Ma poi sentì uno di essi avvicinarsi portandosi davanti agli altri, togliersi l’elmo e guardarla con i suoi brillanti occhi blu pieni di saggezza e compassione. Aveva forse trent’anni e un aspetto bellissimo, la testa calva e la barba biondo chiaro. Era evidente che si trattava dell’ufficiale incaricato.
Il cavaliere rivolse la sua attenzione ai nomadi.
“Sono vivi?” chiese.
Uno dei nomadi, in risposta, allungò il suo bastone e picchiettò delicatamente Gwendolyn che quindi si spostò. Avrebbe voluto più di ogni altra cosa mettersi a sedere, parlare con loro, scoprire chi fossero. Ma era troppo stanca e aveva la gola troppo secca per rispondere.
“Incredibile,” disse un altro cavaliere venendo avanti, con gli speroni che tintinnavano, mentre anche altri cavalieri si avvicinavano e si raccoglievano attorno a loro. Erano chiaramente degli oggetti di curiosità per loro.
“Non è possibile,” disse uno. “Come hanno potuto sopravvivere alla Grande Desolazione?”
“Non possono esserci riusciti,” disse un altro. “Devono essere disertori. Devono aver fatto in qualche modo irruzione oltre il Crinale, si sono probabilmente persi nel deserto e hanno deciso di tornare indietro.”
Gwendolyn cercò di rispondere, di raccontare loro tutto ciò che era successo, ma era troppo esausta per formulare le parole.
Dopo un breve silenzio, il capo si fece avanti.
“No,” disse con sicurezza. “Guardate i segni sulla sua armatura,” disse indicando Kendrick con il piede. “Questa non è una delle nostre armature. E neppure un’armatura dell’Impero.”
Tutti i cavalieri si raccolsero attorno sbalorditi.
“E allora da dove vengono?” chiese uno di essi, chiaramente perplesso.
“E come facevano a sapere dove trovarci?” chiese un altro.
Il capo si voltò verso i nomadi.
“Dove li avete trovati?” chiese.
I nomadi squittirono in risposta e Gwen vide il capo sgranare gli occhi.
“Dall’altra parte del muro di sabbia?” chiese loro. “Ne siete sicuri?”
I nomadi squittirono in risposta.
Il comandante si voltò verso la sua gente.
“Non credo sapessero che eravamo qui. Penso abbiano avuto fortuna: i nomadi li hanno trovati e volendo il loro prezzo li hanno portati qui scambiandoli per gente dei nostri.”
I cavalieri si guardarono tra loro ed apparve chiaro che non si erano mai imbattuti in una situazione come questa prima d’ora.
“Non possiamo tenerli qui,” disse uno dei cavalieri. “Conosci le regole. Permetti loro di stare e lasci una traccia. Niente tracce. Mai. Dobbiamo rimandarli indietro, nella Grande Desolazione.”
Seguì un lungo silenzio, interrotto da nient’altro che l’ululare del vento. Gwen percepì che erano dibattuti su cosa fare di loro. Non le piaceva la lunga durata di quella pausa.
Cercò di mettersi a sedere per protestare, per dire loro che non potevano rimandarli là fuori, non potevano e basta. Non dopo tutto quello che avevano passato.
“Se lo facessimo,” disse il capo, “questo significherebbe le loro morti. E il nostro codice d’onore richiede che si aiutino gli indifesi.”
“Però se li teniamo qui,” ribatté un cavaliere, “allora potremmo morire tutti. L’Impero seguirà le loro tracce. Scopriranno il nostro nascondiglio. Metteremmo in pericolo tutto il nostro popolo. Preferisci che muoiano un pochi di stranieri o tutta la nostra gente?”
Gwen poté vedere che il capo pensava, dibattuto e angosciato di fronte a quella dura decisione. Sapeva cosa significasse trovarsi davanti a decisioni difficili. Era troppo debole e non poteva che rassegnarsi a rimettersi alla mercé della gentilezza degli altri.
“Sarà anche così,” disse infine il capo con voce rassegnata, “ma non manderò a morire della gente innocente. Li accoglieremo qui.”
Si voltò verso i suoi uomini.
“Portateli giù dall’altra parte,” ordinò con voce ferma e pregna di autorità. “Li porteremo dal nostro re e sarà lui a decidere.”
