âLâAlumetal di Fusina raddoppierà ?
Rinviamo di tre anni il raddoppio e intanto facciamo funzionare Bolzano. Non chiudiamo lâAlumina ma non la lasciamo così comâè. Facciamo funzionare lâElemes.
Quindici giorni fa, lâEfim ha chiesto al governo 300 miliardi per finanziare un programma che prevede anche e soprattutto il raddoppio di Fusina; ora lei afferma cose molte diverse da quelle dette dallâEfim...
Ma è una cosa allâitaliana; per lâalluminio seguiremo la stessa strada battuta per la siderurgia.
Breda: si âtagliaâ o no?
Non si taglia in modo drastico se ci si muove subito.
E la progettazione resta al cantiere o no?
Lo sanno anche loro: parte resta e parte va a Monfalcone.
Petrolchimico: si passerà dalle attuali 350.000 tonnellate del cracking alle previste 500.000?
No: il previsto âsbottigliamentoâ non ci sarà per ora; prima pensiamo al Sudâ.
Al ministro risponde Gianni Pellicani allora vicesindaco di Venezia:
âIl ministro è caduto in contraddizione... alludo in particolare allâannuncio dellâabbandono del raddoppio del cracking e dellâimpianto Alumetal di Fusina... non câè tanto tempo a disposizione... ma proprio per questo è necessario che il governo, a cui competono direttamente o indirettamente tante decisioni per Porto Marghera, intervenga tempestivamente in termini precisi e non con programmi e impegni genericiâ.
Il tentativo di procedere con un progetto territoriale non riuscì appieno ma fu utile per orientare le lotte dei lavoratori veneziani ed evitare di marciare su una logica volta alla difesa dellâesistente. Il progetto servì da bussola non solo per i sindacati veneziani, nelle discussioni e nella formulazione di proposte che, dopo la metà degli anni Ottanta, si realizzarono a livello nazionale.
Fu proprio De Michelis, nella veste di vicepresidente del Consigli dei Ministri, alla fine degli anni Ottanta, a ricordare le motivazioni che impedirono la costruzione di un tavolo negoziale nazionale incentrato su Porto Marghera:
âLe cose avvenute sono state realizzate conseguentemente a un disegno unitario, sia per le trasformazioni dei singoli settori, sia per Porto Marghera nel suo complesso. Un disegno unitario che però ha avuto, per ragioni inevitabili, il suo cuore a Roma. Non per espropriare Venezia delle sue competenze, ma perché gli interventi da realizzare erano collegati a più generali processi di ristrutturazione â della chimica, dellâalluminio, della cantieristica, della siderurgia e quantâaltro â che non potevano che essere governati a scala nazionale. Era evidente che necessitava un approccio di tipo verticale, a monte; altrimenti sarebbe stato impossibile sapere cosa fare qui, a Venezia, nelle singole attività presenti nella zona industriale a fine anni Settanta. Ma bisogna ricordare che il piano di trasformazione ha avuto anche un suo collante e un suo coordinamento di tipo orizzontale, in sede locale. E il merito è stato della classe dirigente di questa città â. (12. Coses e Comune di Venezia (a cura di), Porto Marghera. Proposte per un futuro possibile, cit., p. 438).
