In quel momento, aveva occhi come dischi. Sembrava che dovesse andare in bagno.
“Rodriguez, tu sei con me, ragazza. È un giochetto. Siamo solo addetti alle utenze che bussano alle porte durante un’interruzione del servizio. Abbiamo un portablocco. La porta si apre, e chiunque ci sia dietro noi lo blocchiamo. Tu li metti in sicurezza, io procedo. Capito?”
Annuì. “Capito.”
“Stamos, Anderson, voi risalite quel vialetto e arrivate insieme a Marshall e King sul portico posteriore. Stamos, tu e King siete i martelli. Ricevete l’ordine, e voglio vedervi colpire quella cosa con tutto ciò che avete. In due colpi al massimo, voglio vedere la porta aperta. Uno è meglio.”
Stamos annuì. Sembrava meno nervoso della Rodriguez, ma comunque sul verdognolo. “Capito.”
“Certo che hai capito. Non è mica il tuo primo rodeo, bello. Quindi smettila di comportarti come se lo fosse. Non hai niente da dimostrarmi. Fa’ il tuo lavoro come so che sai fare e basta.”
“Ok.”
Ed guardò Anderson, poi scosse la testa e sorrise. Anderson aveva trentadue anni ed era arrivato all’SRT dalla Delta Force. Aveva bisogno di radersi. Aveva gli occhi severi ma il linguaggio del corpo rilassato. Probabilmente si annoiava. Lo avevano assunto più che altro per la nostalgia che Luke provava per la Delta. Ed dubitava che sarebbe durato. C’erano guerre in corso nel mondo, ed era nel lavoro mercenario che si trovavano i soldi.
“Tu sai cosa fare, bello.”
Anderson annuì. “Sì.”
Si rivolse all’intero gruppo. “Sentite. Ci sono donne e bambini là dentro. Il lavoro numero uno è portare fuori il sospettato, ma il lavoro numero uno A è farlo senza perdita di vite. Il motto del giorno è zero forza letale. Detto ciò, che nessuno di voi si permetta di morire là dentro. Se vogliono la lotta, gliela date. Avete capito?”
Avevano capito tutti.
Ed parlò nel microfono. “Marshall, King, dove siete?”
Dalle cuffie giunse una voce. “Nel giardino sul retro del vicino, giusto sull’altro lato della recinzione di legno. In attesa del via.” Marshall era un ex dell’FBI. King veniva da una squadra SWAT di Newark, New Jersey.
“Avete sentito tutto? Siamo d’accordo?”
“Siamo con te, Ed. Oggi non muore nessuno. Non loro, ma soprattutto non noi.”
Ed annuì. “Bene.” Fece un respiro profondo. Cercò di rilasciare nell’universo qualsiasi tensione avesse in corpo.
“Ottimo. Dentro e fuori in novanta secondi, ragazzi. Partiamo.”
* * *
“Ecco che vanno.”
Nell’ufficio di Swann era montata alle pareti una dozzina di schermi video. Sei attualmente erano attivi, e ciascuno mostrava la visuale che si aveva dalla telecamera portata da ogni agente dell’SRT che stava per entrare nella casa di Mustafa Boudiaf.
‘Ufficio’ era un termine generoso per il bizzarro regno di Swann. C’erano quattro scrivanie, ognuna con sopra almeno tre monitor video. Tre alti server racks erano imbullonati alla parete opposta agli schermi. Dei cavi serpeggiavano per tutto il pavimento. Ovunque – sulle scrivanie, per terra – c’erano componenti elettroniche, con luci LED che lampeggiavano di rosso, verde e bianco.
C’era una sola lunga finestra; lo scaffale sotto di essa sembrava avere un magnetismo tale da attirare a sé lattine vuote di Coca-Cola e Red Bull.
Swann stava su una sedia di fronte agli schermi, Luke e Trudy erano in piedi perfettamente immobili dietro di lui. Gli schermi mostravano una bizzarra giungla di immagini, e ciascuno era segnalato con il cognome della persona di cui si mostrava il punto di vista.
Quelli segnalati come NEWSAM e RODRIGUEZ mostravano entrambi un passaggio innevato e una porta rossa dopo alcuni gradini. ANDERSON mostrava un vialetto, una casa a destra e dei cespugli a sinistra. ANDERSON si muoveva veloce. STAMOS mostrava lo stesso panorama, tranne che per un uomo alto con un giubbotto di sicurezza giallo che gli correva davanti scivolando un pochino nella neve. MARSHALL e KING mostravano un’alta recinzione di legno, che poi i punti di vista scavalcarono. Adesso c’era una casa marrone chiaro con un ampio portico posteriore coperto di neve.