Gli uomini ascoltarono e iniziarono a scattare in azione, preparando la piattaforma dall’altra parte del crinale. Uno di essi guardò il capo con indecisione.
“Stai violando le leggi del re,” disse il cavaliere. “Nessuno straniero deve essere accolto al Crinale. Mai.”
Il capo lo guardò con fermezza.
“Nessuno straniero ha neppure mai raggiunto i nostri cancelli,” rispose.
“Il re potrebbe imprigionarti per questo,” disse il cavaliere.
Il capo non si scompose.
“È un’eventualità che sono pronto ad accettare.”
“Per degli stranieri? Gente che vale meno dei nomadi del deserto?” chiese il cavaliere sorpreso. “Chissà mai chi sono queste persone.”
“Ogni vita è preziosa,” ribatté il capo, “e il mio onore vale mille vite in prigione.”
Fece quindi un cenno ai suoi uomini che stavano in attesa e Gwen si sentì improvvisamente sollevare tra le braccia di un cavaliere, l’armatura di metallo a contatto con la sua schiena. La tirò su senza sforzo, come se fosse una piuma, e la trasportò come gli altri cavalieri fecero con gli altri. Gwen vide che camminavano attraverso un ampio e piatto spazio in cima al crinale montuoso: era largo forse un centinaio di metri. Continuarono a camminare e lei si sentì a suo agio tra le braccia del cavaliere, più a sua agio che mai dopo moltissimo tempo. Avrebbe voluto più di ogni cosa ringraziare, ma era troppo esausta anche solo per aprire bocca.
Raggiunsero l’altra parte dei parapetti e mentre i cavalieri si accingevano a deporli su una nuova piattaforma per abbassarli dall’altra parte del crinale, Gwen allungò lo sguardo e scorse uno scorcio del posto dove stavano andando. Fu una scena che non avrebbe mai e poi mai dimenticato, una veduta che le mozzò il fiato. Il crinale che si ergeva dal deserto come una sfinge aveva la forma di un enorme cerchio, così grande da scomparire alla vista in mezzo alle nuvole. Si rese conto che era un muro protettivo e al suo interno, in basso, vide un luccicante lago blu grande quanto un oceano, brillante sotto i soli del deserto. La ricchezza di quel blu, la vista di tutta quell’acqua le levò il fiato.
E oltre a questo, all’orizzonte, vide una vasta terra, una terra così grande da non riuscire neanche a scorgerne la fine. Con suo enorme shock vide che era fertile, verde, florida di vita. A perdita d’occhio si estendevano fattorie e frutteti, foreste e vigneti, campi coltivati in abbondanza: una terra traboccante di vita. Era la scena più bella e idilliaca che avesse mai visto.
“Benvenuta, mia signora,” disse il capo, “nella terra oltre il Crinale.”
CAPITOLO SETTE
Godfrey, raggomitolato a terra, fu svegliato da un costante e persistente lamento che interferiva con i suoi sogni. Si alzò lentamente, insicuro di essere realmente sveglio o ancora invischiato nei suoi interminabili incubi. Sbatté le palpebre nella penombra cercando di scrollarsi di dosso il sogno. Aveva sognato di essere una marionetta sorretta da fili, penzolante dalle mura di Volusia e sostenuta dai Finiani che tiravano e abbassavano i fili facendo muovere le sue braccia e gambe al di sopra dell’ingresso alla città. Godfrey era stato costretto a guardare mentre sotto di lui migliaia dei suoi compaesani venivano macellati davanti ai suoi occhi e le strade di Volusia erano state inondate di rosso sangue. Ogni volta che aveva pensato fosse finita i Finiani avevano tirato ancora i fili muovendolo su e giù, ininterrottamente…
Alla fine, grazie a Dio, venne svegliato da un lamento e rotolò, sentendo la testa che gli doleva, vedendo che il rumore proveniva da pochi passi più in là, da Akorth e Fulton, entrambi raggomitolati a terra vicino a lui. Si lamentavano, ricoperti di lividi blu e neri. Lì accanto si trovavano Merek ed Ario, anche loro immobili a terra. Godfrey si accorse subito che si trattava del pavimento di una cella. Sembravano essere stati tutti malamente picchiati, ma almeno erano tutti lì e da quanto Godfrey poteva dire, stavano respirando.