Porto Marghera e centro storico: industria e salvaguardia
Uno dei principali aspetti della complessità di Porto Marghera è lâessere adiacente a una città storica come Venezia. Due mondi distinti e lontanissimi su più piani. Dal punto di vista economico il centro storico è sempre più concentrato nelle attività legate a un turismo in forte espansione, mentre la terraferma vive in buona parte sul reddito creato dalle attività industriali e commerciali. Dal punto di vista âecologistaâ addirittura due mondi contrapposti: unâarea industriale con possibili rischi ambientali a poche centinaia di metri da un museo a cielo aperto, di storia millenaria, unico e irripetibile. Entrambi i luoghi vivono processi di trasformazione non sempre positivi. In un convegno della Fiom veneziana dellâaprile del 1991 ci si chiedeva, guardando lâesodo dal centro storico di Venezia, se il calo continuo e costante dei residenti non era oramai un processo inarrestabile e, conseguentemente, il ripopolamento di Venezia un obiettivo auspicato ma sempre più distante. Era una visione âcatastrofistaâ dei processi allora in atto a Venezia? A Venezia tutto ciò che non era legato allo sfruttamento della città in funzione turistica già allora scompariva, e il nuovo, necessario per impedire lâaffermarsi di una nociva e controproducente monocultura economica, non emergeva. Anzi appariva esplicita, già allora, la tendenza di importanti attività produttive artigianali a riconvertirsi in funzione del turismo. E la tendenza era ancora più evidente se si osservavano direttamente le attività produttive che nel centro storico chiudevano e davano il senso più vero di un processo di vera e propria decadenza. (13. Aiello A., Articoli, interviste, interventi, 1975-2004, Relazione introduttiva al convegno âQuale sviluppo delle attività produttive a Venezia? Ruolo della navalmeccanica e delle tecnologie marineâ , Venezia, Ateneo Veneto, 5 aprile 1991, dattiloscritto). Ha ragione Dorigo, quando sostiene che tale condizione è frutto di una scelta consapevole â soggettiva â di una voluta trasformazione genetica? La filiera turistica per prevalere aveva la necessità di spostare dal centro storico verso la terraferma il porto commerciale. Lâeffetto non poteva che essere lâavanzata della monocultura. à venuta così a mancare nellâeconomia del centro storico quella logica della âbuona miscelaâ data da attività economiche diversificate, comprese le attività produttive specie se legate al mare. Lâinserimento allâArsenale di Venezia di Thetis, unâattività nata dallâimpegno di alcune società (tra cui Tecnomare e Fincantieri) ha rappresentato allâinizio degli anni Novanta uno dei tentativi più riusciti di contrastare la monocultura turistica veneziana. Venezia, è inutile nasconderlo, ha vissuto e ancora vive su alcune ârenditeâ che finiscono per indebolire gli stimoli imprenditoriali: turismo, porto, università , Casinò municipale, grandi aziende industriali pubbliche, aeroporto, grandi opere infrastrutturali avviate. Ma non va dimenticato che, dal 1973, una legislazione speciale mira a salvaguardare la città storica dal pericolo delle acque alte, dopo le maree eccezionali del novembre del 1966. Svariati miliardi di euro sono stati spesi per la salvaguardia e il recupero di pezzi della città ; almeno quattro miliardi di euro saranno investiti nelle grandi opere di difesa. Non manca, però, il dibattito con posizioni contrastanti e lâintervista a Pravatà ne è una testimonianza.
Porto Marghera e Veneto: inconciliabili?
Nellâintervista a Gianni De Michelis sulla inconciliabilità tra lâapparato industriale di Porto Marghera e quello del Veneto, sono affrontate tre grandi questioni.
Primo: vi è stato un âeffetto innescoâ di Porto Marghera che ha consentito, favorito lââesplosioneâ produttiva del Veneto?
Secondo: Porto Marghera, vista come âlâultima versione della Serenissimaâ, ha influenzato le scelte degli imprenditori veneti disincentivando una loro ânaturaleâ espansione a Porto Marghera che si riorganizzava? Terzo: Porto Marghera ha davvero nel futuro una funzione così vitale per il Veneto, addirittura per lâeconomia del Nordest, al fine di evitare che questa «si spiaccichi contro un muro prima ancora di diventare matura»?
Già alla fine degli anni Settanta importanti ricerche rilevavano che era «in corso nella regione una forte trasformazione delle strutture economiche e sociali... sotto forme inedite e sperimentali» (14. Rullani E., Capitalismo periferico e formazione sociale regionale: lâeconomia del âmodelloâ veneto, gennaio 1979, dattiloscritto). Non si trattava, a detta dei ricercatori, di unâipotesi di microformazione sociale, compatta al proprio interno e in frizione con altre realtà regionali, ma semmai di un adattamento dellâassetto regionale a prepotenti spinte recepite dallâesterno, a cominciare dai condizionamenti della divisione internazionale del lavoro. Si venivano così delineando concetti come quelli di âformazione sociale territorialeâ ed âeconomia perifericaâ. Questâultimo richiamava quello di âresidualità â, inteso come ibrido non analizzabile di sviluppo e non-sviluppo. Ma di quale sviluppo si parlava? Massimo Cacciari, trentâanni fa, così lo evidenziava:
Rifacciamoci brevemente alle strutture che hanno determinato lo sviluppo industriale regionale. I dati di cui disponiamo... ci rivelano una struttura industriale complessivamente assai arretrata, senza vistosi segni interni di squilibrio. Il âdualismoâ non passa, cioè, tra piccola industria e industrie a dimensioni medio-grandi (200-1500 addetti). Anzi, il capitale investito per addetto decresce con il crescere delle dimensioni di impresa (ciò che indica un basso livello di capitalizzazione nella media industria e non, relativamente alle altre regioni settentrionali, un alto livello nella piccola); la produttività del lavoro è pressoché equivalente nelle diverse categorie di imprese... à evidente che la relativa âtenutaâ dellâoccupazione industriale nel Veneto è strettamente correlata a questa struttura diffusamente âarretrataâ, a bassa intensità di capitale. (15. Cacciari M., Struttura e crisi del âmodelloâ economico-sociale veneto, in «Classe», 11, 1975).