“Agenti in convergenza,” disse Swann. “Quando sei pronto, Ed.”
La telecamera segnalata come NEWSAM era proprio davanti alla porta rossa. Una mano si allungò e col dito indice premette il campanello.
Din-don!
La telecamera segnata con STAMOS mostrava un magro uomo nero, anche lui con un giubbotto giallo riflettente, e adesso col visore al suo posto, in piedi con un pungo in aria. Poi la telecamera si voltò verso una porta sul retro.
Luke tratteneva il fiato. Stavano per abbattere la porta con un ariete. Poi ci avrebbero gettato dentro una granata stordente, una cosiddetta flashbang. Entrambe le cose sarebbero state molto rumorose. A Luke i rumori forti non piacevano per niente. La flashbang avrebbe fatto un casino immenso.
Proprio allora, ricevette un messaggio. Il telefono gli vibrò nella mano; lo aveva messo silenzioso. Abbassò lo sguardo. Era Gunner.
Ciao papà. Dv 6?
“Ma scrivile quelle parole!” disse a mente. L’orwelliano linguaggio semplificato che i ragazzini usavano nei messaggi lo faceva diventare matto. Però lasciò perdere.
Rispose. Al lavoro. Tu dove sei?
Casa xk nevica. Pranzo? T va?
Luke sorrise. Se voleva pranzare con Gunner? Certo che sì.
“Portico sul retro, via!” disse Swann, quasi urlando. “Via! Via! Via!”
Sullo schermo segnalato come KING, due uomini indietreggiarono facendo oscillare l’ariete.
* * *
“Serve aiuto?” disse l’uomo che aprì il portone.
Era un giovane con una maglietta azzurra e pantaloni della tuta rossi, con le ciabatte ai piedi nudi. Gli occhi castani erano piatti e più che un po’ infastiditi. Aveva i capelli ritti in ciuffi. Aveva un barbone.
“Sì, salve,” disse Ed. Indicò il portablocco che aveva nella mano sinistra e la minuscola Rodriguez alla sua destra. “Siamo della compagnia elettrica. Abbiamo ricevuto dei rapporti di interruzione di corrente dovuta alla tempesta nel quartiere. Dobbiamo entrare per controllare lo smart meter e vedere se il sistema funziona come si deve.”
Il tizio fece una specie di smorfia. “Cosa? E perché dovreste…”
Improvvisamente ci fu un forte rumore da qualche parte all’interno della casa.
BAM!
Il ragazzo si voltò indietro per metà. Era sembrato che in cucina qualcosa avesse…
Ed gli diede un pugno a lato della testa. Lui non indietreggiò – si limitò a farla scattare. Non era stato abbastanza forte. Il tipo aveva gli occhi stupefatti, ma era ancora cosciente e in piedi. Ed avanzò, gli fece scivolare un piede dietro le gambe e lo mandò sul pavimento.
“Rodriguez!” urlò superandolo di corsa. Da qualche parte, con la visione periferica, con gli occhi che aveva dietro la testa, vide Rodriguez saltare sul tizio e già girarlo sulla faccia per legargli le mani, quasi in un unico movimento.
Ed percorse il corridoio, veloce. Gli era apparsa in mano la sua Glock.
“Flashbang in arrivo!” urlò qualcuno dentro il suo casco. “Flashbang in arrivo.”
Si fermò, chiuse gli occhi e indietreggiò.
Persino dietro gli occhi chiusi vide il lampo. Persino con le orecchie protette da azzeratori del rumore udì e sentì l’esplosione.
BUUUM!
Da qualche parte giù per il corridoio, un bambino cominciò a piangere. Apparve una giovane con in braccio un bambino. Superò Ed di corsa, con la faccia gelata dal terrore.
Davanti, quattro grossi uomini improvvisamente sciamarono nella casa strillando, “Giù! Giù! Tutti GIÙ!”
Le scale per il piano superiore si trovavano alla sinistra di Ed. Lui ci saltò su, facendo due gradini alla volta. Se la pianta era corretta, la camera padronale si trovava a destra. Svoltò in quella direzione in cima alle scale. Sentì, più che vedere, un altro uomo subito dietro di lui. C’era una porta davanti.
