residenti non era oramai un processo inarrestabile e, conseguentemente, il ripopolamento di Venezia un obiettivo auspicato ma sempre più distante. Era una visione “catastrofista” dei processi allora in atto a Venezia? A Venezia tutto ciò che non era legato allo sfruttamento della città in funzione turistica già allora scompariva, e il nuovo, necessario per impedire l’affermarsi di una nociva e controproducente monocultura economica, non emergeva. Anzi appariva esplicita, già allora, la tendenza di importanti attività produttive artigianali a riconvertirsi in funzione del turismo. E la tendenza era ancora più evidente se si osservavano direttamente le attività produttive che nel centro storico chiudevano e davano il senso più vero di un processo di vera e propria decadenza. (13. Aiello A., Articoli, interviste, interventi, 1975-2004, Relazione introduttiva al convegno “Quale sviluppo delle attività produttive a Venezia? Ruolo della navalmeccanica e delle tecnologie marine” , Venezia, Ateneo Veneto, 5 aprile 1991, dattiloscritto). Ha ragione Dorigo, quando sostiene che tale condizione è frutto di una scelta consapevole – soggettiva – di una voluta trasformazione genetica? La filiera turistica per prevalere aveva la necessità di spostare dal centro storico verso la terraferma il porto commerciale. L’effetto non poteva che essere l’avanzata della monocultura. È venuta così a mancare nell’economia del centro storico quella logica della “buona miscela” data da attività economiche diversificate, comprese le attività produttive specie se legate al mare. L’inserimento all’Arsenale di Venezia di Thetis, un’attività nata dall’impegno di alcune società (tra cui Tecnomare e Fincantieri) ha rappresentato all’inizio degli anni Novanta uno dei tentativi più riusciti di contrastare la monocultura turistica veneziana. Venezia, è inutile nasconderlo, ha vissuto e ancora vive su alcune “rendite” che finiscono per indebolire gli stimoli imprenditoriali: turismo, porto, università, Casinò municipale, grandi aziende industriali pubbliche, aeroporto, grandi opere infrastrutturali avviate. Ma non va dimenticato che, dal 1973, una legislazione speciale mira a salvaguardare la città storica dal pericolo delle acque alte, dopo le maree eccezionali del novembre del 1966. Svariati miliardi di euro sono stati spesi per la salvaguardia e il recupero di pezzi della città; almeno quattro miliardi di euro saranno investiti nelle grandi opere di difesa. Non manca, però, il dibattito con posizioni contrastanti e l’intervista a Pravatà ne è una testimonianza.

Porto Marghera e Veneto: inconciliabili?

Nell’intervista a Gianni De Michelis sulla inconciliabilità tra l’apparato industriale di Porto Marghera e quello del Veneto, sono affrontate tre grandi questioni.

Primo: vi è stato un “effetto innesco” di Porto Marghera che ha consentito, favorito l’“esplosione” produttiva del Veneto?

Secondo: Porto Marghera, vista come “l’ultima versione della Serenissima”, ha influenzato le scelte degli imprenditori veneti disincentivando una loro “naturale” espansione a Porto Marghera che si riorganizzava? Terzo: Porto Marghera ha davvero nel futuro una funzione così vitale per il Veneto, addirittura per l’economia del Nordest, al fine di evitare che questa «si spiaccichi contro un muro prima ancora di diventare matura»?

Già alla fine degli anni Settanta importanti ricerche rilevavano che era «in corso nella regione una forte trasformazione delle strutture economiche e sociali... sotto forme inedite e sperimentali» (14. Rullani E., Capitalismo periferico e formazione sociale regionale: l’economia del “modello” veneto, gennaio 1979, dattiloscritto). Non si trattava, a detta dei ricercatori, di un’ipotesi di microformazione sociale, compatta al proprio interno e in frizione con altre realtà regionali, ma semmai di un adattamento dell’assetto regionale a prepotenti spinte recepite dall’esterno, a cominciare dai condizionamenti della divisione internazionale del lavoro. Si venivano così delineando concetti come quelli di “formazione sociale territoriale” ed “economia periferica”. Quest’ultimo richiamava quello di “residualità”, inteso come ibrido non analizzabile di sviluppo e non-sviluppo. Ma di quale sviluppo si parlava? Massimo Cacciari, trent’anni fa, così lo evidenziava:

Rifacciamoci brevemente alle strutture che hanno determinato lo sviluppo industriale regionale. I dati di cui disponiamo... ci rivelano una struttura industriale complessivamente assai arretrata, senza vistosi segni interni di squilibrio. Il “dualismo” non passa, cioè, tra piccola industria e industrie a dimensioni medio-grandi (200-1500 addetti). Anzi, il capitale investito per addetto decresce con il crescere delle dimensioni di impresa (ciò che indica un basso livello di capitalizzazione nella media industria e non, relativamente alle altre regioni settentrionali, un alto livello nella piccola); la produttività del lavoro è pressoché equivalente nelle diverse categorie di imprese... È evidente che la relativa “tenuta” dell’occupazione industriale nel Veneto è strettamente correlata a questa struttura diffusamente “arretrata”, a bassa intensità di capitale. (15. Cacciari M., Struttura e crisi del “modello” economico-sociale veneto, in «Classe», 11, 1975).