Si sentì allo stesso tempo sollevato e distrutto. Era stupito di essere vivo dopo l’imboscata alla quale aveva assistito, stupito di non essere stato ammazzato dai Finiani. Ma allo stesso tempo si sentiva anche svuotato, oppresso dal senso di colpa sapendo che era tutta colpa sua se Dario e gli altri erano cascati in quella trappola all’interno dei cancelli di Volusia. E tutto per la sua ingenuità. Come aveva potuto essere così stupido da fidarsi dei Finiani?
Godfrey chiuse gli occhi e scosse la testa cercando di scacciare quel ricordo, desiderando che la notte fosse andata in modo diverso. Aveva inconsapevolmente permesso a Dario e agli altri di entrare nella città, come agnelli al macello. Continuava a sentire nella sua mente le grida di quegli uomini che cercavano di combattere per salvarsi, che cercavano di scappare. Quel suono gli rimbombava nel cervello e non gli lasciava pace.
Godfrey si strinse le orecchie cercando di eliminare tutto, di non sentire i lamenti di Akorth e Fulton, entrambi chiaramente doloranti per le contusioni ottenute in una notte spesa a dormire su un duro pavimento di pietra.
Godfrey si mise a sedere sentendosi la testa pesante e si guardò attorno: era una piccola cella con all’interno solo lui e i suoi amici, oltre a pochi altri che non conosceva. Provò una certa consolazione nel constatare che, dato quanto la cella apparisse cupa, la morte sarebbe presto arrivata per loro. Quella prigione era chiaramente diversa dall’ultima in cui erano stati, sembrava più una cella provvisoria per coloro che stavano per essere giustiziati.
Godfrey udì da qualche parte in lontananza le grida di un prigioniero che veniva trascinato via lungo il corridoio e capì: quel luogo era davvero una stanza di custodia per i condannati a morte. Aveva udito di altre esecuzioni a Volusia e sapeva che lui e gli altri sarebbero stati trascinati fuori alla prima luce del giorno e sarebbero diventati intrattenimento da arena, così che i bravi cittadini potessero guardarli essere fatti a pezzi da qualche razif prima dell’inizio dei giochi dei gladiatori. Era solo per questo che li avevano tenuti in vita. Almeno ora capiva.
Godfrey si voltò appoggiandosi su mani e ginocchia e diede dei colpetti a ciascuno dei suoi amici, cercando di farli rinvenire. Gli girava la testa e ogni angolo del corpo gli faceva male; si sentiva ricoperto di bozzi e lividi che dolevano quando si muoveva. Il suo ultimo ricordo era di un soldato che lo gettava a terra e si rese conto che dovevano averlo preso a pugni anche dopo averlo messo fuori combattimento. Quei Finiani, quei codardi traditori non avevano evidentemente in mente di ucciderlo con le loro mani.
Godfrey si portò una mano alla fronte, stupefatto che potesse fargli così male senza aver bevuto neppure un goccio. Si mise instabilmente in piedi, con le ginocchia che barcollavano, e si guardò attorno nella cella buia. C’era un’unica guardia fuori dalle sbarre che gli dava la schiena e non lo guardava neppure. Ma quelle celle erano comunque fatte di spesse sbarre di ferro e lucchetti non indifferenti: Godfrey capì che non sarebbe stato facile scappare questa volta. Questa volta erano veramente a un passo dalla morte.
Lentamente accanto a lui Akorth, Fulton, Ario e Merek si misero in piedi e iniziarono ad osservare il posto come lui. Vide la confusione e la paura nei loro occhi, poi il rammarico mentre iniziavano a ricordare.
“Sono morti tutti?” chiese Ario guardando Godfrey.
Godfrey provò una fitta allo stomaco e lentamente annuì.
“È colpa tua,” disse Merek. “Li abbiamo traditi.”
“Sì, è vero,” rispose Godfrey con voce rotta.
“Ti avevo detto di non fidarti dei Finiani,” disse Akorth.
“La questione non è di chi sia la colpa,” disse Ario, “ma cosa abbiamo intenzione di fare. Vogliamo che tutti i nostri fratelli e sorelle siano morti invano? O pensiamo di vendicarci?”