Scattò verso la porta. Oggi la sorpresa era tutto. La velocità era tutto. Colpì la porta senza rallentare, con la spalla destra, facendo irruzione all’interno. Era una porta di legno da poco – carina, ma niente di che.
Ed si precipitò nella stanza a capofitto, rotolando a terra. Un uomo calvo in canotta e boxer era accucciato sul pavimento di fronte a lui, e frugava in una scatola.
Si voltò. Aveva in mano un piccolo revolver – una vecchia .38 Special.
Sopra Ed volò un’ombra, che raggiunse l’uomo e gli fece partire la pistola di lato proprio quando questi fece fuoco.
BANG!
E poi il vecchio era sulla schiena, l’ombra ormai si era rivelata essere un uomo – un uomo con addosso un giubbotto giallo riflettente. L’uomo dell’SRT – Anderson, l’ex operatore della Delta – gli passò un braccio attorno alla gola. La calibro .38 scivolò via sul pavimento.
“Penso che sia il soggetto,” disse Anderson oltre la spalla.
Ed si alzò. “Tutto libero?” Ed parlò nel microfono. “Datemi i liberi.”
“Libero.”
“Libero.”
“Libero.”
“Qualcuno di ferito? Qualcuno è stato abbattuto?”
“Abbiamo due giovani legati di sotto,” disse una voce dietro di lui. Ed si voltò ed era King. “Abbattuti, ma non feriti. Rodriguez ha radunato le donne e i bambini e li tiene nel soggiorno.”
Ed lanciò un’occhiata al letto. Era una vecchia branda instabile. Le coperte erano state sparpagliate dappertutto. Sul pavimento c’erano un paio di mascherine per gli occhi. Il vecchio probabilmente dormiva, fino a un minuto prima.
Anderson lo aveva legato con le fascette e al momento gli stava mettendo un sacco di tela sulla testa.
“Mustafa Boudiaf?” disse Ed.
Il vecchio scosse la testa. “Chi lo vuole sapere?”
Ed tornò a voltarsi verso King. Guardò dritto nella telecamera di King. Fece un bel sorriso per gli amici a casa.
“Vedi, Stone? Facile come bere un bicchier d’acqua. Duro, veloce, assolutamente devastante. Nessuna possibilità di resistenza significativa. È così che si fa un’entrata turbolenta.”
CAPITOLO SETTE
11:45 ora della costa orientale
McLean, Virginia
Si incontrarono in un ristorantino di fronte al famoso arco di McDonald. Il locale si trovava a dieci minuti dal quartier generale. Luke era arrivato prima, e sorseggiava il caffè. Si trovava a un tavolino a un grosso bovindo, e un po’ guardava la CNN sul grosso televisore montato dietro al bancone.
Luke aveva appena trascorso due ore con Mustafa Boudiaf. Stava avendo problemi a levarsi la cosa dalla mente.
L’unico luogo del quartier generale dell’SRT in cui si potesse fumare era la sala interrogatori. Avevano dato a Boudiaf caffè e sigarette, e lui aveva bevuto e fumato per tutto il tempo. Ma la cosa non lo aveva addolcito neanche un po’.
Boudiaf voleva un avvocato. Boudiaf voleva fare una telefonata. Boudiaf voleva sapere se era in arresto. Boudiaf apparentemente aveva visto molta televisione.
“Che cosa sa dello schianto aereo avvenuto in Egitto?” disse Ed.
La visione di un gigantesco nero che gli incombeva sopra non pareva terrorizzante, per Boudiaf. Scosse la testa. “Non so nulla di uno schianto aereo. Dormivo quando avete invaso casa mia.”
“Dove sono finiti tutti i mobili?” disse Ed.
Boudiaf scrollò le spalle. “Sono poverissimo. Questa è l’America. Lavoro di continuo ma non ho soldi. Non ho mobili. Quello che avete visto è tutto quello che ho.”
Luke quasi rise. “E se le dicessi che sappiamo che tre giorni fa ha spedito tutti i mobili in Pennsylvania? Che cosa strana da fare, no? Spedire i propri mobili e tutti i propri averi nell’entroterra. Perché mai farlo?”
Luke fece una pausa.
“Stava facendo questo?”
Boudiaf lo guardò. “Lei chi è, scusi?”
“Chi sono non ha importanza.”
“Ne ha, perché le porterò via il lavoro.”
Luke scosse la testa. “Non è la prima persona a dirmelo.”
“Deve accusarmi di un crimine o rilasciarmi. Dato che non ho commesso crimini, non c’è nulla di cui accusarmi. State infrangendo le vostre stesse leggi.”