Successivamente l’evoluzione della struttura produttiva del Veneto ha portato alla diffusione dei distrettiindustriali «... medium di conoscenza e di relazioni che permette la comunicazione e il coordinamento operativo tra soggetti situati nel medesimo contesto di esperienza (locale)» (16 Rullani E., Distretti industriali ed economia globale, in «Oltre il Ponte», 50, p. 32) e a una straordinaria articolazione dei sistemi produttivi locali, che hanno interessato anche le aree vicine a Porto Marghera. Non esistono, però, ricerche empiriche che documentino, per la provincia di Venezia come per il Veneto, un sicuro effetto “innesco” prodotto da Porto Marghera. Se De Michelis ha ragione, si tratta di una ragione ancora da dimostrare. Si può, a tale proposito, rimanere su un piano intuitivo come fa il direttore dell’Associazione degli industriali di Venezia, Italo Turdò, quando sostiene che avere vicino l’alluminio e le altre materie prime ha permesso a molti nel Veneto di svilupparsi. Più netto è, invece, il parere di Gianni Pellicani, che considera alla base delle condizioni di sviluppo del Veneto non solo l’indiscussa creatività e laboriosità dei veneti ma anche le note condizioni di vantaggio come la manodopera a basso costo, la politica inflazionistica e il deprezzamento della moneta, oltre agli effetti della legislazione degli anni Cinquanta e Sessanta sulle aree depresse. Alle incertezze sull’effetto “innesco” si contrappone la certezza sulla seconda questione: l’imprenditoria veneta non ha finora partecipato, tranne qualche rarissimo caso (come quello dell’imprenditore siderurgico di Vicenza Beltrame che ha rilevato l’ex Italsider di Porto Marghera), al processo di reindustrializzazione del polo industriale veneziano. Infine, sul punto che attiene alle prospettive del Veneto e sul ruolo che in ciò può giocare Porto Marghera, appare verosimile, come vedremo più avanti, ritenere che la riorganizzazione del sistema dei trasporti e della logistica porrà Porto Marghera in una posizione di eccellenza, grazie, innanzitutto, alle sue infrastrutture. Con benefici che possono coinvolgere un territorio più vasto.

2. I processi politici e i soggetti

La vertenza delle imprese di appalto e della Sava

La fase di sviluppo industriale che investe Porto Marghera a partire dagli anni Settanta è “fisicamente” visibile, con investimenti produttivi per la costruzione di nuovi impianti chimici, al cantiere navale Breda, all’Alumix di Fusina, che determinano una crescita velocissima di nuovi posti di lavoro i quali, solo nelle imprese specializzate e dedicate prima alla costruzione e poi alla manutenzione degli impianti, portano dall’entroterra veneziano e veneto, ma anche e soprattuto dal Sud Italia e finanche dall’estero, migliaia di lavoratori. La vertenza che il sindacato veneziano apre nei confronti delle controparti padronali nell’aprile del 1970, per la difesa dei diritti dei lavoratori delle imprese di appalto, si colloca all’interno di quel processo di sviluppo. Due mesi dopo l’apertura della vertenza delle imprese esplode la crisi produttiva della Sava di Porto Marghera. A questo proposito riporto brani di un’intervista di Chiara Puppini a Giuliano Ghisini, segretario della Fiom negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta e poi segretario della Cgil veneziana fino alla metà degli anni Ottanta. L’intervista, del 3 ottobre 1994, è stata voluta da Chiara, moglie di Germano Antonini, dirigente sindacale della Cgil veneziana, deceduto il 5 febbraio dello stesso anno, a soli cinquantadue anni, in vista di un suo progetto di biografia del marito.

PUPPINI. La giornata di lotta del 2 agosto... c’ero anch’io quella volta. Sono scappata con la motoretta di un amico. Ricordo che c’erano i Boato... poi c’è stato quell’episodio della camionetta della polizia rovesciata e incendiata, con i poliziotti che sono scappati. Allora Germano mi ricordava che era stato lui con Gianmaria e un’altra persona... Tu sai qualcosa? Tu Giuliano la sai bene la vicenda, raccontala.

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