Successivamente lâevoluzione della struttura produttiva del Veneto ha portato alla diffusione dei distrettiindustriali «... medium di conoscenza e di relazioni che permette la comunicazione e il coordinamento operativo tra soggetti situati nel medesimo contesto di esperienza (locale)» (16 Rullani E., Distretti industriali ed economia globale, in «Oltre il Ponte», 50, p. 32) e a una straordinaria articolazione dei sistemi produttivi locali, che hanno interessato anche le aree vicine a Porto Marghera. Non esistono, però, ricerche empiriche che documentino, per la provincia di Venezia come per il Veneto, un sicuro effetto âinnescoâ prodotto da Porto Marghera. Se De Michelis ha ragione, si tratta di una ragione ancora da dimostrare. Si può, a tale proposito, rimanere su un piano intuitivo come fa il direttore dellâAssociazione degli industriali di Venezia, Italo Turdò, quando sostiene che avere vicino lâalluminio e le altre materie prime ha permesso a molti nel Veneto di svilupparsi. Più netto è, invece, il parere di Gianni Pellicani, che considera alla base delle condizioni di sviluppo del Veneto non solo lâindiscussa creatività e laboriosità dei veneti ma anche le note condizioni di vantaggio come la manodopera a basso costo, la politica inflazionistica e il deprezzamento della moneta, oltre agli effetti della legislazione degli anni Cinquanta e Sessanta sulle aree depresse. Alle incertezze sullâeffetto âinnescoâ si contrappone la certezza sulla seconda questione: lâimprenditoria veneta non ha finora partecipato, tranne qualche rarissimo caso (come quello dellâimprenditore siderurgico di Vicenza Beltrame che ha rilevato lâex Italsider di Porto Marghera), al processo di reindustrializzazione del polo industriale veneziano. Infine, sul punto che attiene alle prospettive del Veneto e sul ruolo che in ciò può giocare Porto Marghera, appare verosimile, come vedremo più avanti, ritenere che la riorganizzazione del sistema dei trasporti e della logistica porrà Porto Marghera in una posizione di eccellenza, grazie, innanzitutto, alle sue infrastrutture. Con benefici che possono coinvolgere un territorio più vasto.
2. I processi politici e i soggetti
La vertenza delle imprese di appalto e della Sava
La fase di sviluppo industriale che investe Porto Marghera a partire dagli anni Settanta è âfisicamenteâ visibile, con investimenti produttivi per la costruzione di nuovi impianti chimici, al cantiere navale Breda, allâAlumix di Fusina, che determinano una crescita velocissima di nuovi posti di lavoro i quali, solo nelle imprese specializzate e dedicate prima alla costruzione e poi alla manutenzione degli impianti, portano dallâentroterra veneziano e veneto, ma anche e soprattuto dal Sud Italia e finanche dallâestero, migliaia di lavoratori. La vertenza che il sindacato veneziano apre nei confronti delle controparti padronali nellâaprile del 1970, per la difesa dei diritti dei lavoratori delle imprese di appalto, si colloca allâinterno di quel processo di sviluppo. Due mesi dopo lâapertura della vertenza delle imprese esplode la crisi produttiva della Sava di Porto Marghera. A questo proposito riporto brani di unâintervista di Chiara Puppini a Giuliano Ghisini, segretario della Fiom negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta e poi segretario della Cgil veneziana fino alla metà degli anni Ottanta. Lâintervista, del 3 ottobre 1994, è stata voluta da Chiara, moglie di Germano Antonini, dirigente sindacale della Cgil veneziana, deceduto il 5 febbraio dello stesso anno, a soli cinquantadue anni, in vista di un suo progetto di biografia del marito.
PUPPINI. La giornata di lotta del 2 agosto... câero anchâio quella volta. Sono scappata con la motoretta di un amico. Ricordo che câerano i Boato... poi câè stato quellâepisodio della camionetta della polizia rovesciata e incendiata, con i poliziotti che sono scappati. Allora Germano mi ricordava che era stato lui con Gianmaria e unâaltra persona... Tu sai qualcosa? Tu Giuliano la sai bene la vicenda, raccontala.