Luke scrollò le spalle. “So che ha fretta perché domani sera ha un aereo da prendere.”
Boudiaf non fece alcun tentativo di nasconderlo. “Sì, esatto. Torno a casa.”
“Pensavo che casa sua fosse questa.”
“Lei è proprio sciocco.”
D’un tratto, Ed colpì nel segno. “Perderà l’aereo,” disse piano, con tono pratico.
L’idea fece arrabbiare Boudiaf. “Dovete rilasciarmi!” gridò. “Siete uomini morti, lo capite? Siete tutti uomini morti!” Poi si fermò e fece un respiro profondo, apparentemente accorgendosi di quello che aveva appena fatto.
“E perché siamo uomini morti?”
Boudiaf scosse la testa. “Non lo so.”
“Come moriremo?”
“Non so neanche questo.”
A Boudiaf crollarono le spalle, e il suo linguaggio del corpo cambiò. Un attimo prima era nervoso, sedeva bello dritto, pronto a resistere. Adesso si sistemava sulla sedia, apparentemente rassegnato a un terribile destino.
“Devo far arrivare un messaggio alla mia famiglia.”
Ed annuì. “Glielo manderemo noi. Questo posso prometterglielo.”
“Se siete onesti, trasmettete questo messaggio. Se non vengo rilasciato, devono salire sull’aereo senza di me e lasciarmi indietro.”
Boudiaf voleva che la sua famiglia se ne andasse. Prima che accadesse cosa?
Ora, nel ristorante, accostò l’auto. Era un SUV Navigator nero della Lincoln con finestrini oscurati, che si muoveva lentamente e con cautela sulle strade scivolose di neve. A volte per Luke era facile dimenticare che la nonna materna di Gunner era la discendente dell’uomo che aveva inventato la vernice per pavimenti nella metà dell’Ottocento; il suo prodotto era ancora in uso più di centocinquant’anni dopo. Ovvio, la fortuna originaria era stata diluita nelle generazioni successive, ma i nonni di Gunner avevano molto denaro.
Gunner frequentava una scuola privata e viveva in una grande villa di pietra in fondo a un lungo vialetto. Un autista lo portava dove voleva. Non respirava l’aria raffinata dell’élite miliardaria come le figlie di Susan, però…
Era un bene. Luke voleva solo il meglio per Gunner, cose che non avrebbe mai avuto se a pagare fosse stato il buon salario statale di Luke. E per quanto Luke avesse voglia di vederlo tutti i giorni, era un bene che Gunner vivesse in un posto dove la gente era sempre a casa. Non lo poteva fare col padre – Luke era via spesso.
Osservò il ragazzino smontare dall’auto, chiudere la portiera e, senza uno sguardo indietro, mettersi in cammino nella neve fino all’ingresso del ristorante. Indossava un lungo cappotto di lana grigia, stivali pesanti e aveva una sciarpa rossa avvolta attorno alla gola. Era alto e magro. A Luke ricordava un giovane gentleman inglese.
Luke sorrise. Il ragazzo stava facendo esperimenti con la sua immagine pubblica. Era quello che si faceva a quell’età.
Gunner entrò, fermandosi un attimo nell’atrio per pulirsi gli stivali dalla neve e dal fango. Percorse l’ala con semplice grazia e scivolò al tavolino, di fronte a Luke. Aveva gli occhi grandi e azzurri e sorrideva.
“Ciao, papà,” disse.
“Ciao, Gunner. Perché sorridi?”
Gunner scrollò le spalle. “Oggi niente scuola. E tu perché sorridi?”
Luke scrollò le spalle. “Per un pranzo a sorpresa con la mia persona preferita.”
Arrivò la cameriera, una donna sui quarantacinque. “Aspettava lui?”
Luke annuì.
Si portò una mano a lato del viso, come per impedire a Gunner di sentire quello che diceva. “È bello.”
Adesso sorridevano tutti. “Forse un po’ giovane, però,” disse Luke.
Fece l’occhiolino a Gunner. “Ok. Posso aspettare. Pronti per ordinare?”
Ordinarono uova, pancake, salsiccia, tutto quanto. Gunner prese il succo d’arancia. Luke si attenne a una tazza di caffè senza fondo. Poi si acclimatarono. Luke l’orario lo sentiva, ma d’altra parte era sveglio e al lavoro da prima delle cinque del mattino, e che cosa c’era di più importante di un po’ di tempo con suo figlio?