Godfrey scorse la serietà nel volto del giovane Ario e fu impressionato dalla sua determinazione d’acciaio, anche mentre si trovava imprigionato e prossimo alla morte.
“Vendetta?” chiese Akorth. “Sei pazzo? Siamo chiusi a chiave sottoterra, sorvegliati da guardie dell’Impero e da sbarre di ferro. Tutti i nostri uomini sono morti. Ci troviamo nel mezzo di una città ostile, contro un esercito ostile. Tutto il nostro oro è sparito. I nostri piani sono andati a rotoli. Quale possibile vendetta possiamo mai mettere in atto?”
“C’è sempre un modo,” disse Ario determinato. Si voltò verso Merek.
Tutti gli occhi si girarono verso Merek e lui corrugò la fronte.
“Non sono esperto in vendette,” disse Merek. “Uccido gli uomini quando mi infastidiscono. Non aspetto.”
“Ma sei un ladro provetto,” disse Ario. “Hai trascorso tutta la tua vita in una cella di prigione, come hai detto tu stesso. Sicuramente puoi tirarci fuori da qui.”
Merek si voltò e guardò attentamente la cella, le sbarre, le finestre, le chiavi, le guardie, tutto con occhi esperto e attento. Considerò ogni cosa, poi tornò a guardare i compagni con espressione cupa.
“Questa non è una normale cella di prigione,” disse. “Dev’essere una cella finiana. Un lavoro molto costoso. Non vedo nessun punto debole, nessuna via d’uscita, per quanto vorrei tantissimo potervi dire diversamente.”
Godfrey, sentendosi sopraffatto dalle emozioni e cercando di non pensare alle grida degli altri prigionieri dall’altra parte del corridoio, si avvicinò alla porta della prigione, spinse la fronte contro il freddo e pesante ferro e chiuse gli occhi.
“Portatelo qui!” tuonò una voce lungo il corridoio.
Godfrey aprì gli occhi, voltò la testa e guardò vedendo numerosi soldati dell’Impero che trascinavano un prigioniero. L’uomo indossava una fascia rossa sulle spalle e attorno al petto e stava inerme tra le loro braccia senza opporre resistenza. In effetti, man mano che si avvicinava, Godfrey notò che dovevano trascinarlo, dato che era privo di conoscenza. C’era chiaramente qualcosa che non andava in lui.
“Mi portate un’altra vittima della peste?” gridò la guardia con tono derisorio. “Cosa vi aspettate che ne faccia?”
“Non è un nostro problema!” risposero gli altri.
La guardia di servizio aveva un’espressione spaventata mentre tendeva le mani.
“Io non lo tocco!” disse. “Mettetelo laggiù, nella fossa insieme agli altri appestati!”
Le guardie lo guardarono con sguardo interrogativo.
“Ma non è ancora morto,” risposero.
La guardia di servizio lanciò loro un’occhiataccia.
“Pensate che mi interessi?”
Le guardie si scambiarono uno sguardo poi fecero come gli era stato detto, trascinandolo attraverso il corridoio e gettandolo in una grande fossa. Godfrey vide che era piena di corpi, tutti ricoperti dalla stessa fascia rossa.
“E se cerca di scappare?” chiesero le guardie prima di voltarsi.
Il soldato mostrò un sorriso crudele.
“Non sapete cosa fa la peste agli uomini?” chiese. “Entro mattina sarà morto.”
Le due guardie si voltarono e se ne andarono e Godfrey guardò l’appestato che giaceva tutto solo nella fossa non sorvegliata. Subito gli venne un’idea. Era un’idea folle, ma proprio per questo avrebbe potuto funzionare.
Si voltò verso Akorth e Fulton.
“Datemi un pugno,” disse.
I due compagni si scambiarono uno sguardo confuso.
“Vi ho detto di darmi un pugno!” disse Godfrey.
Loro scossero la testa.
“Sei pazzo?” chiese Akorth.
“Io non ti do nessun pugno,” disse Fulton, “per quanto te lo meriteresti.”
“Vi sto dicendo di darmi un pugno!” chiese Godfrey. “Forte. In faccia. Spaccatemi il naso! ADESSO!”
Ma Akorth e Fulton si voltarono.
“Hai perso il cervello,” dissero.